Mani anarchiche, mani nostalgiche, manicuore
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Mani anarchiche, mani nostalgiche, manicuore

La sfida d'inizio Novecento fra il corpo integro e le sue parti

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Mani anarchiche, mani nostalgiche, manicuore

La sfida d'inizio Novecento fra il corpo integro e le sue parti

Informazioni su questo libro

IT. Il testo intende esaminare lo stato di "frammentazione" dell'Io nell'Europa dei primi del Novecento, in particolare nella Vienna fin de siècle, allargando il discorso anche a un autore di maggior respiro per l'ampiezza dei suoi spostamenti come Rainer Maria Rilke. Come simbolo della "parte" che sostituisce l'armoniosa integrità, è stata scelta la manoche compare in modo vistoso in alcune opere di Leo Perutz, autore trascurato ma molto significativo di Vienna e di Praga, il già citato Rilke e, facendo una necessaria incursione – a mio giudizio imprescindibile –nell'ambito delle arti, i due allievi di Klimt: Kokoschka e Schiele, che, non casualmente, porranno in primo piano proprio "mani parlanti", raccontando con il segno e il colore la fine della figura tradizionale e lostravolgimento di un corpo "smascherato". In ognuno di questi autori ed artisti, la mano, autonoma, ribelle, a volte però pervasa da un'insopprimibile nostalgia dell'intero, sembra esprimere, quasi "gridare", la frattura dolorosa dell'epoca: la fine del "tutto" e la deflagrazione delle parti – immagine non a caso evocata anche per la fine dell'Imperoaustro-ungarico e quindi per lo scoppio delle guerre mondiali.EN. This text aims to examine the fragmentation of the self in early 20thcentury Europe, particularly in Fin-de-siècle Vienna, and focusesupon a writer of great significance for the extent of his travels: Rainer Maria Rilke. The hand, which is often central in the works of Leo Perutz, an undervalued but noteworthy writer who lived in Viennaand Prague, is seen as a symbol of the "part" that replaces a harmonious whole. Besides Rilke, the analysis touches on the arts through two of Klimt's students, Kokoschka and Schiele, who give pride ofplace to "speaking hands" in their works. In their paintings, the traditional representation of the human body shatters, and the body itself is unmasked and sometimes fragmented. With each of thesewriters and artists, the hand becomes autonomous, at times rebellious, all the while expressing a deep nostalgia for a whole that is being irredeemably lost. Furthermore, in this context, the hand can besaid to be evocative of the decline and fall of the Austro-HungarianEmpire, as well as of the start of the two World Wars.

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Informazioni

Editore
Quodlibet
Anno
2021
eBook ISBN
9788822912367
Mani anarchiche, mani nostalgiche, manicuore
Per la violenza della caduta le manette si erano spezzate. E le mani di Demba, quelle mani che si erano nascoste nella paura, indignate nel rancore, strette a pugno dalla rabbia, inalberate nel lamento, che mute avevano tremato nel loro nascondiglio, combattuto nella disperazione con il destino, che si erano ribellate con ostinazione contro le catene – le mani di Stanislaus Demba finalmente erano libere1.
Le mani di Demba, che sono il protagonista implicito per oltre 200 pagine, a causa proprio della loro assenza – paradosso che più tardi spiegherò – diventano ora, nel finale, il soggetto. Nelle frasi precedenti il soggetto erano stati gli occhi:
Solo i suoi occhi si muovevano. I suoi occhi vivevano. I suoi occhi erravano senza sosta per le strade della città, vagavano sopra giardini e piazze, si immergevano nella rumorosa confusione dell’esistenza, si precipitavano su e giù per le scalinate, scivolavano attraverso stanze e spelonche, si aggrappavano ancora una volta all’instancabile vita del giorno mai fermo, giocavano, mendicavano, lottavano per denaro e per amore, assaporavano per l’ultima volta la felicità e il dolore, l’esultanza e la delusione, furono vinti dalla stanchezza e si chiusero2.
Che si tratti di occhi o di mani, fanno comunque il loro ingresso in un romanzo del Novecento le parti del corpo come entità autonome. Il finale di Leo Perutz però è costruito con abilità: l’attenzione del lettore si concentra per prima cosa sull’atto del cadere, un precipitare violento, in realtà un suicidio3, che provoca, oltre alle «membra fracassate», la tanto desiderata rottura delle manette e quindi una paradossale libertà. Proprio ora, in punto di morte, quando nessuna azione e nessun agire ha più senso, né più spazio. Il titolo originale del romanzo non a caso era Freiheit4. Il discorso si fa allora esistenziale:
Quelle le porterò a vita. Le porta chiunque esca dal carcere. Non lo sapevi Steffi? La Giustizia infligge sempre le pene a vita. Chi esce dal carcere, deve nascondere le proprie mani, perché sono disonorate per sempre. Non potrà più porgere liberamente e apertamente la mano a nessuno, dovrà strisciare attraverso la vita con le mani timidamente nascoste, proprio come me, che oggi per dodici ore, con le mani sotto la mantella… ascolta! Sono già qui5.
Anche se il furto per il quale Demba è ricercato è piccola cosa – uno, due libri in biblioteca –, vale come colpa, la colpa incancellabile di fronte alla società, pur se questa società è gretta, ridicola, ottusa. O forse si tratta di una colpa esistenziale e fatale, kafkiana, cui l’individuo non potrà mai sottrarsi? Nasce dunque una forte dissonanza6 fra la statura del protagonista, pur colpevole, e la società viennese, teoricamente corretta e giusta. Demba è stato paragonato persino a un personaggio alla Dostoevskij nella sua implacabile e disperata corsa per le strade di Vienna7. Perutz sta sempre dalla parte di colui che perde, che resta isolato, che viene emarginato e punito: è la scelta “periferica” rispetto al “centro” che attuerà per ogni suo protagonista8. Poiché i periferici, i diversi, si portano dentro una storia di dolore che comunque li redime. E la morte che si autoinfligge Demba non ha un timbro autodistruttivo, bensì è un desiderio di riposo, per troppa stanchezza:
Ci sono persone, disse Demba, che la libertà non rende felici, Steffi. Solo stanche. Non venne risposta. Io ho desiderato la libertà. Con ogni fibra del mio corpo, Steffi. Ma mi sono solo stancato, ed ora voglio soltanto una cosa: riposare. Nessuna risposta. Dove sei, Steffi? Silenzio9.
In questa confessione umile all’amica Steffi – una diversa anche lei, segnata sul volto da una cicatrice che l’ha sfigurata – si percepisce infatti un dolore rassegnato e un profondo desiderio di pace. Mi ricorda l’addio del poeta senza memoria, Mancino, (alias Villon10) nell’ultimo romanzo apparso postumo, Il Giuda di Leonardo, che saluta il grande Leonardo con le parole:
«Je m’en vais en pays loingtain», disse allungando le mani verso i suoi amici per congedarsi da loro. «Vi prego, piangete con me i miei giorni andati! Sono svaniti, veloci come la spola del tessitore. Se mi fosse stato concesso di incontrare la morte presso i turchi o i pagani per il trionfo della fede, allora Dio avrebbe perdonato con gioia la mia vita di peccato. Tutti i santi e gli angeli del paradiso avrebbero danzato intorno a me e accolto la mia anima con salmi e al suono delle viole. Invece comparirò davanti al Tribunale divino per quello che sono e che sono sempre stato. Un bevitore, un suonatore, un fannullone, un attaccabrighe, uno che va a caccia di prostitute…». «Colui che governa la storia degli uomini sa che non sei niente di tutto questo, ma semmai un poeta», disse Leonardo, stringendo la mano di Mancino tra le sue11.
I paesi lontani che il grande poeta misconosciuto e dimentico di se stesso si appresta a raggiungere con rassegnazione e animo pacificato, sono forse «l’altro stato», la terra promessa dell’anima, quell’«intero» armonioso e definitivo che cita Leonardo:
Sterben. Ich nenne es anders: Er hat sich stolzen Sinnes dem Ganzen wieder zugesellt und ist damit der irdischen Unvollkommenheit entronnen12. (Morto, disse Leonardo. Io definirei la cosa in modo diverso. Egli si è ricongiunto con spirito orgoglioso alla totalità, sfuggendo così all’imperfezione terrena)13.
E quindi forse l’intero/tutto, «das Ganze», a cui si erano sottratte le mani di Demba nel 1918, ora, in ultimo, riappare come meta desiderata.
D’altra parte nel corso della vita Perutz ha sperimentato sconfitte, esilio, lutti, fughe. Ha combattuto in guerra e ha raccontato attraverso personaggi indimenticabili le sue esperienze14. Ha vissuto il crollo dell’Impero austro-ungarico cui sentiva di appartenere, la persecuzione nazista cui ha fatto in tempo a sfuggire, la demolizione dell’amato ghetto praghese che ricorderà nel suo capolavoro Di notte sotto il ponte di pietra e a cui dedicherà un nostalgico omaggio pieno d’amore.
Scrittore di origine ebraica nato nel 1882 e vissuto a Praga fino all’età di diciassette anni15, luogo che segnerà la sua scrittura e i suoi ricordi, tanto da dedicarle il grande romanzo Di notte sotto il ponte di pietra, Perutz si trasferisce con la famiglia a Vienna e da lì in poi si sente un vero suddito dell’Impero absburgico. Frequenta i caffè, gli scrittori, i teatri, ama Vienna forse con la stessa intensità con cui ha amato Praga. Forse, si potrebbe dire, come un uomo, piuttosto che un adolescente, ama una donna. Nei vicoli praghesi ambienterà la sua storia più intensa, l’amore dell’imperatore Rodolfo per la bella Esther, moglie di Mordechai Meisl, nella comunità del famoso Rabbi Loew16; su di un muro scrostato di Praga farà apparire l’immagine indimenticabile dell’Ecce Homo, sintesi utopica della riconciliazione fra ebrei e cristiani:
Di fr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Elements
  3. Frontespizio
  4. Indice
  5. Premessa
  6. Mani anarchiche, mani nostalgiche, manicuore
  7. Bibliografia
  8. Abstract
  9. Nota biografica
  10. Elements - Direzione e Comitato scientifico
  11. Elements - I titoli della collana