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Divertirsi da morire
Informazioni su questo libro
Divertirsi da morire di Neil Postman è una presa di coscienza collettiva dei caratteri distopici che la società in cui viviamo sta assumendo. Lo scenario però non è quello descritto da George Orwell in 1984, quello dell’abolizione della democrazia, della coercizione e della sorveglianza, della repressione del dissenso con la violenza: l’ambientazione è piuttosto quella immaginata da Aldous Huxley nel suo Il mondo nuovo, ovvero una distopia ben più insidiosa ed efficace, perché seducente, appagante, divertente. Nella società di Huxley la tecnologia
in tutte le sue manifestazioni esercita un controllo totale della cultura, sulla politica e sull’economia, in un futuro distopico che non sembra così lontano dal nostro presente, dominato dalle grandi piattaforme web, dal capitalismo della sorveglianza e dalla politica dei tweet. Un futuro dal quale Postman ci aveva già messo in guardia, concludendo apocalitticamente nella prima edizione di questo libro, nel 1985, che “una società fondata sulla televisione è una società barbarica”. L’avvento dei social, con la loro cultura del narcisismo e del sarcasmo come strumento di disgregazione sociale, sembra essere la naturale prosecuzione della sua profezia. Seguendo le traiettorie di Postman, non è lontano un futuro nel quale, nel nome dell’entertainment, una star di Tik Tok diventi presidente di una delle nostre democrazie: forse non ci apparirà come strano, ma, tuttalpiù, divertente.
in tutte le sue manifestazioni esercita un controllo totale della cultura, sulla politica e sull’economia, in un futuro distopico che non sembra così lontano dal nostro presente, dominato dalle grandi piattaforme web, dal capitalismo della sorveglianza e dalla politica dei tweet. Un futuro dal quale Postman ci aveva già messo in guardia, concludendo apocalitticamente nella prima edizione di questo libro, nel 1985, che “una società fondata sulla televisione è una società barbarica”. L’avvento dei social, con la loro cultura del narcisismo e del sarcasmo come strumento di disgregazione sociale, sembra essere la naturale prosecuzione della sua profezia. Seguendo le traiettorie di Postman, non è lontano un futuro nel quale, nel nome dell’entertainment, una star di Tik Tok diventi presidente di una delle nostre democrazie: forse non ci apparirà come strano, ma, tuttalpiù, divertente.
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Informazioni
parte prima
capitolo 1
Il mezzo di comunicazione è la metafora
Nei vari periodi della storia americana, lo spirito dell’America si è irradiato da città diverse. Alla fine del Settecento, fu a Boston che il radicalismo politico ha innescato la bomba il cui fragore fu udito in tutto il mondo: non avrebbe potuto scoppiare altrove. A quel rimbombo, tutti gli americani, persino i virginiani, si sentirono bostoniani in cuor loro. A metà Ottocento, New York è stata il simbolo di un’America crogiolo – non più solo inglese quindi –, all’epoca in cui i rifiuti umani di tutto il mondo sbarcavano a Ellis Island e diffondevano nel paese le loro lingue e i loro modi di vita. All’inizio del Novecento, Chicago, città di spalle robuste e di venti gagliardi, è il simbolo dell’energia e del dinamismo dell’America industriale. Sorge qui il monumento al fabbricante di carne in scatola, a ricordarci il tempo in cui l’America era il paese della ferrovia, degli allevamenti, delle acciaierie, delle imprese avventurose. Se questo monumento non c’è, bisognerebbe costruirlo, come il monumento al Minute Man* ricorda l’era di Boston, e la statua della Libertà ricorda l’era di New York.
Oggigiorno, è Las Vegas la metafora del carattere nazionale americano e delle sue aspirazioni; la gigantografia di una slot machine o di un balletto potrebbe esserne il simbolo. Perché Las Vegas esiste solo per il divertimento, e rappresenta bene lo spirito di una civiltà in cui ogni discorso pubblico prende sempre più la forma di spettacolo. Politica, religione, notizie, sport, educazione, economia, tutto è diventato un’appendice della grande industria dello spettacolo, e nessuno protesta, anzi nemmeno ci bada. Siamo tutti pronti a divertirci da morire.
Il nostro attuale [1985] presidente è un ex attore cinematografico. Nelle elezioni del 1984 gli è stato concorrente il protagonista di uno dei più spettacolari show televisivi degli anni Sessanta: un astronauta. Non per niente, di quell’avventura extraterrestre è stato subito girato un film. Un altro candidato alla presidenza, George McGovern, era apparso nel popolare programma televisivo Saturday Night Live [Sabato sera dal vivo], come pure il reverendo Jesse Jackson.
L’ex presidente Richard Nixon, che lamentava di aver perso le elezioni per colpa dei suoi visagisti, aveva suggerito al senatore Edward Kennedy come fare per restare in lizza: perdere una decina di chili. La Costituzione americana non lo dice, ma nessun ciccione potrebbe oggi concorrere per un alto incarico politico. Neanche un calvo lo potrebbe. Come pure nessuno che la cosmesi non riesca a rendere telegenico. Sui cosmetici, non sulle ideologie, gli uomini politici di oggi devono essere competenti.
I giornalisti televisivi sono aggiornatissimi. Sprecano più tempo con l’asciugacapelli che con i loro articoli, e sono perciò le persone più attraenti in questo mondo alla Las Vegas. La legge federale sulle comunicazioni non lo dice, ma chi non è dotato di fascino davanti alle telecamere è automaticamente escluso dai presentatori dei telegiornali. I più telegenici invece possono pretendere stipendi da oltre un milione di dollari l’anno.
Gli uomini d’affari hanno capito, prima di chiunque altro, che la qualità e l’utilità dei loro prodotti dipendono dal loro aspetto; almeno il 50 per cento dei principi del capitalismo decantati da Adam Smith e condannati da Marx non vale nulla. Persino i giapponesi, le cui automobili si dice siano migliori di quelle americane, sanno che l’economia è più un’arte da illusionisti che una scienza, come il budget pubblicitario annuo delle Toyota sta a dimostrare.
Qualche tempo fa, si è visto Billy Graham, con altri teologi, unirsi a Shecky Greene, Red Buttons, Dionne Warwick, Milton Berle nei festeggiamenti a George Burns, che celebrava i suoi ottant’anni di successi negli spettacoli di rivista. Il reverendo Graham si felicitava con Burns, che aveva aperto la strada verso l’Eternità. La Bibbia non lo dice, ma il reverendo Graham assicurava i telespettatori che Dio ama coloro che rallegrano il prossimo. Un errore scusabile: scambiava Dio con la NBC.
La psicologa Ruth Westheimer tiene un programma radiofonico molto popolare, in cui dà informazioni su tutte le infinite varietà del sesso, con un linguaggio riservato un tempo alle alcove e alle storielle da trivio. È divertente quasi quanto il reverendo Graham; ed è diventata famosa per aver affermato: “Non mi propongo di essere faceta. Ma se mi capita, ne approfitto. Mi trovano divertente? Benone! Se un professore durante la lezione usa un pizzico di umorismo, i suoi studenti ricordano meglio”.1 Non dice che cosa ricordano o quale uso fanno di ciò che ricordano. Quel che conta è comunque divertire. In America Dio predilige coloro che possiedono, oltre al talento, la capacità di divertire, siano essi preti, atleti, imprenditori, politici, insegnanti o giornalisti. I meno divertenti finiscono per essere i comici di professione.
I colti e i pedanti – come quelli che leggono il mio libro – avranno già capito che questi esempi non sono delle aberrazioni ma dei cliché. Non sono mancati i critici che hanno rilevato il disfacimento del discorso pubblico in America e la sua trasformazione in spettacolo. La maggior parte però si è limitata a spiegarci l’origine e il significato di questa caduta nella frivolezza. Ci dicono, per esempio, che è la conseguenza degli ultimi aneliti del capitalismo; oppure, all’opposto, il frutto insipido del capitalismo maturo; o il prodotto nevrotico dell’età di Freud; o il risultato della morte di Dio; o l’effetto degli eterni peccati: la sete di potere e l’ambizione.
Ho esaminato attentamente queste spiegazioni, e non nego che in esse ci sia qualcosa di vero. Marxisti, freudiani, levistraussiani, persino creazionisti non possono esser presi alla leggera. Mi meraviglierebbe d’altronde se si pensasse che ciò che andrò dicendo contenga tutta la verità. Siamo diventati tutti, come dice Huxley, dei Grandi Riduttori, nel senso che nessuno possiede l’intera verità, e non ha né il tempo per spiegarla, ammesso che creda di possederla, né il pubblico disposto ad accettarla. Esporrò un’argomentazione che ritengo possa colpire più chiaramente nel segno di quelle precedenti. Il suo valore consiste nella prospettiva da cui mi son posto, e che trae origine da certe osservazioni fatte da Platone 2300 anni fa. Fissa la sua attenzione sulla forma della conversazione umana, e postula che il modo usato per condurla ha la massima influenza sulle idee che si vogliono esprimere. Quel che le idee intendono esprimere diventa, ovviamente, il contenuto della cultura.
Uso il termine “conversazione” metaforicamente, per connotare non soltanto i discorsi, ma qualsiasi tecnica usata da una certa cultura per trasmettere dei messaggi. In questo senso, tutta la cultura è conversazione, o, meglio, è un insieme di conversazioni, condotte con i più svariati mezzi simbolici. Mi propongo di spiegare come le forme del discorso pubblico regolano e determinano il tipo di contenuto.
Per fare un esempio semplice, consideriamo la tecnica molto primitiva dei segnali col fumo. Non so quale fosse esattamente il contenuto dei segnali usati dagli indiani d’America, ma possiamo senz’altro escludere che si proponessero di trasmettere discussioni filosofiche. Gli sbuffi di fumo non sono abbastanza complessi per esprimere delle opinioni sulla natura dell’esistenza, e anche se lo fossero, un filosofo cherokee avrebbe dovuto sprecare un bel po’ di legna prima di arrivare al secondo assioma. Decisamente non si può adoperare il fumo per filosofeggiare. La forma esclude il contenuto.
Prendiamo un esempio più vicino a noi: sarebbe impensabile oggi avere come candidato alla presidenza il panciuto William Howard Taft, ventisettesimo presidente, con i suoi centotrenta chili di stazza lorda. Le dimensioni del corpo non hanno nessun rapporto con le idee espresse, quando ci si rivolge al pubblico per iscritto o per radio, o, magari, con il fumo. Sono invece essenziali alla televisione. Centotrenta chili sono veramente troppi per le sottigliezze di qualsiasi logica. Con la televisione, il messaggio è in gran parte trasmesso per mezzo dell’immagine, che è come dire che la televisione parla per immagini. La comparsa sull’arena politica del responsabile dell’immagine e la scomparsa dell’estensore dei discorsi dimostrano che la TV provoca un tipo diverso di contenuti. Non si fa filosofia alla TV. La forma è contro il contenuto.
Prendiamo un altro esempio, un po’ più complesso: l’informazione, il contenuto, o, se preferite, la “materia” di quello che oggi si è soliti chiamare “le notizie del giorno” non esistevano – non potevano esistere – in un mondo in cui mancavano i mezzi per dar loro espressione. Non già che incendi, guerre, assassinii e vicende amorose non accadessero in ogni parte del mondo. Mancando però una tecnica per diffondere l’informazione, la gente non era in grado di occuparsene, non poteva includerle nella propria vita quotidiana. Semplicemente non entravano a far parte del contenuto della cultura. Questa idea – che esiste un contenuto chiamato “le notizie del giorno” – è stata creata dal telegrafo (e successivamente amplificata dagli altri mezzi di comunicazione), che ha reso possibile portare rapidamente e a grandi distanze le informazioni fuori del loro contesto. Le notizie del giorno sono un’invenzione della tecnica. Sono, ancor più precisamente, il prodotto del mezzo. Assistiamo a frammenti di ciò che accade in ogni parte del mondo, perché la molteplicità di mezzi di cui disponiamo sembra fatta apposta per trasmetterci informazioni frammentarie. Le culture prive di mezzi rapidi di comunicazione – le culture, cioè, nelle quali gli sbuffi di fumo sono gli unici strumenti disponibili a questo scopo – non hanno le notizie del giorno. Senza un mezzo adatto, le notizie del giorno non esistono.
Per dirla il più semplicemente possibile, il mio libro è una ricerca e una deplorazione sul fatto più significativo della seconda metà del XX secolo: il declino dell’era della tipografia e l’ascesa dell’era della televisione. Sono mutati in modo drammatico e irreversibile il contenuto e il significato del discorso pubblico, perché due mezzi così diversi non possono accordarsi con le stesse idee. Con il decadere dell’influenza della carta stampata, il contenuto della politica, della religione, dell’educazione, e di quant’altro sia oggetto di interesse pubblico deve cambiare ed essere rifondato in termini adatti alla televisione.
Se tutto ciò riecheggia l’aforisma di Marshall McLuhan, che il mezzo è il messaggio, non sarò io a rifiutare quest’associazione (anche se è di moda farlo tra studiosi rispettabili che, se non fosse per McLuhan, oggi sarebbero muti). Ho conosciuto McLuhan trent’anni fa, quando io ero studente e lui era uno sconosciuto professore. Pensavo allora, e lo penso tuttora, che parlasse nella tradizione di Orwell e di Huxley – cioè come un profeta – e sono rimasto legato al suo insegnamento, che il modo migliore per capire una cultura è quello di prestare attenzione agli strument...
Indice dei contenuti
- Divertirsi da morire
- Indice
- Divertirsi da morire
- Parte prima
- Parte seconda
- Bibliografia