Introduzione
La legittimità del pugnale
The rite of killing the king, or a substitute king, is usually represented as fertility magic.
Edward Hyams
Si assicurò che la lama fosse ben affilata, il ceppo saldo, stirò deltoidi e trapezio facendo roteare il capo e attese che calasse il silenzio. Richard Brandon sapeva, come tutta l’Inghilterra, che quella testa sul punto di rotolare lontana dal corpo non era una testa qualunque, erano secoli di Diritto Divino, secoli di giustificazioni bibliche dell’Autorità, secoli di scolastica e bolle papali e leggi saliche e decreti, che si apprestavano a zampillare e scorrere via da quel collo reciso. Data fatidica il 30 Gennaio 1649, la testa quella di Carlo I Stuart Re d’Inghilterra e l’esecuzione gli venne pagata 30 denari, in luogo dei 15 d’uso per esecuzioni ordinarie, poiché la testa d’un deposto re valeva almeno il doppio rispetto a quella di un comune condannato a morte, così era stato pattuito dall’Alta Corte Giudicante.
Richard Brandon, il boia, era in quel momento il traghettatore da un vecchio sistema, di cui ben troppo si conoscevano forme, trame e costumi di dominazione, ad un nuovo sistema di cui ancora tutto si ignorava ma di cui già molto si fantasticava e si era fantasticato, almeno da quando Tommaso Moro, un secolo e mezzo prima, imprigionato nella Torre di Londra, scrisse la sua Utopia.
L’unica cosa certa in quel frangente, era il suo ruolo di boia, che restava invariato. In lui si incarnava ormai la sola legittima continuità del potere e difatti, nella folla assiepatasi tutt’attorno al predellino eretto di fronte al Banqueting House Whitehall – sede all’epoca del Parlamento – per assistere all’esecuzione del sovrano deposto, tutti lo fissavano non solo col timore abituale e impuro che la figura del boia ha da sempre incarnato, ma con un sentimento nuovo, quasi rassicurante, perché in quegli anni di disordini e guerra civile, almeno – si diceva la folla – ancora si poteva contare su di lui, il boia, eterno ed unico braccio della Legge, inamovibile nel suo ruolo, chiunque fosse a farla quella Legge.
Monarchia, Commonwealth, Tirannia, tutto poteva cambiare, l’autorità legiferante è relativamente poco rilevante ed assolutamente interscambiabile. In nome di Dio, del Popolo, della Volontà del Singolo, d’una qualsiasi altra Maiuscola, poco importa da chi la legge pretenda di esalare e poco importano gli sforzi della giurisprudenza per trovarvi la giustificazione d’una legittimità che si perde nelle acque torbide della prevaricazione originaria, in fondo al processo di emanazione della Legge vi è solo lui, il boia, l’unico, perenne ed ultimo esecutore legittimo della forza, Legge in carne ed ossa, poiché senza la mannaia guidata dalle sue braccia la Legge resterebbe solo carta vergata, vuota parola.
Con quella testa rotolante, un intero mondo franava in un vuoto istituzionale di cui nessuno sapeva valutare né l’entità, né lo sprigionamento di forze e lo scatenarsi degli spettri metafisici del Potere, così di colpo scoperchiato, liberandoli e lasciandoli volteggiare ed aggirarsi nel mezzo della confusione generale, infestando le menti tanto dei più sottili sofisti, fini sobillatori e arguti retori, quanto dei più impreparati tramaglini qualunque, fra folle vagolanti per il regno immerso nel caos, in cui la peste della sedizione imperversava, spesso armi alla mano, assoldati ora da questo ora da quell’attruppamento o soldatesca, sventolanti gli uni i più astrusi e strepitanti proclami, gli altri i più lambicati e starnazzanti editti, in un gioco di strida al rialzo a chi la raccontava più grossa, in cui di bocca in bocca e bocca ad orecchio, ogni sintetica maiuscolata allegoria e simbolo, come «Giustizia», «Libertà», «Uguaglianza», ogni compendiata idea in parola, «Autorità», «Diritto», «Legittimità», eccetera, dal cielo dell’impensato e del filosoficamente arzigogolabile, diventavano quotidiane come il sale sulla tavola, il pane, il vino e il letame, strumenti atti a forgiare forche, erigere spalti, osannare tribuni e linciare avversari. Il regno degli Arcana Imperii, solitamente restio a darsi in spettacolo, sgambettava ora per il regno d’Inghilterra come una scostumata ballerina da cabaret, disponibile, inoltre, a prestarsi ad ogni uso illecito nei camerini per qualche nichelino.
Ma questo è discorso d’essenze e le essenze son sempre difficili da maneggiare e da far ingoiare, bisogna indorare la pillola, agghindare la sobria verità, pavesarla, poiché il modo d’agghindarsi è assolutamente fondamentale: un uomo nudo è un uomo nudo e basta, ma un uomo nudo con la corona in testa è un Re nudo; sull’accessorio posa sovente il fondamento, l’attributo modifica l’entità della sostanza e l’incarna, ed è per questo che non fu sufficiente dire che il re era destituito, che gli si tagliava la testa, punto e basta. «It is a stern business killing of a King!», ricorderà Carlyle. Bisognava cucire una contro-legittimità alla sua, avvolgere il suo assassinio dietro un paravento di nuove ragioni, ricamare in tutta fretta un’aggiornata metafisica dell’Autorità, e a questo compito, da subito, nel suo piccolo studiolo dell’appartamento in High Holborn a Londra, dal 1 Dicembre 1648 stesso, giorno in cui l’esercito arrestò il re e lo recluse nell’Hurst Castle nell’Hampshire, si dedicò John Milton – futuro autore del Paradise Lost e già dell’Areopagitica, libello in favore dell’assoluta libertà di stampa – cominciando la redazione del The Tenure of Kings and Magistrates (Il Mandato dei Re e dei Magistrati).
Pubblicato appena due settimane dopo l’esecuzione di Carlo I, il libello di Milton ne fornisce una giustificazione teoretica, basando il suo ragionamento sostanzialmente su tre assunti, che bisognerà tener ben presenti per comprendere gli sviluppi successivi di una teoria politica che, dalla difesa del regicidio, giungerà al suo apice, con il libello di Edward Sexby, a teorizzare l’assassinio «as a political means», in quanto strumento politico.
Il primo assioma della giustificazione miltoniana è che il potere del re e dei magistrati deriva dal popolo, di cui re e magistrati sono dei semplici mandatari, e questo popolo può quindi sempre revocar loro la carica se e quando lo desidera.
Il secondo assioma, che consegue dal primo, ci dice che, essendo il re niente più che un semplice rappresentante del popolo, egli deve rispettare il bene di quest’ultimo, ovvero il cosiddetto «bene comune» e che quando non rispetti questa legge non scritta, egli diventa allora tiranno – confermando qui quanto già, sulla scia dei classici greco-latini, aveva succintamente riassunto nei Ricordi Guicciardini, ovvero: «Non furono trovati e’ prìncipi per fare beneficio a loro, perché nessuno si sarebbe messo in servitù gratis, ma per interesse de’ populi, perché fussino bene governati. Però come uno principe ha più rispetto a sé che a’ populi, non è più principe ma tiranno» (B 95) – da cui quindi, in quanto tiranno, legittimamente condannabile, come Milton dimostra del resto assai facilmente – da gesuita autodidatta – attraverso numerosi esempi tratti dal Vecchio Testamento.
Il terzo assioma è più problematico dei precedenti, poiché si avventura su concetti spigolosi e sfuggenti, forieri d’aporie irrisolvibili, coi quali del resto Milton evita le sottigliezze, cercando di trarsi d’impiccio evitando cavilli. La questione, in sostanza, è questa: per giustificare l’uccisione del detentore della legittima proprietà legislativa – il re essendo colui da cui la legge emana e che incarna al contempo quello «stato d’eccezione» di schmittiana memoria che precede ogni legge (ovvero «il sovrano avendo il potere legale di sospendere la validità della legge, si pone legalmente fuori legge» detto altrimenti «la legge è fuori di se stessa», riassume Agamben) –, Milton invoca una legge «superiore» ed un tribunale «superiore» rispetto alla legittimità incarnata dal sovrano stesso, che però risultano assai difficili da trovare e persino difficile risulta capire da chi tale legge «superiore» dovrebbe emanare, quale giurisprudenza «superiore» dovrebbe reggerne le istanze e quale dunque il suo tribunale.
Milton tuttavia non si premura di fornirne risposta, perché in fondo le cose sono due: o risposta non c’è, o la sola che si potrebbe fornire è talmente oscena che egli preferisce tacerla, lasciando che sia, come vedremo, il libello di Sexby ad enunciarla.
Stando così le cose, con un regicidio che in fondo, nonostante i tempestivi tentativi, male si giustificava a livello giuridico-teorico, e che non trovava dunque la sua ragion d’essere se non nel colpo di mano di un Parlamento ridotto ormai al ruolo di tirapiedi di un esercito vittorioso, guidato dal famigerato, per taluni, prode, per altri, Oliver Cromwell, la situazione non poteva che precipitare in tutti i sensi e, nello spazio vuoto, che sempre più si allargava, lasciato dal libello di Milton, s’aprì la voragine delle teorizzazioni – ed era del resto fattuale che a risolvere quel 30 Gennaio 1649, fatidico come s’è detto, non sarebbe bastato certo un libello in gongoriana prosa barocca –, e con essa la voragine degli eventi, i cui sussulti...