Caldo
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Breve storia dello scioglimento dell'Artico

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Breve storia dello scioglimento dell'Artico

Informazioni su questo libro

Quando visitò l’Artico per la prima volta negli anni Ottanta, Mark Serreze era un giovane studioso, pieno di entusiasmo ma poco convinto che gli esseri umani giocassero davvero un ruolo importante nelle variazioni climatiche. Quando, diversi anni più tardi, Serreze volle rivedere la zona dei suoi primi studi, si trovò di fronte a una sconvolgente sorpresa: l’area era quasi completamente sparita, ridotta a qualche chiazza di ghiaccio sporco e destinato a sciogliersi del tutto di lì a breve. Caldo. Breve storia dello scioglimento dell’Artico parte da quella sorpresa e racconta la vicenda che, attraverso decenni di esplorazione e ricerca sul campo, ha portato Serreze a cambiare idea, diventando così uno dei più influenti e ascoltati attivisti al lavoro affinché gli esseri umani creino una società globale unita e capace di tutelare al meglio il nostro pianeta.

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capitolo 1

gli inizi
Raramente si riconoscono le svolte della vita prima che siano già passate. Nel mio caso, la svolta è avvenuta nel 1981. Dopo lunghi anni privi di una chiara direzione, finalmente imbroccai la strada giusta iscrivendomi a un corso di laurea in Geografia fisica all’Università del Massachusetts. Avevo iniziato l’università nel 1978 da studente di Astronomia e Fisica, ma per una serie di ragioni, nessuna delle quali merita di essere approfondita, decisi di prendere una direzione diversa. L’aspetto positivo era che una laurea in Geografia era meglio di nessuna laurea. L’aspetto negativo era che quanto avevo già appreso sulle scienze dure era sufficiente soltanto a irritare i miei amici, non certo a essere idoneo al corso.
Fortunatamente, la mia scelta ha dato buoni risultati. Mi sono trovato nel posto giusto e al momento giusto per approfittare di questa opportunità e vedere una parte del mondo dove, al tempo, pochi si erano avventurati. Sei mesi dopo, mi trovavo su un Twin Otter [un bimotore turboelica, NdT] dotato di sci, diretto al versante nord-orientale dell’Isola di Ellesmere, nell’Alto Artico canadese, per iniziare un dettagliato studio relativo a due piccole cappe di ghiaccio. Fui incantato dal Nord, così decisi di diventare un climatologo dell’Artico. Nel 2016, le due cappe si erano quasi del tutto sciolte, vittime dello scioglimento dell’Artico. All’epoca, non avrei mai potuto immaginare niente di simile. Non potevo sapere che decidendo di diventare uno scienziato del clima mi ero conquistato una poltrona in prima fila per osservare come, seppur a singhiozzo, i cambiamenti dell’Artico cominciavano a essere notati. E neppure potevo sapere che sarei diventato parte di una crescente schiera di scienziati che, prima, dovettero confrontarsi con prove contrastanti per cercare di capire cosa stava accadendo, ma che poi non poterono evitare di giungere alla conclusione che era in corso una trasformazione radicale. Non potevo prevedere che la ricerca climatica sull’Artico, un tempo dominio di una piccola comunità di scienziati innamorati della neve e del ghiaccio, sarebbe diventata centrale nella missione di comprendere gli effetti del cambiamento climatico globale. Una missione che avrebbe coinvolto migliaia di scienziati da ogni parte del mondo.
tracciare una rotta
Era un pomeriggio piovoso quando venni a sapere che il dottor Raymond Bradley, professore associato al dipartimento di Geologia e Geografia, stava tenendo corsi in climatologia e paleoclimatologia (il clima del passato).1 Sembrava roba molto interessante, così mi iscrissi a entrambi.
Fin dalle scuole elementari, sapevo che il clima della Terra aveva già subito alcuni cambiamenti in passato, ma prima di frequentare i corsi di Ray non avevo idea di come questi cambiamenti fossero collegati a cose come le variazioni periodiche della configurazione orbitale terrestre, la composizione atmosferica dei gas serra, le eruzioni vulcaniche, la variabilità solare e i feedback climatici. Per i corsi, Ray attinse in parte alle sue stesse ricerche, che si focalizzavano sul clima artico del passato e del presente. Aveva scritto il suo primo paper accademico nel 1972, quando, ancora dottorando, aveva scoperto che la tendenza al riscaldamento globale iniziata attorno al 1880, particolarmente visibile durante le stagioni invernali e sull’Artico, era diventata una tendenza al raffreddamento attorno agli anni Quaranta.2 Più avanti aveva documentato un ulteriore brusco raffreddamento nell’Alto Artico Canadese, iniziato attorno al 1963/1964, che sospettava potesse essere collegato a una massiccia iniezione di polvere nell’alta atmosfera seguita all’eruzione nel 1963/1964 del Monte Agung, un vulcano piuttosto scorbutico e ancora attivo situato a Bali, in Indonesia.3 Venne fuori che il raffreddamento notato da Ray e altri era un fatto temporaneo, ma che per un certo tempo incoraggiò le speculazioni, decisamente gonfiate dai media, sul fatto che il pianeta stesse entrando in una lunga fase di raffreddamento. Essendo affezionato a quelle grandi tempeste di neve in grado di bloccare tutte le attività commerciali, trovavo che l’idea di un pianeta che si raffredda fosse decisamente accattivante. Nel mio profondo speravo in un’era glaciale, nonostante una parte degli studiosi del clima si occupasse delle sempre più diffuse controargomentazioni secondo le quali, a causa dell’innalzamento dei livelli di anidride carbonica misurato dall’Osservatorio di Mauna Loa, il pianeta avrebbe dovuto iniziare a riscaldarsi, soprattutto nelle regioni polari.
Mike Moughan era un compagno qualche anno più vecchio di me, e uno dei dottorandi di Ray, con cui ero in buoni rapporti. Sfruttando intensamente il computer centrale CDC Cyber Systems dell’università, Mike stava analizzando i dati relativi alla temperatura e alle precipitazioni provenienti dalle stazioni meteorologiche dell’Artico Canadese (che avevano nomi affascinanti come “Resolute Bay”, “Alert” ed “Eureka”) per capire meglio la variabilità e le tendenze recenti nel clima della regione. Il suo lavoro di vera ricerca climatica sembrava proprio figo, e lui aveva l’aria del vero scienziato mentre camminava per i corridoi del Morrill Science Center carico di fogli stampati al computer, portando con sé un nastro magnetico a nove piste.
Volevo diventare parte di tutto ciò. L’opportunità giunse quando Mike decise che il dottorato non faceva per lui e piantò in asso Ray. Ray accettò di offrirmi una borsa di studio su suggerimento di Mike, per finire il lavoro da lui iniziato, al compenso apparentemente principesco di 5 dollari all’ora. Mike mi mostrò come entrare nel computer centrale del CDC Cyber System e come editare le routine SPSS che stava utilizzando. Dopo essermi arrampicato su per una ripida curva d’apprendimento, divenni abbastanza competente da elaborare i grafici per Ray. Adesso ero io il tipo figo che faceva avanti e indietro dal Centro di elaborazione.
All’inizio del 1982, Ray mi chiese che piani avessi per il futuro e mi disse che, se mi fossi sentito pronto, aveva bisogno di un assistente sul campo per la prossima estate di lavoro nell’Artico. Accettai entusiasta. Ray sottolineò anche che avrei dovuto candidarmi al dottorato per prendere il posto di Mike. E io mi candidai.
Il progetto di Ray prevedeva di ricostruire la storia glaciale delle Isole Regina Elisabetta, che sono parte dell’Arcipelago artico canadese. Al tempo, quest’area faceva parte dei Territori del Nord-Ovest, mentre oggi sono parte di Nunavut. Il progetto prevedeva il recupero e l’analisi di campioni dei sedimenti dei laghi artici, compresa una serie di piccoli corpi d’acqua dolce chiamati Laghi Beaufort, vicini alla costa nord-orientale dell’Isola di Ellesmere. La ricerca di Ray era stata coordinata con il dottor John England dell’Università di Edmonton.
Grazie a una proposta ben formulata, Ray aveva convinto la statunitense National Science Foundation (NSF) a sostenere un piccolo progetto aggiuntivo, che riguardava un paio di vicine, piccole e immobili cappe glaciali che si trovavano a circa 1000 metri di altezza sull’Altopiano di Hazen (fig. 1). Come imparai rapidamente, la NSF è un’agenzia federale cruciale, che sostiene la ricerca e l’educazione di base nei settori delle scienze e dell’ingegneria che non riguardano la medicina; la sua controparte medica è invece il National Institute of Health.
L’obiettivo di questo progetto parallelo era di fare luce su un’idea avanzata nel 1975 da Jack Ives dell’Università del Colorado, riguardante le grandi calotte di ghiaccio continentali formatesi nel Pleistocene.4 Era noto da tempo che durante gli ultimi due milioni di anni, o giù di lì, si erano succedute svariate ere glaciali, separate da caldi periodi interglaciali come quello in cui viviamo oggi.
Ives pensava che le grandi calotte di ghiaccio dell’America del Nord del passato, la più recente delle quali è il Laurentide, la cui estensione massima risale a circa 25mila anni fa, si formarono inizialmente attraverso l’accumulazione di neve sull’altopiano canadese del Labrador-Ungava. Se il clima si fosse raffreddato per qualche ragione, allora il limite delle nevi sarebbe dovuto scendere al di sotto dell’altitudine della maggior parte della superficie dell’altopiano. Le temperature tendono a scendere più si sale in altitudine, e oltre una certa quota fa così freddo che la neve che cade durante l’inverno sopravvive alla stagione estiva dello scioglimento. Questa altitudine determina il limite delle nevi.
Il calo dell’altitudine del limite delle nevi al di sotto del livello della superficie dell’altopiano avrebbe aumentato la riflessività della superficie stessa (vale a dire, il suo albedo), riducendo la quantità di energia solare che viene assorbita, raffreddando quindi ulteriormente il clima sull’altopiano, favorendo la sopravvivenza di un albedo ancora superiore durante l’estate successiva e così via. La neve alla fine si comprime fino a diventare ghiaccio, formando ghiacciai che col tempo si uniscono formando infine una calotta glaciale. Poiché il manto nevoso iniziale si espande rapidamente attraverso questo meccanismo di feedback, il processo è stato soprannominato, con una considerevole esagerazione, formazione istantanea. Già nel 1875, James Croll, nel suo libro Climate and Time in Their Geological Relations: A Theory of Secular Change of Earth’s Climate (“Il clima e il tempo nelle loro relazioni geologiche: una teoria sul cambiamento secolare del clima terrestre”), aveva sottolineato quanto il meccanismo di feedback dell’albedo fosse un processo climatico importante. Aveva anche notato come lo stesso meccanismo potesse funzionare pure al contrario: condizioni più calde generano meno neve e ghiaccio, abbassando l’albedo e favorendo un ulteriore riscaldamento.
Il ritmo grosso modo ciclico delle ere glaciali e interglaciali del passato implicava una forza climatica che fosse a sua volta ciclica. Nel 1976, utilizzando i dati provenienti dai fondali oceanici, James Hays, John Imbrie e Nick Shackleton fornirono prove convincenti relative a come le principali ere glaciali e interglaciali del Pleistocene avessero seguito il ritmo delle variazioni nella geometria orbitale terrestre chiamate cicli di Milanković.5 Questi cicli, che prendono il nome dal geofisico e astronomo serbo Milutin Milanković, si riferiscono alle variazioni dell’eccentricità orbitale terrestre (deviazione dall’orbita circolare), della sua inclinazione e degli orari degli equinozi (precessione). Queste variazioni influenzano la quantità di energia solare che raggiunge la parte superiore dell’atmosfera a diverse latitudini e in diversi periodi dell’anno. Sebbene fin dal Diciannovesimo secolo esistessero teorie astronomiche in grado di spiegare il cambiamento climatico, non erano mai state verificate attraverso l’osservazione diretta. Considerare i cicli di Milanković come fossero un metronomo permetteva anche di capire che le condizioni orbitali che favoriscono l’insorgere delle calotte di ghiaccio (in particolare, le estati fredde alle latitudini più elevate dell’emisfero settentrionale) avevano in seguito dato vita ai vari feedback climatici, tra cui quello dell’albedo. È ormai noto come quello del carbonio sia uno dei feedback principali: raffreddandosi, l’anidride carbonica fuoriesce dall’atmosfera e viene immagazzinata negli oceani, raffreddando ulteriormente il clima.
Anche se gli effetti dei cicli di Milanković non avevano niente a che fare con il temporaneo cambiamento che aveva causato il raffreddamento dell’Artico discusso da Ray nel suo paper del 1972, questo stesso raffreddamento, attraverso il potenziale collegamento con i feedback dell’albedo, fu uno dei temi scientifici chiave nello studio delle cappe glaciali. “Quanto appare fallace tutto questo, oggi”, ricorda Ray pensando alla fase di raffreddamento. “Al tempo era però abbastanza accurato: inverni più freddi e bagnati sull’Isola di Baffin ed estati più fresche, di conseguenza il manto nevoso sull’altopiano si stava effettivamente espandendo”.
La strategia dello studio sulle cappe glaciali sostenuto dalla NSF era di posizionare una stazione meteorologica sulla cima della più grande delle due cappe per misurare la temperatura dell’aria, i flussi dell’energia solare, l’albedo e altre variabili. Avremmo poi confrontato questi dati con le misurazioni raccolte da altre stazioni, situate a distanze variabili oltre il limite della cappa glaciale e a un’altitudine simile. Osservare le differenze ci avrebbe informato su come la cappa stesse influenzando il clima locale e quanto gli effetti si estendessero oltre i suoi margini. Si trattava di una valutazione locale di alcune delle idee racchiuse nella teoria sulla formazione istantanea dei ghiacciai. Io stesso, nella primavera del 1982, spesi moltissimo tempo a testare i registratori di dati (chiamati microloggers)...

Indice dei contenuti

  1. Caldo
  2. Indice
  3. Prefazione
  4. Premessa
  5. Elenco degli acronimi
  6. Capitolo 1. Gli inizi
  7. Capitolo 2. Non è più quello di una volta
  8. Capitolo 3. L’Artico è in agitazione
  9. Capitolo 4. Unaami
  10. Capitolo 5. Epifania
  11. Capitolo 6. Un brusco risveglio
  12. Capitolo 7. Guardando avanti
  13. Epilogo