Capitolo II
La sceneggiata e la vita nel basso
Il Festival Nazionale dell’Unità del 1976, che si svolse presso la Mostra d’Oltremare del quartiere di Fuorigrotta, offrì al pubblico un cartellone internazionale di spettacoli teatrali, dal Teatro Campesino di Luiz Valdez ai Berliner Ensemble di Bertolt Brecht, accanto ad una selezione del meglio della produzione culturale napoletana, tra cui la riedizione di Natale in Casa Cupiello diretta da De Filippo, la sperimentazione di Leo De Berardinis, e il ritorno sulle scene della sceneggiata ’O zappatore con Luigi Teano. Fu proprio quest’ultima a riscuotere il maggior afflusso di pubblico, replicando davanti a più di dodicimila spettatori. Lo spettacolo fu accompagnato da una tavola rotonda in cui critici teatrali, attori, cantanti e giornalisti dibatterono sul valore artistico e sociale della sceneggiata classica. Gli anni settanta erano intrisi di una ricerca teatrale politica ed impegnata e, come spesso accade, molti intellettuali guardavano con un certo atteggiamento di superiorità all’intrattenimento popolare offerto dalla sceneggiata, considerata una disimpegnata e fuorviante rappresentazione delle classi popolari e del Sud Italia. Per la Napoli borghese ed istruita, il fatto che la sceneggiata fosse considerata l’essenza della napoletanità, era quasi un fattore di cui vergognarsi. A fronte del gruppo di critici di sinistra che puntavano il dito contro il passatismo anacronistico della sceneggiata, ve n’era una minoranza che invece dimostrava di apprezzare il genere, sottolineando il talento dei cantanti e la sua valenza storica e socio-antropologica. È rimasto celebre l’intervento dal palco di Beniamino Placido che, difendendo il suo mestiere ed additando lo snobismo degli intellettuali di sinistra, li criticò aspramente perché non capivano che la sceneggiata aveva per le classi proletarie di Napoli un valore simile a quello che il teatro politico di Brecht aveva per i borghesi e gli eruditi. Il dibattito pubblico alla Festa dell’Unità dimostra che la sceneggiata era divenuta, nei sessant’anni trascorsi dalla sua nascita, un terreno di scontro ideologico tra diverse visioni sull’identità culturale di Napoli che seguivano linee di demarcazione geografica, tra i quartieri storici del centro e quelli di più recente costruzione come il Vomero e l’Arenella, e sociale, tra il popolo che rimaneva maggiormente legato ad alcune tradizioni e la borghesia che tentava di affrancarsi da un certo modo folclorico di raccontare Napoli.
Il genere della sceneggiata si sviluppò a partire dal 1915 come esigenza da parte degli artisti napoletani di aggirare una nuova tassa introdotta dal governo nazionale che aveva deciso che gli incassi derivati dagli intrattenimenti musicali, molto popolari agli inizi del secolo, sarebbero stati tassati del 2%. Per evitare questa imposta, nacque l’idea di scrivere dei copioni che integrassero le canzoni e la musica con la recitazione e con una trama più simile alla prosa. A differenza dell’avanspettacolo e del varietà che erano assemblati per lo più con una modalità libera, come un collage di pezzi cantati e recitati senza continuità tematica, la sceneggiata cominciò a strutturare le parti cantate attorno ad una storia che avesse un arco drammaturgico, e che prevedesse un’evoluzione sia dei personaggi che della trama. La peculiarità della sceneggiata classica era che gli autori invece di scrivere brani musicali pensati appositamente per il teatro, sceglievano canzoni già note a tutti, rese famose in radio da grandi cantanti dell’epoca o suonate per le strade di Napoli dai gruppi di posteggiatori. La trama della sceneggiata si sviluppava pertanto attorno a questa canzone, che forniva il titolo alla singola sceneggiata e ne diventava il tema portante. La canzone veniva generalmente accennata nel primo atto dal protagonista ed era poi cantata come gran finale nel terzo atto. Il richiamo esercitato dal titolo famoso della canzone assicurava pubblico e successo.
Su quale sia stata in assoluto la prima sceneggiata non c’è unanimità. Secondo alcuni si tratterebbe di Pupatella, scritta da Libero Bovio su musica di Francesco Buongiovanni e portata in scena nel 1916 a Napoli dalla Compagnia Maggio-Coruzzolo-Ciaramella. Secondo altri, lo spettacolo Pupatella non era così dissimile dall’avanspettacolo fatto di canzoni inframmezzate da testi recitati senza una vera continuità, mentre la prima vera sceneggiata sarebbe stata nel 1919 a Palermo l’opera Surriento gentile della Compagnia Cafiero-Marchetiello-Diaz. Di certo c’è che la Compagnia Cafiero-Marchetiello-Diaz può essere considerata a buon diritto il gruppo teatrale che stabilì i canoni della sceneggiata così come si venne definendo nei decenni successivi. La sceneggiata classica era strutturata in tre atti. La scena normalmente rappresentava una porzione di vicolo, uno slargo o comunque una zona esterna di un quartiere popolare. Il primo atto introduceva l’atmosfera collettiva del vicolo, i personaggi principali e le dinamiche relazionali tra loro. Normalmente i protagonisti erano due giovani innamorati, una coppia già sposata o in procinto di convolare a nozze. Il marito lavorava duramente, o era un disoccupato alla ricerca spasmodica di una maniera legale per far sopravvivere la sua famiglia, mentre la moglie si occupava dei figli e della casa. In questa situazione tipo si inseriva il terzo incomodo, in genere un giovane guappo, vagamente affiliato con la malavita o comunque incline ad azioni disoneste, che insidiava le virtù della donna. I tre costituivano il triangolo amoroso che a Napoli divenne proverbiale come «isso, essa, e ’o malamente» e attorno a cui si sviluppava l’intera azione drammatica. Il secondo atto offriva una pausa comica all’intreccio. Spesso verteva sulle dinamiche di un’altra coppia formata dal cosiddetto mammo, che potremmo definire come il tonto della situazione, e dalla vaiassa, donna vigorosa, sensuale, sveglia e svelta di intelletto. In questo caso, la comicità derivava dal fatto che il rapporto di potere tra uomo e donna veniva sovvertito in quanto era la vaiassa ad essere intraprendente nei confronti dell’uomo che, invece, risultava impacciato o manipolato da lei. Il terzo atto portava a compimento la trama con una serie di variazioni sul tema: la moglie che aveva ceduto alle avance del guappo veniva smascherata in pubblico e punita, a volte con la morte, altre volte con lo sfregio del viso da parte del marito tradito. Poteva anche accadere che i due uomini si affrontassero in una zumpata, una sfida coi coltelli, e che uno dei due soccombesse, mentre l’altro veniva arrestato e rinchiuso in galera. Più raramente, accadeva che isso, offeso nell’onore, abbandonasse il vicolo, la città e la famiglia ed emigrasse per non dover più sopportare le maldicenze dei vicini e la vista della donna traditrice.
La sceneggiata classica
Un’analisi della sceneggiata classica deve vertere necessariamente su due fronti: l’aspetto artistico e quello sociologico della rappresentazione della vita nel vicolo. L’enorme successo del genere fino agli anni cinquanta, ma anche il rinnovato interesse del pubblico per gli adattamenti cinematografici degli anni settanta, può essere spiegato solo nella concomitanza dei due aspetti, quello teatrale e quello sociale. La sceneggiata riempiva i cartelloni dei teatrini dei quartieri Porto, Mercato e Pendino, ovvero nei luoghi geografici della città, vicoli e piazze, che venivano poi rappresentati sulla scena. Mentre le precedenti forme di teatro popolare come l’avanspettacolo e il varietà intrattenevano e divertivano, fungendo da momenti di fuga dalla realtà quotidiana, con la sceneggiata ci troviamo davanti ad un fenomeno più complesso. L’elemento di piacere e divertimento è indiscusso. Gli artisti che si esibivano sul palco possedevano voci da tenore, basso e soprano e maneggiavano con esperienza le tecniche canore e recitative. Tuttavia, oltre al puro intrattenimento esisteva un importante elemento catartico offerto dal fatto che gli abitanti dei vicoli del centro di Napoli, i pescivendoli, le lavandaie o i bottegai, vedevano rappresentata sul placo la propria vita e le esperienze che essi facevano quotidianamente. Andare a teatro a vedere una sceneggiata voleva dire partecipare ad un atto collettivo di auto-riconoscimento, di empatia e di compartecipazione con la rappresentazione scenica, perché quest’ultima appariva familiare e vera per il pubblico proletario di inizi Novecento.
Gli artisti sul palco erano spesso essi stessi cittadini del vicolo, o lo erano stati da piccoli. La sceneggiata classica era un affare di famiglia anche per chi la rappresentava. Le compagnie teatrali erano spesso composte da consanguinei che, come con la commedia dell’arte, vivev...