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SALVADOR BRILLA, BRASILIA BRUCIA
Salvador, marzo 1964
Il sole è già basso sulle case variopinte di Salvador quando Gilberto Gil si lascia alle spalle la grande porta metallica che dà accesso agli studi di Tv Itapoan, la più importante emittente televisiva a Bahia. Si è fermato per pochi secondi all’angolo della strada lasciandosi accarezzare dalla brezza che dalla Baia de Todos os Santos risale verso la parte alta della città. Poi ha preso a marciare verso il rettorato dell’Universidade Federal da Bahia, nel quartiere di Canela. Un gruppo di ragazze lo ha riconosciuto e adesso lo accompagna con lo sguardo fino a vederlo scomparire nel groviglio di strade che porta verso il molo, poco più in basso. Qualche istante prima, chitarra alla mano, si è esibito per il pubblico di J&J Comandam o Espectáculo, il programma musicale presentato da Jorge Santos e José Jorge Randam. Per chi sogna una carriera artistica è un palco privilegiato e Gil, che da tempo è impegnato a ritagliarsi il proprio spazio nella scena musicale della città, ha la fortuna di frequentarlo dal 1962, ovvero da quando aveva partecipato come autore e fisarmonicista al disco del gruppo vocale As Três Baianas. Il 78 giri in cera di carnauba conteneva un unico brano intitolato «Bem Devagar» ma era bastato ad attirare l’attenzione dei discografici della JS Discos che nel ’63 avevano deciso di pubblicare il suo disco d’esordio come solista, Gilberto Gil. Sua música, sua interpretação. Eppure, la vita del giovane bahiano non può ancora essere consacrata esclusivamente alla musica. I genitori hanno insistito perché si iscrivesse all’università e così, dal 1961, Gil è iscritto alla facoltà di Economia e amministrazione delle imprese. Nonostante i buoni risultati, però, lo studio occupa un ruolo marginale nella vita movimentata di Gil, che ai libri preferisce il fermento culturale che anima la capitale bahiana in quel periodo. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, infatti, Salvador sperimenta un periodo particolarmente florido sul piano culturale. Come accaduto qualche tempo prima a Rio de Janeiro, anche a Salvador l’organizzazione studentesca União Nacional dos Estudantes fonda il CPC, ovvero il Centro de Cultura Popular attorno al quale graviteranno numerosi giovani artisti che contribuiranno al rinnovamento culturale brasiliano. Le basi ideologiche del CPC si fondano sull’esperienza di alcuni membri del Grupo Teatro Arena di São Paulo che, insoddisfatti del repertorio medioborghese del teatro brasiliano, avevano messo in scena lo spettacolo sperimentale A Mais-Valia Vai Acabar, seu Edgar di Oduvaldo Vianna Filho e Chico de Assis. L’opera era il tentativo di stimolare, per la prima volta in Brasile, la coscienza collettiva sulla necessità di creare una cultura nazionale, popolare e democratica, come scriverà Carlos Estevam Martins nel suo «Anteprojeto do Manifesto do Centro Popular de Cultura».
L’esperienza culturale più importante che la città di Salvador vive in questi anni, però, va ricercata nell’operato di Edgard Santos. Rettore dell’Universidade Federal da Bahia dal 1946 al 1961, le sue idee visionarie gli consentiranno di restituire all’Università un ruolo centrale nel panorama culturale brasiliano e di trasformare Salvador in un punto di riferimento per le avanguardie internazionali. Per raggiungere l’obiettivo, Santos si era avvalso di una strategia raffinata basata sull’ampliamento della proposta formativa universitaria con una serie di attività trasversali che mai, prima d’allora, erano state contemplate dagli ambienti accademici brasiliani. In questo modo aveva attirato a Salvador molte delle eccellenze delle avanguardie europee, che avevano trovato in Brasile non solo la soluzione personale alla crisi sociopolitica dell’Europa nel secondo dopoguerra, ma anche nuovi stimoli per alimentare le proprie carriere.
Tra gli intellettuali più in sintonia con le politiche di Edgard Santos figura senza ombra di dubbio l’architetta italiana Lina Bo Bardi, arrivata in Brasile nel 1946 insieme al marito Pietro Maria Bardi, cui era stata affidata la direzione del MASP, il Museo de Arte de São Paulo. Il MASP, un enorme parallelepipedo in vetro sospeso tra due grandi pilastri rossi che domina la avenida Paulista, è la prima di una serie di opere che l’architetta italiana realizzerà a São Paulo. Tra queste, la Casa de Vidro nel quartiere di Morumbi, la nuova sede del Teatro Oficina con la quale si aggiudicherà il premio della Biennale di Praga nel ’99 e la sede del centro sociale SESC Pompeia. A Salvador, invece, Bo Bardi arriva su invito del governatore Juracy Magalhães alla fine degli anni Cinquanta, con il compito di progettare il Solar da Unhão, la nuova sede del Museu de Arte Moderna da Bahia che dirigerà fino al 1964. Durante questi anni Bo Bardi cercherà sempre un contatto con l’università e, soprattutto, con le attività promosse da Edgard Santos, con il quale entra in perfetta sintonia. Sarà la stessa architetta a parlarne nel saggio «Cinco Anos Entre os “Brancos”», sostenendo che «il lavoro al museo era iniziato abolendo la cultura stabilita della città, cercando l’appoggio dell’università e degli studenti, aprendo il museo gratuitamente al popolo e cercando di sviluppare al massimo l’attività didattica».
Sotto la guida del regista e scenografo brasiliano Eros Martim Gonçalves, invece, nasce la Escola de Teatro dell’Universidade Federal da Bahia che ridonerà vigore alle attività del grande Teatro Castro Alves a Salvador. Al regista si deve il merito di aver dato respiro internazionale al teatro nazionale, introducendo in Brasile il metodo Stanislavskij. È il primo, inoltre, a mettere in scena classici europei come L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht e il Caligola di Albert Camus. Sulla falsariga di quanto accade per il teatro, Santos promuove la nascita della Escola de Dança, che viene guidata prima dalla ballerina polacca Yanka Rudzka e, più tardi, dal tedesco Rolf Gelewski. La visionarietà del rettore, però, non si limita soltanto all’universo artistico ma tocca anche dimensioni più squisitamente accademiche. Nel tentativo di ridare valore alle radici africane di Bahia, affida allo storico portoghese Agostino da Silva il compito di fondare il Centro de Estudos Afro-Orientais, che si imporrà come il più importante punto di riferimento per la cultura afrobrasiliana in Brasile.
Il frutto più emblematico del lavoro svolto da Edgard Santos resta comunque l’istituzione nel 1954 dei Seminários Livres de Música che nel giro di qualche anno si consolideranno nella Escola de Música dell’università del Bahia. A dirigere i corsi viene chiamato il compositore tedesco Hans-Joachim Koellreutter, che era arrivato in Brasile nel 1937 per sfuggire alla violenza del regime nazista. Fortemente influenzato dall’opera di Hermann Scherchen, una delle figure più attive ai Ferienkurse di Darmstadt, Koellreutter importa in Brasile una nuova idea di musica contemporanea che vedrà la sua maggior espressione nell’esperienza del gruppo Música Viva, al quale aderiranno talenti brasiliani come Claudio Santoro, César Guerra-Peixe e Edino Krieger. A guidare il gruppo è un vero e proprio manifesto programmatico che guarda alla musica come alla più alta espressione del pensiero e del sentimento umano, e che si pone come obiettivo la salvaguardia della musica brasiliana e il rinnovamento della musica classica. Partendo da questi presupposti, Koellreutter contribuisce a introdurre e radicare in Brasile le teorie sulla dodecafonia di Arnold Schönberg, avvalendosi tra l’altro di talentuosi musicisti tra cui Ernst Widmer e Anton Walter Smetak, violoncellista e artista plastico che proprio a Salvador intensifica lo studio e la ricerca di nuove fonti sonore, ricorrendo a materiali inusuali come pvc e polistirolo per costruire nuovi strumenti che prenderanno il nome di «plastiche sonore». Le attività didattiche della Escola de Música da Universidade Federal da Bahia vengono affiancate da una serie di concerti negli spazi del rettorato: esecuzioni di opere firmate da John Cage e Pierre Boulez.
Gilberto Gil è arrivato da pochi minuti, si è fatto spazio tra la folla di giovani che riempie la grande sala concerti ed è andato a sedersi accanto all’amico che lo stava aspettando. Il ragazzo, sorriso triangolare e chioma rigogliosa, ha un nome più lungo del consueto: Caetano Emanuel Viana Teles Veloso, ma si presenta a tutti come Caetano Veloso. È arrivato a Salvador insieme a sua sorella, Maria Bethânia, chiamata a cantare nello spettacolo di Álvaro Guimarães O Primo da Califórnia, di cui Caetano ha scritto le musiche. Gil e Caetano si erano conosciuti l’anno prima grazie al produttore Roberto Santana e da allora avevano stretto una forte e complice amicizia. Entrambi erano stati stati travolti dalla rivoluzione della bossa nova e dalla voce melodiosa di João Gilberto, anche se Gil ama in egual misura Jorge Ben, che l’anno prima aveva pubblicato il suo album d’esordio Samba Esquema Novo con la celeberrima «Mas Que Nada».
In platea, un attimo prima che il concerto inizi, è arrivato un altro giovane musicista bahiano. Si chiama Antônio José Santana Martins, ma col tempo passerà a utilizzare il nome d’arte di Tom Zé. È il cugino di Roberto Santana, e come Gil frequenta gli studi di Tv Itapoan, dove ha raggiunto la notorietà grazie al programma Escada Para o Sucesso. Se Gil si era fatto conoscere per un repertorio più ancorato alle tradizioni melodiche della bossa nova, quella di Tom Zé è invece un’inedita miscela di cultura popolare condita da un’ironia effervescente, capace di imprimersi in modo indelebile nella memoria dell’ascoltatore. A dispetto di quanto si potrebbe credere, però, Tom Zé vanta una cultura musicale trasversale che tocca la dodecafonia e le teorie sull’armonia di Paul Hindemith. È iscritto, infatti, alla Escola de Música, dove studia violoncello, composizione e armonia con Koellreutter, Smetak e Widmer.
Quando il sipario si apre, i tre giovani puntano gli occhi verso il palco quasi all’unisono. Al centro, soltanto il pianoforte e il pianista americano David Tudor, che vi è seduto di fronte. Tudor ha appena indossato dei guanti bianchi, ha impugnato un orologio e ora rimane a guardarlo per quattro minuti e trentatré secondi esatti, nell’happening che John Cage aveva intitolato «4’33’’». Poi si alza, raggiunge una radio poco distante e la sintonizza su una frequenza a caso. Dagli altoparlanti, una voce gracchiante esclama: «Radio Bahia, cidade de Salvador». Il pubblico ride. I tre giovani musicisti, invece, sono impietriti, travolti dal vortice di sentimenti che, per ora, non possono decifrare ma che presto li condurrà verso una rivoluzione epocale.
Prima, però, un’altra rivoluzione, questa volta drammatica, si prepara a sconvolgere le sorti del paese. Brasilia, la nuova capitale che l’allora presidente Juscelino Kubitschek aveva inaugurato come simbolo di progresso politico ed economico, inizia a bruciare.
Brasilia, 31 marzo 1964
Il Palácio da Alvorada, a Brasilia, ha un’aria spettrale. Le uniche luci accese sono quelle dei riflettori che illuminano i longilinei pilastri in cemento progettati da Oscar Niemeyer. Il presidente João Goulart avrebbe dovuto esserci, e invece Jango, come lo chiamano i brasiliani, è su un volo diretto a Porto Alegre, nello stato del Rio Grande do Sul. È spaventato, Jango, e ha ragione. Qualche ora prima gli hanno fatto sapere che il generale Olímpio Mourão Filho sta marciando con le sue truppe da Belo Horizonte verso Rio de Janeiro. Nello stesso momento, in un’azione combinata, le truppe del 2° Battaglione dell’esercito marciano verso la capitale, Brasilia. Non è una marcia pacifica. Tutt’altro. È il risultato del forte clima di tensione che ha afflitto il paese nei mesi precedenti e che adesso è arrivato al punto di collasso. Sin dal suo insediamento, nel 1962, sul governo di João Goulart grava la forte crisi finanziaria ereditata dai predecessori. Il presidente aveva provato a farvi fronte con le «Reformas de Base», una serie di riforme a carattere nazionalista che prevedevano un maggior intervento dello Stato nell’economia nazionale. Le misure economiche e sociali proposte da Jango interessano in tutto sedici macroaree, dall’agricoltura all’istruzione, ma com’è facile intuire è la riforma agraria ad avere maggior impatto sugli equilibri del paese. Il governo Goulart aveva proposto una sorta di democratizzazione della terra che passa attraverso l’espropriazione, da parte dello Stato, dei latifondi improduttivi, in cambio di un risarcimento erogato in titoli di stato e non in denaro. È la prima volta che accade.
Viene inoltre esteso ai lavoratori rurali lo statuto dei lavoratori urbani con i diritti che ne conseguono, viene introdotto il diritto di sciopero, e vengono implementate alcune misure volte a garantire una maggior giustizia fiscale. Inoltre, il diritto di voto è concesso agli analfabeti, che in quegli anni rappresentano una fetta consistente della popolazione. È per questo che le Reformas de Base coinvolgono anche l’istruzione. Nel tentativo di ridurre il tasso di analfabetismo viene proposta l’introduzione nelle scuole del Metodo Paulo Freire, con il quale il pedagogo brasiliano era riuscito ad alfabetizzare trecento tagliatori di canna da zucchero in appena quarantacinque giorni. Nella storia travagliata del Brasile è la prima volta che una forza di governo prova a coinvolgere le masse nella vita politica ed economica del paese, nel tentativo di trovare una soluzione definitiva al problema del sottosviluppo che affligge l’America del Sud.
Per sostenere il proprio piano programmatico, Goulart può contare sulle menti più brillanti del paese, tra cui il ministro dell’economia Celso Furtado, teorico del sottosviluppo come forma di organizzazione sociale capitalista e non come tappa obbligata per lo sviluppo, e del ministro dell’educazione Darcy Ribeiro, raffinato antropologo che durante la sua vita si occuperà di indios e di identità latinoamericana. Sul fronte opposto, però, le forze conservatrici sembrano più forti e determinate. Gli obiettivi perseguiti da Goulart si scontrano inesorabilmente con l’oligarchia brasiliana composta da industriali, proprietari terrieri, borghesia paulista e alte gerarchie ecclesiastiche e militari.
La tensione è alle stelle. Il 13 marzo João Goulart chiama a raccolta in Praça da República, davanti alla stazione Central do Brasil di Rio de Janeiro, duecentomila persone tra studenti, lavoratori e sindacalisti, per il suo comizio in difesa delle Reformas de Base. È il tentativo di ottenere l’appoggio delle masse popolari. Per quanto accorata, però, l’arringa di Jango non riscuote gli effetti sperati. La dura risposta dell’opposizione, che intravede nel piano programmatico di Goulart lo spettro del comunismo, arriva il 19 marzo, a São Paulo: quattrocentomila scendono in strada contro il governo in quella che chiamano Marcha da Família com Deus pela Liberdade. Per le forze oscure che da molto attendono di prendere il potere è il segnale che i tempi sono maturi. I giorni che seguono servono a militari, gerarchie cattoliche, latifondisti e imprenditori per mettere a punto il piano per il golpe civico militare, coadiuvati dall’ambasciatore statunitense Lincoln Gordon e dal capo di stato maggiore Humberto Castelo Branco.
È per questo che João Goulart, inquieto sull’aereo che è appena atterrato a Porto Alegre, sta fuggendo. Quando arriva nella casa del comandante del 3º Exército, ad attenderlo c’è il governatore e leader della sinistra Leonel Brizola, che chiama alla resistenza. Jango non trattiene le lacrime. Nello stesso istante i militari marciano su Rio de Janeiro, dove un commando di trenta uomini invade la redazione del giornale O Globo, impedendo ai giornalisti di lavorare all’edizione del 1° aprile. Il 2 aprile sulla prima pagina della testata si annuncia la fuga di Goulart e il ristabilimento della democrazia. Le pagine a seguire sono affollate di frasi altisonanti: «Fermeremo la bolscevizzazione del paese», «Il Brasile ripudia la sua cubanizzazione» e, ancora, «Come Minas Gerais si è sollevata per difendere la democrazia». Sono menzogne. Nel giro di qualche giorno, infatti, i militari, che avevano garantito di restituire il potere al parlamento, mostrano le loro reali intenzioni. Il 9 aprile, l’autoproclamatosi Comando Supremo da Revolução emana l’Ato Institucional n. 1 con il quale vengono sospesi per sei mesi la Costituzione e per dieci anni i diritti civili di ogni oppositore politico. Viene indetta, inoltre, l’elezione indiretta del presidente della repubblica che porterà al potere il generale Humberto de Alencar Castelo Branco. Nei due mesi successivi al golpe civico militare vengono cassati i diritti di 441 figure politiche, tra cui gli ex presidenti Juscelino Kubitschek, Jânio Quadros e João Goulart, vengono licenziati 2985 dipendenti pubblici e 2757 militari perché non in linea con il nuovo regime. I CPC, centri di cultura popolare che in tutto il Brasile avevano contribuito a formare una generazione di artisti e intellettuali, vengono definitivamente chiusi e ne viene proibita la riapertura. È l’inizio di una delle fasi più drammatiche della storia brasiliana.
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IL GRUPPO DEL VILA VELHA
Il Cine Guarani è il più antico cinema della città. È stato costruito nel 1917 per ospitare 1047 spettatori. Sul suo grande schermo bianco, nel 1930, i soteropolitani – gli abitanti di Salvador – hanno potuto assistere alla proiezione del primo film parlato della storia: Innocents of Paris, con Maurice Chevalier. Ma è a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta che, grazie alla gestione illuminata di Francisco Pithon, il Guarani riesce a imporsi definitivamente come una delle istituzioni più importanti nella vita culturale di Salvador. È qui che l’élite culturale bahiana si nutre di grandi classici americani come La tunica di Henry Koster – il primo film al mondo girato in CinemaScope – o apprezza eccellenze cinematografiche nazionali come Redenção di Roberto Pires, il primo lungometraggio brasiliano. Quando, invece, non è l’élite culturale a occupare le poltrone del Cine Guarani, allora la platea si popola degli studenti della Universidade Federal da Bahia che su quel maxischermo possono ritrovare le opere dei registi esordienti che, promette Pithon, faranno parlare di sé. Tra questi c’è Glauber Rocha, un giovane regista che da Vitória da Conquista si è trasferito a Salvador per seguire le lezioni di Eros Martim Gonçalves. Nei primi anni Sessanta a Glauber manca ancora l’esperienza necessaria per girare lungometraggi, ma si è fatto le ossa con i corti. E poi non perde una serata al cineclub e di coraggio ne ha da vendere. Così quando nel 1962 gli propongono di girare il suo primo film, Barravento, non esita un istante. Per Rocha, che ha già le idee chiare su cosa significhi essere un regista, è l’occasione per provare a fare del cinema lo strumento necessario alla trasformazione sociale. Uma câmera na mão e uma ideia na cabeça (Una videocamera in mano e un’idea in testa), come spesso lo si sente dire quando parla del suo lavoro. Per riuscirci, però, dovrà attendere ancora un paio d’anni.
Il 10 luglio del 1964, dalla facciata ...