Le misure del tempo
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Le misure del tempo

  1. 267 pagine
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Le misure del tempo

Informazioni su questo libro

Quanto dura un giorno su Saturno? Chi ha inventato i fusi orari? Che cos'è un anno di Brahma? In quale epoca geologica viviamo? E perché nel 1867 in Alaska ci furono due venerdì consecutivi? Per misurare il tempo l'umanità scandisce la propria storia in ere, millenni e secoli, e siamo abituati a pianificare le nostre vite sullo scorrere di mesi e anni, di ore e minuti. Ma come e perché sono nate queste unità di misura? Se lo è chiesto Paolo Gangemi, matematico e giornalista scientifico votato alla divulgazione creativa. Ogni capitolo del libro è dedicato a una di esse, e racconta le circostanze che hanno portato alla sua nascita, i risvolti scientifici e gli sviluppi storici. E molte, moltissime curiosità. Emerge una panoramica ampia e documentata sulle difficoltà e i compromessi, a volte piuttosto bizzarri, che studiosi e legislatori hanno dovuto affrontare per stabilire regole e convenzioni per misurare lo scorrere del tempo. Non un volume di divulgazione sul concetto di tempo, quindi, ma tante storie da scoprire. Un libro ricco di informazioni, ma soprattutto scorrevole e divertente da leggere, in grado di soddisfare il lettore con uno specifico interesse scientifico e chi voglia semplicemente seguire percorsi insoliti e curiosi gustando il piacere della lettura.

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Informazioni

eBook ISBN
9788875789916
Argomento
Storia

Capitolo 1

Ere ed eoni

L’occhio di Krishna. I cicli temporali religiosi e filosofici

In età ellenistica c’erano due divinità associate al tempo. Crono (Κρόνος, Krónos) era un dio della cosmogonia greca tradizionale, l’equivalente del romano Saturno: figlio di Urano, aveva spodestato il padre per poi subire la stessa sorte a opera di Zeus. Incarnava il tempo “empirico”, cioè quello che possiamo percepire e misurare: da qui il prefisso crono-, diffusissimo oggi in parole di uso comune come cronologia o cronometro.
Eone (Αἰών) era invece la personificazione del concetto di aión, associato in vari modi alla durata, alla vita, all’età, ai tempi lunghi e anzi illimitati: già Platone lo usava per descrivere l’eternità del mondo perfetto delle idee in opposizione al tempo finito della caduca realtà visibile. Il sostantivo aión, legato etimologicamente all’avverbio αἰεί (aièi, “sempre”), ha dato origine all’italiano eone, usato oggi in varie accezioni per indicare periodi di tempo sterminati, a volte determinati e altre indeterminati.
In seguito il termine è entrato anche nel cristianesimo e in particolare nel Nuovo Testamento, scritto appunto in greco e influenzato in parte anche dalla filosofia greca ed ellenistica. Nella teologia cristiana gli eoni diventano per la prima volta lassi di tempo definiti. Il primo eone ha una durata finita (anche se enorme): dalla creazione del mondo alla sua fine. È in questo senso che compare in uno dei versetti più belli e famosi dei Vangeli (Matteo 28,29). È l’ultima frase pronunciata da Gesù, quella con cui si accomiata dai discepoli con una promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Così suona la versione tradizionale, ma alcuni filologi preferiscono lasciare il termine originale: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino al compimento dell’eone». Forse meno emozionante, ma anche più fedele. Altri ancora traducono «sino alla fine dell’età presente», a sottolineare che ce ne sarà un’altra. E quest’altra è il secondo eone, cioè l’eternità atemporale che seguirà. È una delle caratteristiche più significative del cristianesimo: la concezione di un tempo lineare, in contrapposizione al tempo ciclico – più intuitivo sulla base dell’osservazione del cielo – che caratterizza la maggior parte delle altre culture.
I cicli forse più chiacchierati – e spesso poco conosciuti – sono quelli immaginati dai maya nel loro Lungo Computo. Alla base del ciclo c’era il giorno, chiamato kin; i suoi multipli erano calcolati quasi sempre secondo il fattore 20, perché il sistema di numerazione maya, a differenza di quello decimale “europeo”, aveva come base 20. Secondo alcuni, il motivo è il fatto che i popoli precolombiani non usavano in generale scarpe chiuse, e quindi tendevano più facilmente a conteggiare anche le dita dei piedi.
I tempi dei maya
Kin
1 giorno
Winal
20 kin = 20 giorni
Tun
18 winal = 360 giorni (circa 1 anno)
Katun
20 tun = 7.200 giorni (circa 20 anni)
Baktun
20 katun = 144.000 giorni (circa 394 anni)
Piktun*
20 baktun = 2.880.000 giorni (circa 7.890 anni)
Calabtun*
20 piktun = 57.600.000 giorni (circa 158.000 anni)
Kinchiltun*
20 calabtun = 1.152.000.000 giorni (circa 3 milioni di anni)
Alautun*
20 kinchiltun = 23.040.000.000 giorni (circa 63 milioni di anni)
* Nomi dati dagli studiosi a cicli temporali comunque concepiti dai maya.
L’unica eccezione al ciclo vigesimale era il tun, pari a 18 winal, cioè 360 giorni; questo serviva ad avere un’approssimazione dell’anno solare: un periodo di 400 giorni se ne sarebbe discostato troppo. Anche se il Lungo Computo era indipendente dai cicli solari, un appiglio ai tempi astronomici faceva comodo, ogni tanto.
La durata totale del Lungo Computo è di 13 baktun ed è il ciclo che, in base alle interpretazioni degli archeologi, era considerato un’era del mondo; la fine di ognuno di questi cicli comporterebbe dunque eventi significativi e cambiamenti importanti. Secondo alcuni studiosi un ciclo era iniziato l’11 agosto del 3114 a.C. e si è concluso pertanto il 21 dicembre 2012. È questo calcolo che ha portato alcuni a parlare di “profezia maya apocalittica”, interpretando (male) la fine del ciclo come la fine del mondo. Un’idea che, verso la fine del 2012, ha acquisito notevole popolarità mediatica, suscitando qualche timore nei più sprovveduti, ma anche notevoli esercizi di satira. Come le previsioni meteo: «Il tempo per domani 21 dicembre 2012. Cielo coperto in tutto il mondo con precipitazioni ignee anche di forte intensità. Temperature comprese fra un milione e due milioni di gradi».
Fra l’altro anche la data di inizio del ciclo precedente non è sicura: secondo altri potrebbe essere il 13 agosto anziché l’11, o addirittura il 15 ottobre 3374 a.C. In questo caso la fine del ciclo sarebbe avvenuta già il 24 febbraio 1753 (senza che nessuno se ne sia accorto: gli unici eventi riportati per quella data sono la nascita del pittore francese Henri-Pierre Danloux e quella del giurista tedesco Gerhard Philipp Heinrich Norrmann).
A dirla tutta, anche sulla durata del Lungo Computo non c’è accordo fra gli esperti: secondo alcuni dovrebbe durare non 13 baktun ma 20, e quindi coincidere con un piktun: sarebbe in effetti un’interpretazione più coerente con la numerazione in base 20, e minerebbe dalle fondamenta ogni riferimento al 2012.
Il periodo maya più lungo, l’alautun, è pari a circa 63 milioni di anni. Non breve, se si pensa che è passato poco più di un alautun dalla scomparsa dei dinosauri. Qualche specialista di archeologia precolombiana ha ipotizzato che l’alautun potrebbe essere l’unità di misura del tempo più lunga che abbia un nome.
In realtà non è così. Nella religione induista Brahma è uno dei tre dei della Trimurti (la trinità), insieme a Shiva e Visnù. Per lui lo scorrere del tempo è decisamente eccezionale, e a sua volta indipendente dai fenomeni astronomici. Per calcolarlo bisogna partire dagli “anni celesti”, ognuno dei quali corrisponde a 360 anni terrestri.
Il kalpa, pari a 4.320.000.000 anni terrestri, equivale a quasi 70 degli alautun dei maya: secondo il Guinness dei primati è la più lunga unità di misura del tempo esistente, e in effetti corrisponde con buona approssimazione all’età della Terra. Ma il kalpa è per Brahma solo un giorno, mentre la sua vita dura un mahakalpa (“grande kalpa”). Per dare un’idea delle cifre in ballo, un mahakalpa dura circa 5 milioni di alautun, o equivalentemente, in termini più concreti, oltre 20.000 volte l’età dell’universo, stimata in base ai modelli cosmologici più accreditati in 13,8 miliardi di anni. Trascorso un mahakalpa, Brahma muore, per poi rinascere dopo un mahapralaya (cioè una “grande notte”, pari ad altri 311.040.000.000.000 anni) e ricominciare così il ciclo.
Ma non è finita: al di sopra della Trimurti c’è Krishna, il Supremo. E l’intera vita di Brahma, i suoi 311.040.000.000.000 anni, non è che un battito di ciglia dell’occhio di Krishna.
I tempi induisti
Anno celeste
360 anni
Mahayuga
12.000 anni celesti = 4.320.000 anni
Kalpa (giorno di Brahma)
1000 mahayuga = 4.320.000.000 anni
Anno di Brahma
360 kalpa + 360 pralaya = 3.110.400.000.000 anni
Mahakalpa
100 anni di Brahma = 311.040.000.000.000 anni

Dal Big Bang alla fine dell’universo. I tempi astronomici

Fra le scienze, l’astronomia (e in particolare la cosmologia) è ovviamente quella che ha a che fare con i tempi più lunghi. E anche in astronomia esiste, seppure usato raramente, il termine eone. In campo scientifico le unità di misura devono avere un’utilità pratica e dunque una definizione precisa. Per gli astronomi, un eone corrisponde a un miliardo di anni: meno di un kalpa induista, ma molto più di un alautun maya. Dunque le galassie più antiche hanno compiuto 13 eoni e vanno per i 14, mentre il nostro Sole è nato circa 4,6 eoni fa e la Terra è leggermente più giovane: 4,54 eoni, cioè appena 60 milioni di anni (60 “millieoni”) meno del Sole. Nel suo complesso l’universo, secondo il classico modello del Big Bang, ha un’età di circa 13,8 eoni. Ed è anche l’età del tempo: nella fisica relativistica spazio e tempo formano un’unica entità a quattro dimensioni, che non possono esistere separatamente.
È una definizione di eone comoda e naturale: è l’unità di tempo più lunga che abbia senso, dato che ordini di grandezza superiori non descriverebbero l’età di nessun oggetto celeste esistente. D’altra parte potrebbe sembrare anche “minimalista”: rispetto alla durata sterminata (o addirittura infinita) degli eoni intesi in senso filosofico o religioso, un miliardo di anni è davvero un lasso di tempo ridicolo, talmente breve da non fare onore al suo nome così evocativo.
Ma il modello del Big Bang risponde solo alla domanda sull’origine dell’universo, non a quella sul suo destino. A questo proposito i cosmologi hanno elaborato diverse teorie. Dato che l’universo si sta espandendo, la sua evoluzione più intuitiva è un’espansione senza fine, in cui la densità della materia e la temperatura diminuiscono man mano. Secondo altri, invece, a un certo punto l’andamento si invertirà e comincerà una fase di contrazione, uguale e contraria a quella di espansione. La fine di questo processo sarà un Big Crunch in cui tutto precipiterà in un punto: il fenomeno opposto al Big Bang. E come l’istante del Big Bang, anche quello del Big Crunch rientra nella definizione di singolarità: un punto nello spazio-tempo in cui le leggi fisiche perdono di senso. Una variante di questo modello è quella del Big Bounce (“grande rimbalzo”): forse l’universo, alla fine della sua contrazione, una volta raggiunte le dimensioni subatomiche dove regnano le leggi della meccanica quantistica, non sparirà bensì “rimbalzerà”, dando il via a un altro universo ma senza passare per una singolarità. E così via, ciclicamente, senza un inizio e senza una fine. In questo modello, quindi, il tempo non ha un principio come nel Big Bang; o meglio, a ogni nascita di universo ricomincia anche il tempo.
C’è un altro modello di universo ciclico, sviluppato a partire dal 2005 dal cosmologo inglese Roger Penrose ed esposto nel suo libro del 2010 Cycles of Time: An Extraordinary New View of the Universe (“Cicli del tempo: una nuova, straordinaria visione dell’universo”), tradotto in italiano con il titolo Dal Big Bang all’eternità (per parafrasare il best seller di Stephen Hawking Dal Big Bang ai buchi neri). Penrose, professore emerito a Oxford, è considerato uno dei più grandi fisici teorici al mondo. Si è occupato di diversi settori della fisica e della matematica, fra cui la geometria dello spazio-tempo e i buchi neri: per queste ricerche ha ottenuto il premio Nobel per la fisica nel 2020. Ha lavorato a lungo con Stephen Hawking, e proprio da un’idea di Hawking nasce la sua teoria, chiamata cosmologia ciclica conforme. Il punto di partenza è la cosiddetta radiazione di Hawking dei buchi neri, oggetti mostruosi da cui nulla può uscire, neanche la luce. E che però, secondo Hawking, per le leggi della meccanica quantistica emettono energia sotto forma di radiazione. Di conseguenza, per l’equivalenza fra massa ed energia postulata dalla teoria della relatività, a ogni emissione di energia il buco nero perde anche una piccolissima quantità di massa: in parole semplici, anche se sembra strano, il mostro vorace che inghiotte tutto può anche “dimagrire”. A lungo andare, addirittura, il buco nero “evapora”, cioè perde tutta la sua massa e in pratica scompare. Naturalmente questo avviene in tempi lunghissimi, che per i buchi neri supermassicci possono essere dell’ordine di 10100 anni (10 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di anni). Se, come qualcuno ipotizza, esistono buchi neri ancora più massicci, allora i tempi di evaporazione possono salire a 10106 anni (un milione di volte il numero precedente). Cifre letteralmente astronomiche, difficili da misurare in eoni; il fatto è che se a noi un miliardo di anni sembra tanto è solo perché viviamo in una fase precoce della vita dell’universo, in cui questi sviluppi sono molto lontani dall’accadere.
Ora, secondo Penrose, mentre l’universo continua a espandersi, prima o poi tutta la materia verrà inghiottita dai buchi neri e quindi a un certo punto scomparirà (e con lei lo spazio e il tempo). Solo che, a differenza della teoria del Big Crunch, non scomparirà precipitando in un unico punto con accelerazione vertiginosa, ma in modo estremamente lento. Così anche il tempo non verrà risucchiato nel nulla, ma si esaurirà con una flemma estenuante.
A questo punto c’è la prima sorpresa. Il vuoto senza spazio e senza tempo che si verrà a creare, afferma Penrose, assomiglierà molto alla situazione che ha dato origine al Big Bang. E allora è facile capire cosa succederà: un nuovo Big Bang darà vita a un nuovo ciclo di vita dell’universo, come nel modello del Big Bounce, solo che in seguito a un’interminabile espansione anziché a una contrazione. Potrebbe risultare poco intuitiva un’associazione fra un punto infinitamente piccolo e un universo infinitamente espanso, ma in assenza di massa non si può misurare lo spazio e quindi non ha senso pensare a qualcosa più “grande” di qualcos’altro.
Una volta accettato questo punto, il passo successivo della teoria viene naturale: il Big Bang che ha dato vita al nostro universo sarebbe a sua volta il frutto dell’estinzione di un ciclo precedente. E così via: ogni ciclo deriva da quello precedente e genera quello successivo. Penrose chiama «eone» ognuno di questi cicli che vanno da un Big Bang a quello successivo: in pratica, ogni eone è un’intera vita dell’universo, dall’inizio alla fine. Altro che un miliardo di anni: qui sì che la parola è usata degnamente! La scelta di un termine già in uso poteva rischiare forse di ingenerare confusioni, ma Penrose non se ne preoccupa, sia perché in astronomia il senso minimalista di eone è poco diffuso, sia perché gli ordini di grandezza in gioco e gli stessi scenari di cui si parla sono talmente diversi fra loro da escludere ogni rischio di equivoci.
Come il Big Bounce, anche il Big Bang di Penrose non è una singolarità: due eoni consecutivi, quello alla fase finale e quello alla fase iniziale, si saldano in modo “liscio”. E qui arriva la seconda, grande sorpresa, una differenza notevole rispetto al modello del Big Bounce. La cosmologia ciclica conforme prevede infatti una p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Introduzione
  5. Capitolo 1. Ere ed eoni
  6. Capitolo 2. Secoli e millenni
  7. Capitolo 3. Anni
  8. Capitolo 4. Stagioni
  9. Capitolo 5. Mesi
  10. Capitolo 6. Settimane
  11. Capitolo 7. Giorni
  12. Capitolo 8. Ore
  13. Capitolo 9. Secondi e oltre