capitolo quarto
Vita infantile in un contesto
non-violento: il caso dei Semai
di Robert Knox Dentan
Il modo di vita non-violento dei Senoi della Malesia occidentale ha da tempo attratto l’interesse del mondo occidentale. Le popolazioni senoi più numerose sono i Semai e i Temiar.
Nel 1936 Kilton Stewart, che si era allora appena laureato in psicologia all’Università di Londra, compì tre brevi viaggi presso i Temiar al seguito di H.D. Noone, il primo antropologo a occuparsi diffusamente dei Senoi. Diversi anni dopo, Stewart ha pubblicato una serie di articoli sul modo con cui i Senoi sanno conservare la propria «salute mentale» tramite la manipolazione dei sogni.
Tali articoli hanno avuto un certo successo in America verso la fine degli anni Sessanta. In molti testi di analisi dei sogni compaiono riferimenti a una cosiddetta «terapia onirica senoi», e nella California meridionale è possibile trovare anche delle «cliniche oniriche senoi». Ma i Semai non trattano i propri sogni nel modo descritto da Stewart, e a mio avviso nemmeno i Temiar1.
La questione della non-violenza semai è stata affrontata più di recente da me e da C.A. Robarchek lavorando separatamente. Il mio primo tentativo di analisi, di stampo paleofreudiano, è disponibile in microfilm (Dentan, 1965). Oggi esso mi appare del tutto insoddisfacente, in quanto l’aggressività psichica vi è postulata prima di essere «scoperta». Successivamente, ho ancora affrontato l’argomento in un breve libro e in un lungo articolo (Dentan, 1968a, 1968b). C.A. Robarchek invece affronta il tema del punto di vista dell’analisi dei sistemi (Robarchek, 1976, 1977a, 1977b).
Dal momento che è nostra intenzione fornire un’idea del punto di vista semai, spesso è necessario usare termini semai (che sono oltretutto più facili da pronunciare di quanto non sembri a prima vista). Tradurre è tradire, si sa. Il tentativo di tradurre i problemi affrontati in questo libro con parole semai corrette illustra le difficoltà che abbiamo dovuto affrontare. Scopo di questo saggio è dunque descrivere a grandi linee come i Semai educhino i propri figli a essere non-violenti. Dal punto di vista occidentale, la questione posta sembra chiarissima, e tuttavia proprio i termini con cui è stata posta possono indurre a qualche interpretazione inesatta. Quindi è necessario prendere in esame più da vicino i termini «educazione», «non-violenza» e «Semai».
«Educazione»
Il ricorso al termine «educazione» può far credere, erroneamente, che i Semai abbiano messo a punto una specie di tecnica, applicabile ovunque, per produrre persone non-violente, e che essi «modellino» i propri figli nel medesimo modo con cui ciò avviene presso gli euroamericani.
L’ambito nel quale, tradizionalmente, un fanciullo impara a comportarsi da Semai è assai meno differenziato rispetto a quello euroamericano. Si può dire che la scuola semai coincida con l’insediamento nel quale il fanciullo vive. Lì, l’istruzione è continua, implicita in qualunque cosa accada. Analizzando le tecniche educative fuori di questo contesto si rischia di stravolgerne il significato reale. Inoltre, poiché è proprio questo contesto totale che determina ciò che i ragazzini semai, crescendo, diventeranno, è impensabile che queste tecniche possano essere trapiantate con successo in un ambiente diverso da quello semai, che è omogeneo, egualitario, raccolto e pacifico.
È certo che in un contesto differenziato, gerarchico impersonale e violento, anche gli adulti semai possono comportarsi in modo assai diverso da quello che è loro abituale in seno ai loro villaggi. Ad esempio, si dice che quando i Semai sono stati arruolati nelle forze anti-insurrezionali del governo malese, durante la sollevazione comunista degli anni Cinquanta, si siano dimostrati più feroci degli altri gruppi etnici, forse anche perché volevano vendicarsi di alcune azioni terroristiche condotte contro i loro insediamenti. Alcuni ex-combattenti dicono che, in quell’occasione, erano buul bhiip, ubriachi di sangue; il che, a quanto pare, è una condizione che si verifica soltanto quando i Semai vengono tolti dal loro contesto sociale e si trovano ad avere a che fare con non-Semai. La maggior parte della violenza di cui i Semai mi raccontavano nel 1962, nel 1963 e nel 1975, era diretta contro gente di fuori. Nel 1962, alcuni gruppi semai delle zone più interne erano convinti che la campagna anti-insurrezionale potesse essere il preludio a una guerra genocida contro di loro. «La gente di fuori», diceva un Semai che aveva fatto il caporale nella polizia, «è cattiva. Dice che il nostro cibo è sporco, e violenta le nostre donne. Ma se cercheranno di ucciderci, sappi che noi abbiamo dei veleni speciali che i nostri antenati ci hanno tramandato, e avveleneremo i fiumi, e quelli che stanno nelle città moriranno tutti».
Ovviamente, non è detto che quando i Semai escono dal loro ambiente tradizionale automaticamente si trasformino in persone violente. Per la verità, i Semai cercano soprattutto di starsene per conto proprio («Noi dell’interno non abbiamo niente da guadagnare a occuparci dei problemi della gente di fuori, solo da perdere…»); se qualcuno cerca di coinvolgerli in ciò che a loro appare nient’altro che una disputa della gente di fuori, il più delle volte semplicemente rifiutano. Nel 1962 uno di loro ha detto: «Durante la guerra cercavano portatori, e c’era chi offriva soldi per indurre le persone del nostro popolo a fare questo lavoro. Anche a me piacciono i soldi, ma ho detto: se è per la gomma, i soldi li prendo; se è per i polli, o per le banane, anche; ma per il sangue, no».
In breve, nel contesto semai tradizionale la non-violenza ha un senso. In tale contesto, la violenza appare un atteggiamento stupido, non solo ai Semai medesimi, ma a chiunque. Tuttavia, ciò non ha tolto ai Semai la capacità di ricorrere alla violenza per rispondere ...