Giuseppe Tomasi di Lampedusa moriva il 23 luglio del 1957. Nel 1958 veniva pubblicato Il Gattopardo . Un romanzo che secondo Carlo Bo “rappresenta un miracolo: quello di un libro ricco di cultura letteraria che riesce a raggiungere l’animo popolare”.
Rifiutato da Elio Vittorini. Sia dall’Einaudi che da Mondatori. Trova ospitalità alla Feltrinelli. Ma chi ha subito creduto alle pagine di Tomasi di Lampedusa è stato Giorgio Bassani. La prima tiratura del libro è stata di tremila copie. La seconda di quattromila, sempre nel 1958. Il resto è nella storia di questo romanzo. Nel 1959 vince il “Premio Strega”. A presentarlo saranno Ignazio Silone e Geno Pampaloni. Asor Rosa lo ignora nella letteratura italiana dell’Einaudi.
Intorno alla fine del 1954 Tomasi di Lampedusa comincia a stendere le prime pagine. La metafora della memoria lo cattura. Nei luoghi della mia prima infanzia incide: “Quando ci si trova nel declino della vita è imperativo cercar di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo. A pochi riuscirà di fare così un capolavoro (Rousseau, Stendhal, Proust), ma a tutti dovrebbe essere possibile preservare in tal modo qualcosa che senza questo lieve sforzo andrebbe perduto”.
Il messaggio è chiaro. I luoghi, i personaggi, i dialoghi, il pensare sono già consapevolezza di un trapasso tra vita e letteratura. I ricordi diventano l’invenzione lungo il tragitto narrante. Ci si impossessa di un parametro esistenziale e il “rifiuto della storia” (per parafrasare un saggio di Gian Paolo Marchi dedicato a Verga), è un ritmo che cesella la psicologia dei personaggi più che la rappresentazione e la chiusura di un tempo cronologico, che non può conoscere l’essenza della memoria come fatto rivelatore. La rivelazione delle immagini stesse è la trasformazione della storia come susseguirsi di atti cronologici in tasselli di una memoria che coinvolge il tempo quale percezione e l’avventura dei personaggi come segni di una indelebile spiritualità. Si legge Il Gattopardo nel dialogo costante tra l’Io narrante e il narrato. Il Principe e lo scrittore sono la voce e il destino.
I tre contesti che caratterizzano Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e formano il percorso narrante anche sul piano delle finalizzazioni politiche, sono il 1860, il 1885 e il 1910. Questo romanzo si presta ad una chiave di lettura non soltanto storica, politica, ideologica nel porre all’attenzione la questione incompiuta della nascita di unità nazionale che viene disegnata e sottolineata nell’impostazione tematica.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa è uno scrittore che fa i conti con la storia. Ma in questa storia c’è una prevalenza tridimensionale della memoria.
Vediamo come.
I fatti vengono raccontati attraverso una rivisitazione in cui prevale il ricordo . La storia, pur fissando delle fasi cronologiche, si serve del ricordo. Di conseguenza viene meno la storia come momento di pianificazione della ragione.
Nel ricordo prevale il racconto come sentimento. Negli avvenimenti che si intrecciano la forza trainante non è la logica della giustificazione storica, ma è il sentimento come coscienza popolare che prende il sopravvento. A questo primo aspetto ne subentra un secondo. La storia come ricordo non avrebbe senso se nei personaggi, che si agitano nello scenario, mancasse l’avventura del destino.
Ogni personaggio recita la sua avventura simulando l’appartenenza a un destino in cui si intravede l’incontro tra la reiterpretazione del passato e la tragedia del futuro. Il caso emblematico è quello del Principe Fabrizio. Nel paesaggio storico di un destino epocale avvengono due ulteriori trapassi. Quello che coinvolge la fine di una civiltà e l’inizio di un nuovo modello e quello che segna la fine di una nobiltà e l’inizio di una nuova aristocrazia, ossia di una nuova borghesia (il caso di Sedara). In questo secondo aspetto sussiste un coinvolgimento che avrà i suoi effetti in ambito storico e sociale (Tancredi e Angelica rappresentano la nuova visione del mondo). Oltre a ciò vi è da sottolineare la presenza, non singolare ma assidua, del paesaggio siciliano.
La Sicilia è parte integrante di tutta l’avventura che si compie nel romanzo e può avere una spiegazione su un versante storico e letterario dove letteratura e appartenenza al luogo costituiscono una valenza mitica.
Il paesaggio della Sicilia, nelle fasi storiche menzionate nel romanzo, rappresenta l’humus esistenziale e culturale. Così si legge: “In questa isola segreta dove le case sono sbarrate e i contadini dicono di ignorare la via per andare al paese nel quale vivono e che si vede lì sul colle a dieci minuti di strada, in quest’isola, malgrado l’ostentato lusso di mistero la riservatezza è un mito”.
Se la riservatezza è un mito, il silenzio e il sogno costituiscono, per Don Fabrizio, la presa d’atto di una tragedia che visualizza un rapporto tra caduta della nobiltà, perdita di identità e prevalenza di nuovi ceti. La Sicilia come metafora, ma anche come spiegazione di una dimensione storica e politica. La tragedia di una civiltà è il senso di decadenza che si ascolta dalle parole che Don Fabrizio dice a Chevalley.
Così: “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre che li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti si scorzonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia sfruttare gli enigmi del nirvana. (…) …le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto”.
Si tratta di una sottolineatura importante.
C’è all’interno una spiegazione storica e culturale. È la spiegazione di tutto nella quale i personaggi vi trovano il loro intreccio, tra destino e memoria.
La Sicilia e i Siciliani. Un richiamo che spesso ritorna tra le parole di Don Fabrizio e che suona come metafora e interpretazione di un profondo processo culturale.
La tristezza e il suono di tragedia si avvertono non solo perché si è alla fine di un ciclo, quanto piuttosto perché ci si rende conto di quella coscientizzazione epocale che coinvolge il popolo meridionale. La tragedia e l’ironia del Principe sono di per sé l’indicazione di una sofferenza che è antica sopportazione di tutto un popolo. “…i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti”. Ma il dato ideologico entra dentro il processo storico di quegli anni. Don Fabrizio dice: “Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due”.
La figura di Don Fabrizio campeggia e traccia percorsi all’interno del romanzo. Del resto Il Gattopardo non è un libro che possiede una sua specificità narrativa. È un romanzo di ritratti e di fissazioni di immagini. Si pensi al capitolo dedicato a Padre Pirrone, all’ultima parte o al passaggio riservato alla morte del Principe.
Il corteggiare la morte, è avere presente la sensualità della vita. La morte del Principe annuncia la fine di tutto, ma è oltre la passionalità per la vita. Il capitolo dedicato al ballo è un preavviso di fine, ma è anche l’angoscia di una perduta sensualità. Resta l’ironia. Quel tocco magico dell’eros dalla marcata sottolineatura ironica.
C’è un’ironia che lascia il segno. Giorgio Barberi Squarotti scrive: “un’ironia incisiva, crudele, corrosiva nella sua misura critica di spietata chiarezza” è dentro il romanzo. Un’ironia che diventa “dimensione del narrare”. Il senso di morte, che accompagna i personaggi, si lega alla memoria della morte che attraversa la storia del romanzo. E la morte è come l’eros. Don Fabrizio vive con la memoria della morte guadando a Tancredi e ad Angelica che rappresentano l’eros.
Il Gattopardo “è un libro di morte scritto da un disilluso amante della vita. In quanto tale è destinato a restare, sgombro degli eccessivi pesi di cui si volle caricarlo”, afferma Francesco Paolo Memmo.
Non c’è alcun paradosso in Tomasi di Lampedusa. Uno scrittore che ha assorbito la consapevolezza di un trapasso epocale. Un viaggio che non interessa un fatto storico soltanto. Dietro e dentro la coscientizzazione epocale vi è il vissuto di una generazione, la responsabilità di un “tempo perduto”.
In un suo racconto si può leggere: “Quando ci si trova nel declino della vita è imperativo cercare di raccogliere il più possibile delle sensazioni che hanno attraversato questo nostro organismo”.
Consapevolezza del tempo che è fuga e sradicamento di identità in una civiltà nuova che avanza e chiede di essere ascoltata. I temi hanno una loro chiarezza sul versante storico, letterario, esistenziale. C’è un tema di fondo con un interesse comune che si gioca tra la sensualità della vita (eros e morte si dichiarano) e la morte, assiduo pensare alla fine. Lo spaccato è rappresentato dalla memoria, che diventa il filo che lega queste metafore. Oltre la storia, con i suoi eventi e i suoi fatti, ciò che rimane è una profonda dichiarazione letteraria che può essere letta solo se si visualizzano quelle dimensioni simboliche che ci raccontano il tutto come metafora del tempo, dell’eros e della morte.
La bellezza di Angelica è la metafora dell’eros. La tragedia della morte è il declino di Don Fabrizio al quale si unisce la fine di un’epoca che solca destini. Ecco la metafora del corteggiamento della morte. Barberi Squarotti parla di “grande poesia della morte”. Ma la poesia della morte apre un altro capitolo: quello del “rifiuto” della storia.
“Il rifiuto della storia, scrive Franco Fortini, non è rifiuto di questa o quella storia ma rifiuto del mutamento in sé”. Un mutamento che vive dentro la ricerca di una memoria sempre presente non solo tra le parole di Don Fabrizio. In realtà il Principe, come sottolinea Francesco Grisi, “non si preoccupa di quello che avvilisce gli altri perché il suo mondo non è nella terra, ma della siderea infuocata natura e della dolcissima e trasparente creatura da tutti temuti: la morte”.
Morte e bellezza. “Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma pronta ad esser posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari”. La morte come bellezza. Ma forse come cominciamento di una nuova avventura.
Il teatro e la recita sono nel ballo. In quel ballo in cui Don Fabrizio misura se stesso respirando sui capelli di Angelica e assaggiando la gelosia di Tancredi. La giovinezza ferita. Il tempo lacerato. La storia che riprende il suo corso. Davanti ad un mondo in decadenza la morte è l’unica risoluzione perché è oltre la realtà. Don Fabrizio è conscio di ciò. Misura se stesso rappresentandosi in quel ballo con Angelica. L’“aroma di pelle giovane e liscia di Angelica è appunto la misura del tempo. Il ballo che alla fine resta anch’esso una metafora sprigiona un ‘influsso sensuale’”. È la vita che recita la sua eredità tra l’amore dei due giovani e la sopportazione della maschera. Il Principe indossa una maschera. Viene lacerato dal destino. L’unica cosa che lo rende vitale è la memoria. Questa sua memoria è in una attesa che lo accompagna verso appuntamenti. Chiede un “appuntamento meno effimero”. Così anche la morte diventa interiorizzazione della metafora.
Il Gattopardo raccoglie sviluppi tematici e ricerche spirituali, sul piano letterario ed umano, già in parte espresse negli scritti precedenti e in quei primi scritti che si riferiscono ad alcuni articoli apparsi sulla rivista mensile “Le Opere e i Giorni”. Risalgono al 1926 – 1927. Sono dei saggi critici su Paul Morand, poeta francese (1888 – 1976), sul poeta irlandese W. B. Yeats (1865 – 1936) e su Friedrich Gundolf, ovvero Friedrich Gundelfinger (1880 – 1931), storico e critico tedesco. Di quest’ultimo, Tomasi di Lampedusa prende in considerazione il suo scritto su Cesare.
Tre scritti importanti che serviranno da base per le sue ulteriori riflessioni in questo campo. I temi che incontriamo nel suo viaggio letterario ed esistenziale trovano in questi saggi una loro premessa. Il superamento della storia come elemento materiale e come affermazione simbolica e allegorica. Soprattutto nello scritto su Cesare di Gundelfinger ha già una interpretazione emblematica nei termini di un rapporto tra biografia e memoria.
In questo suo saggio dirà : “Esistenze come la sua hanno diritto a due biografie: una limitata per quanto gloriosa che si riferisca alle gesta compiute dal corpo e dalla mente viventi; l’altra senza confini di tempo e di spazio, che narri l’aggirarsi dell’ombra smisurata e le conseguenze delle sue apparizioni. Quella la storia della vita; l’altra la storia della gloria”. E ancora: “ Cesare, da venti secoli lontano nella carne, da venti secoli presente nello spirito”. Un’immagine che ci rimanda immediatamente alla figura del Principe.
Il Gattopardo-Principe potrebbe leggersi anche come la metafora di un Cesare che non si lascia imprigionare dalla storia-cronaca ma si impossessa sempre più del tempo-memoria. Andrea Vitello ha scritto un libro importante e robusto su Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato nel 1987 (il cui titolo rispecchia fedelmente il nome dello scrittore) ponendo in evidenza proprio un aspetto similare e sottolineando: “Il saggio cesariano e il romanzo sono lontani nel tempo; eppure psicologicamente, sono vicini. Quel saggio giovanile appartiene alla biografia spirituale di Lampedusa quanto e come Il Gattopardo”. Un percorso in cui il tempo fuori dalla storia diventa una fissazione di una riproposta autobiografica nella quale il passato ha dei luoghi e dei nomi precisi. Dalle eredità familiari, alla casa andata distrutta. Un passato che si intreccia con la nostalgia e il tempo è nell’espressione proustiana delle cose che non ci sono più, ma che restano come baluardi nel sentimento dell’uomo.
Da questo punto di vista non è condivisibile l’affermazione di Romano Luperini quando sostiene che in Tomasi di Lampedusa “storia e realtà non sono che fluidi fantasmi, fenomeni di un’essenza, che è il nulla”.
Quell’essenza non è più il nulla. In una concezione materialistica potrebbe essere considerata tale. Ma è il rafforzamento di una testimonianza spirituale che trova il suo codice più alto nella religiosità della memoria. Senza di essa non avrebbe senso la storia stessa perché il racconto, o il raccontare, è il superare, il ritrovare, il rimpossessarsi di una malinconia che permette di creare e di raccordare il tempo dello scrittore con il tempo e lo scenario, le sensazioni e le atmosfere del raccontato stesso.
Questo intreccio pone un consolidamento letterario e spirituale sul piano della riappropriazione dei ricordi, i quali costituiscono l’anima di un tempo storico e interiore. In questo gioco c’è il significato dei ricordi dell’infanzia. Il Gattopardo ritrova in sé la fantasia e i “fantasmi” dell’infanzia che permettono di leggere la vita attraverso il cannocchiale di un legame tra “memoria” e “invenzione”.
Proust è stato importante per Tomasi di Lampedusa. “Il tempo perduto” diventa nei luoghi, nei sentieri e nella coscienza della memoria “tempo ritrovato”. A sancire questo rapporto, questo protocollo esistenziale, è la scrittura, ovvero la letteratura.
Il ricordo è formato da un insieme di ricordi che sono memoria e la memoria non è soltanto nel tempo, ma è il tempo stesso. Il passato è la coscienza che ci permette di rivivere il perduto nella metafora della vita.
In Tomasi di Lampedusa non vi sono solo sensazioni che danno voce alla scrittura. Vi sono anche perdite reali. Come la casa. Una casa distrutta è la casa distrutta. E quella casa era l’infanzia. Una stagione del tempo che si è dilatata nel tempo-memoria. La casa-infanzia è la scomparsa di una storia che non è più possibile reperire se non attraverso la visione-simbolo di un ancoraggio alla letteratura-conchiglia. A quella letteratura che custodisce ciò che Corrado Alvaro chiamava “mondo sommerso”.
In alcune lettere scritte all’amico Guido Lajolo, andato a vivere in Brasile (pubblicate dal settimanale “L’Espresso” l’8 gennaio del 1984 a cura di Giuseppe Carrieri) alla data del 31 marzo 1956 Tomasi di Lampedusa annota: “Il protagonista è il Principe di Salina, tenue travestimento del Principe di Lampedusa mio bisnonno. E gli amici che lo hanno letto dicono che il Principe di Salina rassomiglia maledettamente a me stesso. (…) Vi sono molti ricordi personali miei e la descrizione di alcuni ambienti è assolutamente autentica…”. Nella lettera del 7 giugno si trova sottolineato: “… il protagonista sono, in fondo, io stesso e il personaggio chiamato Tancredi è il mio figlio adottivo”. Nella successiva del 2 gennaio 1957 si può l...