Il sovrano dimezzato
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Informazioni su questo libro

Basandosi sugli atti di un processo in cui una quindicina di anni fa un tribunale del Sud ha condannato diverse persone per associazione a delinquere di tipo mafioso, il libro analizza i meno appariscenti risvolti politici di una sentenza che altrimenti sarebbe archiviata tra gli ordinari procedimenti ex art. 416 bis del codice penale.Quel che potrebbe apparire come un caso di criminalità comune si rivela in realtà una vicenda eminentemente politica, non per il rango degli imputati bensì per la sorprendente decisione del tribunale di condannarli a risarcire lo Stato per la "mutilazione della sua sovranità". I giudici trasformano un ordinario processo antimafia in un esperimento di riparazione della sovranità, una nozione che storicamente si è costruita sulla sua incommensurabilità economica, sull'impossibilità cioè che come qualsiasi altro bene civile divenga oggetto di una valutazione monetaria nei termini del pregiudizio subito.Nell'intento di tutelare la ricchezza suprema dello Stato, i giudici del processo partoriscono una sentenza "suicida", il cui eccesso di zelo protettivo nei riguardi della sovranità finisce paradossalmente per indebolirne significativamente il rango e il valore simbolico. Condotto sulla linea maestra della ricostruzione giudiziaria, ma non privandosi delle necessarie aperture storiche, filosofiche e antropologiche, il libro scopre nell'unicità di questo caso un insospettabile sostegno argomentativo da opporre alle pretese del sovranismo, spettro di una nozione, la sovranità, consegnata all'obitorio dalla critica giuridica, filosofica e sociologica oltre che da oggettivi fenomeni transnazionali.

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1. Un caso (quasi) comune

I fatti

Il 21 settembre 2006 il Tribunale di * condannava 43 persone per diversi atti commessi in riferimento a più capi d’imputazione – furto, estorsione, minacce, traffico di stupefacenti, usura, truffa, alterazione degli appalti pubblici, detenzione di esplosivo ecc. – la maggior parte dei quali idealmente inscritti nella fattispecie più grave dell’art. 416 bis del codice penale: costituzione e partecipazione ad associazione per delinquere di tipo mafioso. L’enunciato normativo precisa che “l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”1.
Secondo la ricostruzione del tribunale le condotte criminose compiute dagli imputati in più località dello stesso territorio trovavano il loro asse di coerenza, al di là della continuità dei reati di volta in volta considerati, nel fatto di emanare da un’unica organizzazione con un vertice riconosciuto, operante anche nei periodi di detenzione per altre condanne, i suoi familiari e una serie di affiliati, nel rispetto della struttura tipica del clan mafioso. Di qui la necessità di far confluire in unico processo tre richieste di rinvio a giudizio avviate autonomamente in sedi diverse, visti i collegamenti tra le inchieste per il coinvolgimento di personaggi legati dal vincolo di appartenenza all’organizzazione criminale. S’intuisce facilmente come un processo in cui s’incardinano, seppur laboriosamente (atti, p. 47 sgg.), tre distinti procedimenti seguiti a tre distinti decreti di rinvio a giudizio, comporti una notevole mole di prove, alcune delle quali, le cosiddette captative, cioè le intercettazioni telefoniche e ambientali, spesso soggette a contestazione dalle difese (atti, pp. 59-60 e 606 sgg.), ma al contempo illuminanti per documentare l’ampiezza degli interessi economici da cui trae forza l’egemonia dell’organizzazione (atti, p. 662 sgg.). Al termine di un’istruttoria dibattimentale particolarmente faticosa per l’ingente quantità e soprattutto la disorganicità di produzione del materiale probatorio (atti, p. 68), il tribunale ha potuto emettere il suo giudizio alla luce di una nutrita documentazione bancaria, di complesse consulenze tecniche, di migliaia di rapporti di polizia oltre che dei resoconti di altri processi connessi che già avevano certificato l’esistenza dell’associazione criminale in questione. A ciò si aggiunge la trascrizione di circa mille intercettazioni telefoniche e ambientali e di 175 dichiarazioni testimoniali di cui 21 da parte di collaboratori di giustizia, cioè di quelle figure che per aver fatto parte dell’organizzazione criminosa decidono di fornire agli organi inquirenti e giudicanti le informazioni in loro possesso, contribuendo così a far luce in maniera decisiva sullo svolgimento reale dei fatti penalmente rilevanti.
A proposito dell’apporto dei collaboratori di giustizia, che nel processo in questione, tuttavia, è stato giudicato dal tribunale “complessivamente modesto” e comunque subordinato ad altre prove più decisive (atti, p. 501), i giudici forniscono un’opportuna precisazione tecnica. Quando si parla di collaboratori di giustizia si parla in realtà di quel mezzo di prova conosciuto come “chiamata di correità” (art. 192 c.p.p.), che consiste nelle dichiarazioni rilasciate da un coimputato del medesimo reato o imputato in un procedimento connesso. Sulla base di una pronuncia della Cass. Pen. a sezioni unite (n. 1653 del 22.2.1993) richiamata dal tribunale (atti, p. 502 sgg.) tali dichiarazioni hanno pieno valore di prova contro l’accusato, a condizione che sia stata preventivamente appurata la credibilità intrinseca ed estrinseca del dichiarante (“in relazione, tra l’altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici”) e si siano effettuate le adeguate verifiche del dichiarato (“l’intrinseca consistenza, e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; infine egli deve esaminare i riscontri cosiddetti esterni”). Riscontri che possono consistere in “elementi, fattuali e/o logici, esterni alla chiamata nel senso che pur dovendosi collegare ai fatti riferiti dal chiamante, debbono tuttavia essere esterni ad essi, allo scopo di evitare che la verifica sia circolare, tautologica ed autoreferente e cioè che in definitiva la ricerca finisca per usare come sostegno dell’ipotesi probatoria che si trae dalla chiamata, la chiamata stessa e cioè lo stesso dato da riscontrare” (Cass. Pen. Sez. IV n. 6343 del 31.3.1998).
Ispirata a soluzioni analoghe già adottate in materia di associazione terroristica, la legge 45 del 2001 riordina il fenomeno dei collaboratori di giustizia nell’ambito dell’associazione mafiosa. La loro posizione non va confusa con quella dei testimoni di giustizia, che non provengono dall’ambiente malavitoso e ricoprono però un ruolo importante nelle indagini in ragione di altre circostanze, per esempio essere le persone offese del reato, com’è il caso particolarmente emblematico, nel processo in questione, di una vittima dell’usura (cfr. atti, p. 689 sgg.). Per entrambe le categorie, una volta appurata la piena attendibilità e l’assenza di calcoli opportunistici, l’ordinamento prevede un riconoscimento all’utilità del loro ruolo, garantendo per i collaboratori di giustizia precisi...

Indice dei contenuti

  1. Ringraziamenti
  2. Premessa
  3. 1. Un caso (quasi) comune
  4. 2. Genealogie
  5. 3. Sovranità e sovranismo