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Omero. Il racconto del Mito
Informazioni su questo libro
L'Iliade e l'Odissea, le più alte creazioni del genio poetico greco, sono un patrimonio storico e narrativo di immenso valore che ha nutrito e continua a nutrire l'immaginario degli uomini. Chi non ricorda le appassionanti vicende e le grandi personalità dell'Iliade? Il litigio tra Achille e Agamennone che ha portato alla morte di Patroclo e alla disperazione di Achille; il colloquio tra Ettore e Andromaca, che porta in braccio il piccolo Astianatte; lo scontro finale tra i due eroi e la spedizione di Priamo nel campo acheo, per riavere la salma di suo figlio. Ma non meno intense sono le emozioni suscitate dalle avventure di Ulisse, quando è alle prese con Polifemo o con le sirene, o quando arriva a Itaca e ritrova il cane Argo e la vecchia nutrice, i primi a riconoscerlo, per poi rivelarsi a Penelope e uccidere i Proci. I personaggi dei due poemi non fanno che «dialogare, combattersi, rivaleggiare, amarsi e odiarsi», insomma esistere, esprimendo la natura umana in tutta la sua complessità. Guidandoci nella lettura di Omero, Enzo Mandruzzato restituisce piena attualità a quel mondo di uomini, Dei ed Eroi che fu per gli antichi mito e racconto sacro: «Idealizzati ma anche estremamente reali, uomini di sempre, in guerra e in pace. Uomini e donne».
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Informazioni
Argomento
LiteraturePARTE SECONDA
Il poeta è l’opera
1
Lo sconosciuto
Uno sconosciuto di cui si sa tutto
È strano dire di non sapere nulla d’un poeta di cui si ha l’opera intera. In realtà non si sa praticamente nulla della sua epoca, di cui l’opera è il quasi unico documento. L’archeologia per quanto preziosa, è avara e muta.
Ma non sapere nulla o quasi della persona non è strano. Di Omero conosciamo quello che sapremmo di un grande narratore o di un grande drammaturgo moderno se non ne avessimo che l’opera; non si affacciano mai fra le pagine del racconto o sulla ribalta del dramma. Allo stesso modo non sappiamo nulla o quasi di un Petronio (anche se preghiamo il cielo che coincida con quello di Tacito, cosa improbabile) o di un Pindaro o di un Eschilo; mentre sappiamo anche troppo di modesti scrittori medievali e moderni. Disponiamo d’una quantità incredibile di documenti d’archivio e di una legione di biografi. Gl’immensi archivi degli antichi, molto meno polverosi, sono scomparsi, e non abbiamo che qualche casuale informazione degli archivisti; dovremmo prestare molta più fede a questi grandi informati. Inoltre nell’Antichità difettava l’interesse biografico. Tardi e non molto si concepì la biografia dell’uomo d’azione o tutt’al più dell’uomo esemplare (in sostanza, la nostra agiografia). Ma sapere i fatti personali d’un uomo di pensiero pareva per lo meno inutile. La storia di Cesare era lo scorcio di un periodo della storia di Roma, ma la vita di Orazio era quella di un signore come tanti altri, che valeva per quello che aveva scritto. Il maggiore biografo dell’Antichità, Plutarco, non scrisse che Vite di uomini d’azione e con un notevole colore di esempio morale, di bíos. Ci voleva uno storico raffinato e un po’ maniaco come Svetonio per concepire un De poetis; e attingeva spesso da quello che i poeti stessi dicono di sé, cosa infida, non metodologica e molto prosaica. Notizie tuttavia avidamente raccolte dagli studiosi di oggi, perché non ci diamo pace se non cominciamo a parlare d’un poeta senza informare su dove e quando nacque1. Gli antichi non avevano neppure la carta d’identità, eppure riuscivano a vivere.
L’altra e minore ragione del non saper nulla di Omero è, si capisce, l’antichità. Se si pensa che visse in un’èra acronica, non potevano fare di più che conservarne l’opera e il nome; e lo fecero nel modo quasi istituzionale e religioso dell’uomo arcaico. La confraternita omerica di Chio, che si vantava formata dai figli e dagli allievi del Maestro, continuò gelosamente per secoli finché si fuse, com’era inevitabile, nell’universalità del genere e della poesia. Il primo successore che conosciamo bene è Ione, dedicatario del famoso dialogo platonico, ed è già l’uomo d’un’istituzione, di cui ha segni esterni specifici, l’orgoglioso stile professionale e un vasto repertorio poetico. Quando Solone e più tardi Ipparco, nel VI secolo, stabilirono regole per le sue esibizioni nelle grandi feste della pólis, l’aedo era un personaggio pubblico da molto tempo.
Si sentì molto presto Omero, magari in ambiti ristretti, come qualcosa di ineguagliabile e inesauribile: e gli attribuirono più poesia che potevano. Più tardi fu liberato dal troppo e dal vano, ma gli furono attribuite sempre opere disparate come la graziosa parodia della Batracomiomachia («La battaglia dei topi e delle rane»), un poema dedicato a uno sciocco, il Margite, e gli Inni detti appunto «omerici». Poi avvenne come ai suoi Eroi e a tutti gli Eroi venerati e antichissimi, uscì dal tempo. Erodoto ci dà la notizia cronologica più importante, cioè che era vissuto, a suo parere, quattrocento anni prima, «e non di più». Dunque aveva abbassato la data, ma il IX secolo è ancora quanto mai credibile. Erodoto disponeva di archivi viventi – tombe, calcoli fatti sulle genealogie e su istituzioni cronologicamente accertate ecc. – che non cita.
Che Omero nascesse nella Ionia è notizia confermata; anzi secondo una Vita falsamente attribuita a Erodoto, a Smirne. I nonni erano Eoli emigrati nella Cuma asiana; mandarono in quella città eolica di recente fondazione la figlia Criseide, incinta di Omero, per evitare chiacchiere. Fu presa dalle doglie durante un breve viaggio e partorì presso il fiume Meles, divino come tutti i fiumi e certo invocato nel parto; gli diede perciò il nome di Melesigene. Questa coraggiosa ragazza madre piacque a un rapsodo maestro di scrittura – connubio significativo – di nome Femio, che la sposò; non adottò il figlio, ma curò la sua formazione, stupito del suo ingegno. Melesigene ne ereditò la scuola e si fece una larga nomea come narratore di storie. Tra i suoi estimatori ci fu un certo Mente, mercante in granaglie, che gli offrì di accompagnarlo nei suoi lunghi viaggi in Occidente, fino agli Etruschi e oltre. Qui il giovane si ammalò agli occhi e dovette tornare, ma il mercante lo affidò a un ospite di nome Mentore, nell’isoletta di Itaca, dove seppe tutto sull’antico Eroe locale. Gli Itacesi sostenevano, molto tempo dopo, che la cecità lo colse tra loro, altri che fu a Colofone nella Ionia. Non c’è contrasto, ma Itaca si direbbe che l’abbia vista. Si aggirò poi, rapsodo popolare come Demodoco (che significa il «bene accolto») nelle vicine città ioniche, con particolare successo a Cuma, dove gli Anziani accettarono di mantenerlo a spese pubbliche (un oppositore avaro borbottò che si stava freschi se si mantenevano tutti i ciechi della città. Il compilatore precisa che hómeros a Cuma significava cieco, notizia controllabile allora e perciò credibile oggi. Forse i ciechi costituivano gruppi di accattoni: viene in mente il quadro di Goya).
A Focea scrisse una Piccola Iliade. L’ultimo soggiorno importante fu a Chio, dove fondò la scuola famosa quando aveva già scritto l’Iliade. In età avanzata volle conoscere Atene, ma si ammalò in viaggio e fu sepolto a Ios, una delle Sporadi, dove si leggeva dopo secoli un laconico epitafio.
Come leggenda è poco leggendaria, ammettiamo almeno questo. Alcune notizie sono probabili (come il nome, che però potrebbe anche significare «ostaggio»). Un’altra notizia preziosa e credibile è la cecità: non solo è tradizione troppo insistente, ma è difficile che quel piatto biografismo inventasse un particolare così altamente simbolico: sono invenzioni della realtà. Il biografo si preoccupò di precisare che non fu cecità nativa, che avrebbe infatti rese improbabili tutta la sua carriera di poeta e quella ricchezza di esperienze visive che avviva il suo realismo. Che fosse Eolico, il biografo dimostra con minuti particolari liturgici che un non greco non sospetterebbe neppure; ed è certo che Smirne fu città eolica divenuta poi ionica. Questo può confermare la natura del suo linguaggio, sempre restando che parlasse un linguaggio vivo e naturale proprio perché misto; l’opinione di Wilamowitz-Moellendorff, che lo spazio linguistico di Omero fosse breve, e perciò poco ritrovabile nel deserto dei documenti, resta magari discutibile o poco provata, ma almeno non è assurda. Lo spazio linguistico, il nucleo dell’italiano o del latino non fu più vasto. Il latino, si sa, era il romano; bastava dire lupu e non lupus per sentire il non urbano, il non parigino.
Sarebbe stato dunque più viaggiatore che girovago e più simile a Demodoco che al «mendico cieco» di Foscolo (leggenda che risale all’Antichità). Critici non a caso tedeschi, come Latacz, credono al contrario che fosse un esponente dell’aristocrazia discesa dai conquistadores. Ma che la celebrasse non comporta che le appartenesse; amare il buon re e il buon governo è più facile che avvenga in un povero, riconosciuto ed elevato per il suo ingegno. Aristotele attesta che nella Colofone dell’VIII secolo governava una maggioranza di «ricchi e nobili» (Politica 1290b, 15), ma una maggioranza non è nobile, piuttosto è ricca. Erano un ceto di proprietari terrieri che ricorda i maggiorenti di Omero e le loro regge. Immaginava le pietrose regge-fortezze degli Eroi come le fattorie del suo tempo. Ma non pare un vero cantore di corte, e possiamo immaginare il maggior pubblico di Omero in un bel popolo di razza greca fatto di uomini liberi, pescatori e contadini, anche se abituati a usare la lancia contro i leoni e i nemici. Tocchi realistici di vita contadina abbondano; ed è anche forte l’esperienza e perfino il gusto della guerra, forse perenne ai loro confini.
Le aristocrazie mediterranee, rispetto a quelle nordiche, hanno sempre avuto sentore di campagna. Ulisse era anche carpentiere, allevatore ed esperto agricoltore. Molto tempo dopo, il colto e arguto Catone il Vecchio, tipico esponente dell’aristocrazia romana e quasi ideologo della civiltà agricola, capitava in Senato a piedi scalzi.
A queste e altre informazioni delle bibliografie omeriche dell’Antichità si può prestare più o meno fede, ma resta che ci dicono ben poco dell’uomo e del poeta. Vorremmo l’impossibile, autobiografie come quella di Neruda o Salvador Dalí, o le biografie di Dante e tanti maggiori, degne di loro e capaci di dare una confidenza con il poeta che non dà neppure l’opera. Una ragione di più per avvicinarsi ai capolavori omerici con l’abbandono del lettore privo di esclusioni e di remore, e seguirlo passo passo come qualunque vero poeta, nelle sue infinite accortezze, nelle sue segrete commozioni, in quella perfetta e sotterranea fedeltà al soggetto che illumina tutti i particolari. I Greci lo leggevano così. Seguivano la magia e il contrappunto di quel linguaggio arcaico, e balenava nella sua impersonalità l’uomo sconosciuto, perché è impossibile essere davvero impersonali nella poesia. Anche le epoche più tarde, molto più filosofiche che creative, leggevano con questo spirito, e dobbiamo perdonarle se indulgevano a interpretazioni astratte. Forse Giuliano Imperatore non avrebbe capito una nostra lettura estetica, ma il suo culto era sincero; il ritratto di Omero (quello ideale del Museo Nazionale di Napoli, dalle immense arcate orbitali, illuminate di veggenza?) campeggiava nel suo studio, insieme a quelli di Socrate e di Cristo.
Forse la vera biografia è quella che risale dall’opera allo spirito. Ne abbiamo tutti esperienza. Quando avevamo gli anni di Telemaco leggemmo così i nostri autori, che non chiamavamo mai «classici». Più tardi e dall’esterno ci siamo informati di tante cose e li abbiamo, come diciamo, «inquadrati». Confesso che ancora oggi ignoro volontariamente ciò che non è poesia in quei grandi amici; non potrei farne un saggio, tutto qui. Con tanta disinformazione li intuivamo attraverso i loro eroi; non pensammo mai che Dostoevskij avesse ucciso vecchiette ma sentivamo che in lui c’era Raskolnikov e vedevamo tutti gli altri volti con gli occhi di Raskolnikov.
Certo, Omero è meno identificabile con i suoi Eroi; ma Achille rappresenta un motivo profondo della sua sensibilità, quello della morte, ed è evidente, anche nell’Iliade, la maggiore affinità con Ulisse. L’aedo non poteva paragonarsi ai suoi Eroi ma finisce per farci preferire ad Achille il suo nemico, Ettore, e più o meno tutta la parte perdente. Nell’Odissea è evidente che più ancora del suo Ulisse il suo cuore sta con «il divino allevatore di maiali», Eumeo. E anche con Penelope, cioè con i più fedeli e i più liberi nel cuore.
Lo spirito di Omero è meno afferrabile di altri più per la sua natura che per il suo realistico oggettivismo. Tutta l’opera spira la serenità contemplativa del narratore di tante tragiche vicende; l’odio e la passione lasciano di più il segno. Le sue commozioni non sono mai melodrammatiche, il suo realismo non lasciava posto all’elegia e alla debolezza. Quante volte il suo Ulisse dice che piangere, anche se ci sono tutte le ragioni per piangere, non serve a niente. Omero non condanna e anche questo fa parte di un Omero «uomo».
Conta realmente la vita del poeta per intenderne l’opera? L’uomo è completezza, certo, ma anche la poesia è completezza. I fatti danno le occasioni, non la qualità della poesia. Al contrario, quanti presunti classici debbono molto o tutto all’«uomo»! Al personaggio, al mito vivente, all’ideologia, magari rifiutata. La vita è un passato e l’arte è davvero un presente. Se il poeta è l’opera, la sua vera storia è questa. E quella di Omero noi la sappiamo per intero.
L’autore anonimo del Sublime, il solo «lettore» pervenuto fra i pochi critici dell’Antichità, pensava che l’Iliade fosse scritta nella giovinezza e l’Odissea nella vecchiaia; l’Iliade avrebbe la forza, la fantasia, l’energia del genio giovane, mentre nell’Odissea si sentirebbe la decadenza: troppe concessioni, troppi cedimenti al facile, troppo piacere di raccontare, difetto tipico della vecchiaia. «Ma la vecchiaia d’un Omero», aggiunge. Al pathos è succeduto l’ethos, alla passione il gusto dell’osservazione morale.
Giudizio severo ma personale e sentito, e perciò scoperto. S’indovina il giovane, anche dalla scortesia con cui giudica quel Cecilio che ha avuto il torto di scrivere, a suo giudizio inadeguatamente, sullo stesso soggetto. Ma oggi non siamo del suo parere, se non in quello dell’età. L’Iliade sfiora l’eccesso. Ha un respiro troppo grande per i nostri polmoni, e se il limite massimo dell’estensione di un’opera è, come pensa Aristotele, l’essere abbracciata dallo sguardo, va quasi oltre la nostra vista. Non è difficile che lettori anche non prevenuti sospettino e ammettano importanti interpolazioni, addirittura poemetti incorporati, come il canto V tutto dedicato a Diomede. L’Odissea è molto più dotata di varietà, agilità, duttilità e di un equilibrio e di una saggezza intrinsechi che se non sono senili, sono certo maturi; e sulla posteriorità cronologica dell’Odissea, del resto universalmente riconosciuta, il Sublime aveva facilmente ragione (ma la cosa è più complicata). Più interessante e preziosa è un’altra sua osservazione, cioè che l’Odissea pare «l’epilogo dell’Iliade». Si direbbe in effetti che Omero abbia voluto chiudere nel secondo poema i grandi spiragli lasciati aperti nel primo: la storia di Ulisse, la fine della guerra, le vicende drammatiche di Agamennone, di Achille, di Aiace, già scesi nell’Ade; Achille laggiù detesta ancora la morte ma non si accorge di esaltare la vita. E forse questo non è solo l’epilogo dell’opera ma del poeta. Al centro della sua visione del mondo c’è il dramma universale della morte, simboleggiato da Achille ma superato da Ulisse. Il suo Ulisse viene premiato proprio da quella lunga vita che Achille ha violentemente rifiutato. Gli verrà «una morte dolcissima dal mare», e non può essere quella del suo successore dantesco che non fu certo dolcissima. Fu un privilegio che non volle spiegare in termini meno lirici e più chiari.
Ma sempre, anzi ancora di più nell’Odissea, per Omero la morte è il nulla, la favola dell’aldilà, i fabulae Manes di Orazio. Questa certezza ha sempre sconcertato gli studiosi perché contrasta con la storia religiosa dei popoli e con l’imponente spiritualismo della civiltà greca. Uno iato poco spiegabile. Ma lo sarebbe molto di più se concedessimo a Omero, tra i diritti del genio, quello del pensiero personale.
Che cosa ha inventato Omero?
Questo problema insolubile si fonda su due punti fermi: che nulla nasce dal nulla e che della preistoria di Omero non sappiamo nulla: non solo che cosa e come fu, ma se ci fu. La tradizione di cui si nutriva non sappiamo in che cosa consistesse. Anche se non era solo orale, non sappiamo che cosa cantassero i rapsodi che lo precedettero.
Spesso si fanno congetture che presuppongono a loro volta realtà del tutto immaginarie. Quanti poemi s’immaginano! Quanti Giacomini da Verona per questo Dante problematico, senza supporre, almeno, altrettanta sproporzione d’ingegno. È molto probabile che l’isolamento di Omero gli nuoccia molto. Ma piuttosto, in questa tradizione, Omero che scelte avrà operato?
A parte l’intuizione dell’organicità artistica, ci sono altre due cose sorprendenti. Una, la molteplicità degli Eroi. La leggenda è per sua natura esclusiva. C’è la leggenda d’un Eroe e tutto il resto è in funzione sua; può avere i suoi fedeli ma non eguali e affini; i nemici sono i malvagi. I tempi dell’epopea sono finiti da molti secoli, ma sono esistiti fino a ieri personaggi potenzialmente leggendari: «Che» Guevara, per esempio. Potenzialmente leggendario come pochi è stato Garibaldi, il più amato degli italiani nel mondo; ancora in vita nacquero gli epiteti epici, le caratterizzazioni pittoresche, piene di devozione gagliarda, un po’ filiale e confidenziale: l’Eroe dei due mondi, ferito a una gamba, sempre provvisto delle sue insegne, camicia rossa, poncho, quel copricapo che i colleghi del parlamento di Torino trovavano – come tutto l’abbigliamento – indecoroso. Il numero dei suoi Mirmidoni, i Mille, è così perfetto che nessuno storico l’avrebbe creduto storico. Il malvagio sarebbe forse diventato Cavour, il nemico un misterioso Borbone e il suo ethos la fortezza intrisa di mitezza. Niente di meno storico, niente di meno falso.
Gli Eroi d’Omero sono senza paragone più realistici, superiori o più significativi della loro possibile realtà storica, ma soprattutto molto meno solitari. Omero li fece personaggi d’una storia, nello sfondo comune d’un’impresa famosa in cui si fondevano già episodi distanziati e isolati. Li avrà ancora di più appiattiti, come fece attribuendo disinvoltamente al solo Achille la lenta conquista di molte isole egee e ad Agamennone quella, che presenta come strategica, di Lemno. Ma soprattutto Omero questi Eroi li fece dialogare, combattersi, rivaleggiare, amarsi e odiarsi, esistere; creò tutto un mondo plasmando personalità così forti che le diciamo e crediamo, troppo facilmente, «tipiche». Sono assolute ma non astratte; non c’è un tratto, un particolare, un gesto che le smentisca. Il teatro attico li trasformerà, questi Eroi, e a volte li completerà, ma li ha già trovati e scoperti inviolabilmente vivi nell’epos. Senza sforzo e senza bisogno di sottolinearlo, Aristotele offre come esempio perfetto dell’organicità artistica sia l’Iliade che il teatro classico. I critici analitici, negatori impliciti di questa dialettica dell’epos, cercano e propongono normalmente epopee o episodi epici di singoli eroi; ma c’è un salto qualitativo tra l’accostamento e la fusione, la storia d’un Eroe e una vicenda di Eroi.
Ma Omero ha fatto di più, ha creato anche la «scena» degli Dei e ha reso, perfino loro, personaggi. Sarà il grande scandalo, ma non poté non essere la grande rivelazione, altrimenti non sarebbe nata. Anche il Dio della concezione politeistica era tendenzialmente solitario. Molti venivano da lontano, come Afrodite-Astarte o Dioniso; tutti «abitavano» – era il termine specifico – templi e luoghi personali e disparati. Soprattutto luoghi; l’antico era sempre ospite d’un Dio e per prima cosa rendeva omaggio al Dio del luogo. Quando Ulisse prega Nausicaa non le fa un madrigale; la sua bellezza faceva balenare piuttosto il divino che la femminilità. Secoli dopo il re dei re, Serse, alla testa dello smisurato esercito persiano, avanzava offrendo il suo omaggio e quasi vassallaggio agli Dei stranieri della Grecia. Non sarà passato indifferente sotto quell’Olimpo sempre innevato, visibile per tanto tempo, con i suoi caratteristici fianchi simili a scenari (polýptychos). Tutti sapevano che vi soggiornavano gli Dei maggiori dei Greci; i veri templi dell’Antichità erano nella natura, e l’Olimpo era in sostanza il tempio di Zeus. Tutti sapevano che ogni cosa avveniva per sua volontà e temevano e pregavano Zeus e i suoi Figli. Dunque questi Dei concedevano, contrastavano, «parlavano», vivevano: era appunto questo farne dei personaggi. Così la «scena» divina divenne il grande retroscena degli eventi, l’interpretazione e la chiarificazione – religiosa, ma non ce n’erano altre – della scena umana.
Il colpo di genio di Omero è stato quello di dare a questa dimora degli Dei la forma della casa per eccellenza, cioè d’una reggia. Il mondo umano era tutto un mondo di regge. E l’uomo è naturaliter monarchico; perfino le repubbliche aspirano al monarca, all’uomo a cui donare e condonare tutti i privilegi...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Copyright
- Frontespizio
- Premessa (confidenziale)
- PARTE PRIMA. Normali tempi remoti
- PARTE SECONDA. Il poeta è l’opera
- APPENDICI
- Indice