Breve storia della bioetica
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Breve storia della bioetica

Fabrizio Turoldo

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  1. 255 pagine
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Breve storia della bioetica

Fabrizio Turoldo

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Quando è nata la bioetica? È difficile dare una risposta univoca a questa domanda, perché gli eventi che ne sono all'origine sono molteplici e vanno dal Processo di Norimberga all'affermazione di nuovi valori etici avvenuta negli anni '60, fino alla deflagrazione, sul piano culturale, sociale e giuridico – nel decennio successivo – di questioni come l'aborto, la procreazione assistita, la contraccezione e l'eutanasia. Di certo c'è che la seconda metà del XX secolo, con il carico di aberrazioni morali ereditato dai due conflitti mondiali e dalle ideologie naziste e comuniste, ha generato una sensibilità nuova fra gli intellettuali e gli scienziati intorno al tema della vita e del suo rapporto con la scienza, la tecnica e l'economia.Il libro di Fabrizio Turoldo muove proprio da qui, dalla centralità di questa disciplina nel più ampio disegno della conoscenza contemporanea, prendendo in esame alcuni dei casi più eclatanti e noti (Welby, Englaro, Schiavo, fino alla vicenda Stamina) e affrontando le tante questioni a essi sottese – l'etica clinica, la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale, il corretto uso dei farmaci, la definizione di morte –, senza trascurare temi più generali quali la natura dell'embrione, la ricerca sulle cellule staminali, l'allocazione delle risorse in medicina, la globalizzazione della bioetica e la situazione nei paesi in via di sviluppo.

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Informazioni

Editore
Lindau
Anno
2014
ISBN
9788867082865
LE ORIGINI

Gli anni ’60 del ’900
come frutto maturo della modernità

1. Il nuovo clima culturale degli anni ’60: la contestazione dell’autorità e l’affermazione del valore della libertà

Cominciamo dunque a contestualizzare l’origine della bioetica nel clima di contestazione tipico degli anni ’60, decennio che ha fatto da sfondo alla nascita di questa nuova disciplina. Tale dissenso aveva come proprio principale oggetto il principio di autorità e come primo valore di riferimento quello della libertà e dell’autonomia.
La contestazione negli Stati Uniti prese inizialmente come bersaglio una certa organizzazione della società, che tollerava la segregazione razziale e il razzismo, negando, di fatto, i diritti di libertà e di uguaglianza formalmente garantiti dalla Costituzione. Un dissenso che ebbe il proprio culmine nella grande marcia su Washington del 28 agosto 1963, accompagnata dai canti di Mahalia Jackson, Bob Dylan e Joan Baez sulle scale del Lincoln Memorial.
Alla contestazione contro il razzismo fece presto seguito un dissenso più radicale e più generale contro l’autoritarismo di tutte le istituzioni portanti della società: famiglia, scuola, università, magistratura, Chiesa, esercito. A questo autoritarismo veniva contrapposta la libertà, a cominciare dalla libertà di parola e di critica, tanto che una delle principali organizzazioni di quegli anni, capace di radunare, il 2 dicembre 1964, ben ottomila studenti presso l’Università di Berkeley, si chiamava appunto «Free Speech Movement».
La critica dell’autorità si accompagnava spesso al tentativo di costruire realtà sociali alternative, da cui l’autorità potesse essere bandita: la comune al posto della famiglia, l’assemblea e la democrazia diretta al posto delle deleghe e della democrazia rappresentativa, le esperienze di base nella Chiesa ecc. Tutte queste esperienze avevano come obiettivo comune quello di mettere in crisi le figure sociali attraverso cui l’autorità si esprimeva: dal padre al poliziotto, dal giudice al militare, dal professore al caporeparto ecc.
Uno dei bersagli privilegiati dalla contestazione era rappresentato dalla guerra del Vietnam, una guerra considerata da molti ingiusta, imperialista, crudele, e che tanti giovani americani erano costretti a combattere loro malgrado, a causa dell’introduzione della coscrizione militare obbligatoria. All’autoritarismo dello Stato e dei vertici militari alcuni opponevano la protesta, altri persino l’obiezione di coscienza, come fece uno dei simboli sportivi della società americana dell’epoca: il pugile campione dei pesi massimi Cassius Clay, poi convertitosi all’islamismo con il nome di Muhammad Ali.
Il 21 ottobre 1967 più di centomila persone si radunarono al Lincoln Memorial, dove alternarono interventi e performance contro la guerra e contro le politiche del presidente Johnson. Da qui circa una metà dei partecipanti, convinti di dover passare all’azione, decisero di mettersi in marcia verso il Pentagono, dove alcune centinaia di manifestanti riuscirono a forzare lo sbarramento delle forze dell’ordine e vennero arrestate. Ben presto la contestazione contro la guerra del Vietnam incendiò le università: alla fine del mese di aprile del 1968 la Columbia University di New York venne occupata dagli studenti che criticavano il potere accademico, alleato del Pentagono in alcune ricerche funzionali alla guerra del Vietnam. All’occupazione studentesca le autorità risposero con cariche di polizia, pestaggi e arresti di studenti, con il risultato di far estendere maggiormente la protesta.
La contestazione studentesca esplose, contemporaneamente, anche in Europa. Il 16 novembre del 1967, in Italia, venne occupata l’Università Cattolica di Milano, al termine di un’assemblea studentesca in cui emerse la figura di Mario Capanna, futuro leader del movimento studentesco. Nel mese di maggio del 1968 Parigi ne divenne l’epicentro, con decine di migliaia di studenti che occuparono la Sorbona, mentre venivano occupate anche le fabbriche e gli scioperi paralizzavano i servizi pubblici e i trasporti. Non ne furono immuni nemmeno i paesi dell’Europa dell’Est, dove si iniziava a contestare l’invadenza e l’oppressione della burocrazia del Partito Comunista, sino ad arrivare a veri e propri rivolgimenti politici come quello verificatosi, proprio nel 1968, con la cosiddetta «Primavera di Praga».
La nascita del movimento femminista mise in discussione la struttura tradizionale della famiglia e l’autorità del padre. David Cooper, nel suo libro intitolato significativamente La morte della famiglia1, sosteneva che le strutture sociali alienanti prodotte dalla famiglia e mirate a creare le basi del conformismo e della normalità venivano riprodotte dappertutto: in ufficio, a scuola, all’università, nelle chiese, nei partiti, nell’esercito, in ospedale. Secondo Cooper tutte queste istituzioni non facevano altro che perpetuare una condizione da cui non si sfuggiva se non con la pazzia o con la rivolta.
La libertà iniziò a essere rivendicata anche sul piano sessuale. L’introduzione e la diffusione della pillola anticoncezionale portò al controllo della procreazione, alla sua separazione dalla sessualità e alla scoperta della dimensione ludica del sesso. I movimenti di protesta, inoltre, non si limitavano a mettere in discussione la famiglia, ma anche i cosiddetti valori «borghesi» che essa veicolava, quali la fedeltà, la verginità, il matrimonio. In questo processo di liberazione della sessualità ebbe un ruolo decisivo l’insegnamento di Herbert Marcuse, uno dei principali interpreti e ispiratori del movimento studentesco sessantottino, che dedicò a questo tema il suo fortunato testo del 1955 intitolato Eros e civiltà2. Marcuse, in quest’opera, contestava la psicoanalisi freudiana, vedendo in essa uno strumento finalizzato al ritorno dell’individuo alla normalità e al suo reinserimento nella società borghese. Al contrario, Marcuse riusciva a mettere insieme Freud e Marx, arrivando a sostenere che la psicoanalisi non deve limitarsi a una funzione terapeutica nei confronti dei singoli individui, ma deve assumere una funzione rivoluzionaria, in vista di una società non repressiva. Secondo Marcuse, infatti, non è la società in quanto tale a essere repressiva (come pensava Freud), ma la civiltà occidentale, borghese e autoritaria. L’efficientismo capitalistico, in nome del principio di prestazione, ha infatti imposto un livello di repressione istintuale che è di gran lunga superiore a quello necessario alla convivenza civile. La sessualità monogamica, la famiglia e il matrimonio sono dunque, secondo Marcuse, abiti etici funzionali alla riduzione dell’uomo a macchina da produzione, che deve sostituire quanto più possibile il godimento con il lavoro. Per questo motivo la libertà sessuale viene ad assumere una funzione politica, in senso rivoluzionario e antiautoritario.
In questo clima generale di contestazione del potere e dell’autorità non poteva certo mancare una contestazione del potere e dell’autorità medica, in nome di un diritto dei pazienti alla libertà nella scelta delle cure. L’etica medica tradizionale veniva messa fortemente in discussione, per vari motivi. Innanzitutto si contestava all’etica medica il semplice fatto di essere un’«etica dei medici», mentre l’impresa medica è un’impresa che riguarda non solo i medici, ma prima ancora i pazienti, sulla cui pelle si esercita la pratica medica. L’impresa medica riguarda inoltre la società nella sua globalità, che mette a disposizione dei medici gli strumenti e le risorse per poter operare. In secondo luogo si contestava il principio cardine di tutta l’etica medica, ovvero il principio di beneficenza (beneficence). Secondo questo principio il primo dovere del medico è quello di fare il bene del paziente, in certi casi persino contro la sua volontà. La coercizione per il bene del paziente era infatti giustificata dalla considerazione che il rifiuto di una cura efficace dimostrava, eo ipso, la palese incompetenza del paziente che la rifiutava. Il medico, insomma, tendeva a rapportarsi al paziente come un padre si rapporta a un figlio, ritenendosi autorizzato a esercitare un’autorità simile a quella paterna, inclusi i suoi aspetti coercitivi. Il medico, inoltre, aveva la facoltà di tenere nascosta o di rivelare solo parzialmente la verità attorno alla diagnosi, se avesse ritenuto che questa soluzione fosse la migliore per il paziente. Per questo motivo l’etica medica e il principio di beneficenza venivano accusati di «paternalismo» proprio quando, nel clima antiautoritario e di generale contestazione dell’autorità dei padri tipico degli anni ’60 e ’70, il termine «paternalismo» veniva ad assumere un’accezione molto negativa.
Uno degli ambiti clinici in cui veniva più facilmente giustificata la coercizione medica per il bene del paziente era senza dubbio quello della psichiatria, che si avvaleva frequentemente del cosiddetto «trattamento sanitario obbligatorio» e di strutture manicomiali connotate spesso come luoghi di contenimento sociale. Gli anni ’60 e ’70 videro, tuttavia, una rivoluzione di stampo antiautoritario anche in questo campo, in cui ebbe un ruolo di primo piano lo psichiatra italiano Franco Basaglia. Basaglia infatti ottenne, a partire dal 1962, la direzione dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, dove diede vita a un esperimento di carattere rivoluzionario, almeno per quell’epoca. Abolì le varie forme di contenzione fisica che venivano applicate ai malati, diede ordine di aprire porte e cancelli e di porre termine alle terapie elettroconvulsionanti, cercando di trattare i malati come persone in difficoltà, bisognose innanzitutto di relazionarsi agli altri3. L’approccio di Basaglia4 si poneva in contrasto con la psichiatria positivista, che pretendeva di classificare in modo oggettivo la malattia mentale, secondo una rigida tassonomia, per abbracciare un metodo di tipo fenomenologico-esistenziale, che doveva mostrarsi capace di ascoltare l’altro, spogliandosi di ogni certezza5. In questo modo Basaglia si avvicinava al movimento a cui David Cooper ha dato il nome di «antipsichiatria»6, nato nel quadro dei fermenti rivoluzionari sessantottini e costituito da personalità dal carattere estremamente eterogeneo, ma tutte accomunate dalla critica radicale nei confronti dei metodi terapeutici tradizionali7.
Basaglia fu l’ispiratore della legge 180 del 13 maggio 1978 («Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori»), spesso ricordata come la «Legge Basaglia»8. La legge 180 è stata la prima (e forse l’unica, a detta di molti esperti9) legge ad abolire gradualmente gli ospedali psichiatrici e a regolamentare il trattamento sanitario obbligatorio, per andare verso lo sviluppo di un sistema territoriale di cure psichiatriche10.

2. L’antico e forte radicamento del paternalismo nella pratica medica occidentale

Il paternalismo medico, però, non risultava così facile da combattere e da abbattere, perché era fortemente radicato nella pratica medica occidentale, avendone accompagnato passo a passo tutta la storia, sin dalle sue antiche origini ippocratiche.
La concezione paternalistica della beneficenza risale infatti all’etica medica ippocratica e alla sua spiegazione della genesi delle malattie croniche. Ippocrate (460-370 a.C.) riteneva infatti che le malattie croniche avessero origine dall’incapacità dei pazienti di seguire il classico ideale etico greco del «giusto mezzo» e del «nulla di troppo». Dunque, gli eccessi di ogni tipo, a cominciare da quelli alimentari e sessuali, conducevano, secondo Ippocrate, verso la malattia, così che diventava poi compito del medico non solo quello di curare la malattia, ma anche quello di insegnare la virtù. Per questo motivo il rapporto medico-paziente diventava un rapporto di tipo fortemente asimmetrico, dove uno era chiamato a educare e l’altro ad apprendere: un rapporto, insomma, disegnato sul modello padre-figlio o maestro-discepolo. La spiegazione che parte della cultura greca dava delle malattie acute rinforzava ulteriormente questa asimmetria, poiché le malattie acute, quali ad esempio infezioni o pestilenze, venivano talvolta attribuite all’ira divina, che il medico-sacerdote era chiamato a placare11. Tale funzione sacerdotale del medico contribuiva a innalzare la sua figura rispetto a quella del paziente e ad ammantare le sue prescrizioni di un afflato religioso. L’immagine ieratica del medico era ulteriormente rafforzata dal fatto che egli, per curare, facesse uso dei farmaci, ovvero di quel «pharmakon» che in greco significa al tempo stesso «farmaco» e «veleno», perché un sapiente dosaggio può guarire, mentre un cattivo o eccessivo dosaggio può dare la morte. E si sa: il dare la morte e la vita è una prerogativa divina, della quale il medico sacerdote si fa intermediario. Infine, il Giuramento di Ippocrate costituisce il più grande manifesto della concezione sacerdotale del medico: il medico infatti giura, come un sacerdote, di fronte ad Apollo medico, Igea, Panacea ed Esculapio, cioè di fronte agli dèi della medicina. Questo giuramento è un giuramento di tipo fondamentalmente religioso, che rende il medico responsabile di fronte agli dèi e non di fronte al paziente, oppure alla legge.
L’idea che il paziente non debba discutere le prescrizioni del medico è molto radicata nella cultura greca e trova una delle sue molteplici spiegazioni anche nel cosiddetto ideale greco della kalokagathia12, ovvero nell’idea che il bello e il buono, e di conseguenza anche il sano, siano tra loro inestricabili. Per questo Aristotele sosteneva che il malato, per il fatto di essere malato, perde perciò stesso anche la phronesis. Tale convinzione è stata fatta propria anche dalla cultura latina, tanto che il medico romano Galeno (129-200 d.C.), in base al suo ideale di una «mens sana in corpore sano», non esitava ad affermare che, quando il corpo è ammalato, anche la mente è di conseguenza ottenebrata, non consentendo al malato di cogliere il suo vero bene. Bene molto evidente e visibile, invece, agli occhi del medico. Galeno paragonava infatti l’effetto della malattia a quello dell’alcol: in entrambi i casi vi sono delle sostanze che alterano a livello fisico l’equilibrio degli umori corporei, con conseguenti effetti di destabilizzazione anche sull’equilibrio della mente13. In epoca medioevale le cose non cambiarono. Sant’Antonino da Firenze (1389-1459) non esitava a sostenere il principio di beneficenza e il paternalismo medico, osservando che «se un uomo malato rifiuta le medicine che gli vengono prescritte, il medico che è stato chiamato da lui o dai suoi parenti può curarlo contro la sua ...

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