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La guerra dentro
Informazioni su questo libro
Quando si parte per la guerra non si torna mai come quando si era partiti. La guerra uccide, macchia, colpisce e ti entra dentro, ti costringe a vederti per quello che sei. Per la prima volta dieci soldati italiani raccontano le loro emozioni.
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Informazioni
Capitolo 1
Il coraggio
Un grumo di morte, questo sono gli ordigni. Un ammasso di odio, un groviglio di vendetta, un groppo di rabbia, un intreccio di cause perse, di guerra infinita, d’innocenti violati. Bombe, o meglio ordigni improvvisati, così si chiamano modernamente anche se di improvviso non hanno nulla se non la sorpresa di chi viene colpito. C’è dello studio nel male. C’è del pensiero. C’è una pianificazione. Ci sono soldi, materiali, vite a perdere. E c’è chi li contrasta. C’è la testa di un uomo contro quella di un altro. Non c’è politica, non c’è strategia. E’ tanto semplice quanto primitivo. C’è la vita e poi non c’è più. C’è quel gioco macabro di chi sfida la morte per vincerla. C’è un uomo curvo sopra a un tavolo, in un magazzino, in un campo, in una base che prepara quell’esplosivo che potrebbe distruggere la vita di un bambino o quella di un soldato. Dall’altra parte c’è un uomo che arriva, ci mette le mani, trova dentro di sé le istruzioni e interrompe la morte. Per una volta. Mai per l’ultima.
Ogni giorno in paesi come l’Afghanistan vengono piazzate decine di mine. Soprattutto di questo, ormai, si muore in guerra. Soprattutto di questo, ormai, sono fatte le guerre. Di chi mette e di chi toglie. Non bastassero le mine piazzate dagli eserciti convenzionali e di cui è tappezzato il mondo. Non bastassero i residuati bellici che dopo decine e decine di anni possono ancora esplodere. Non s’inventa mai niente, non si progredisce mai.
A vederle o immaginarle, queste bombe, non sembrano così pericolose. Un cellulare o un orologio, della plastica, del ferro, una matassa di fili, dell’esplosivo, magari del fertilizzante. Si potrebbe trovare tutto in una casa comune. Poi ci sono quelle mani, piene di rabbia che si muovono lentamente, precise come la morte. Assemblano le cose, muovono i fili e i destini. Non importa che sia in Africa o in Asia. In sud America o in Medio Oriente. Qualcuno sta per morire. Si smuove la terra, si ficcano dentro nelle strade come una lama. E si aspetta. Qualcuno ora morirà. Non importa chi, meglio un soldato nemico. Ma va bene anche un ragazzino o un pulmino che passa.
“Ho sempre dato del “Lei” alle bombe. Si ha rispetto per quello che può uccidere”, mormora Michele Olmetto. Sono le sue prime parole, mentre siede nella poltrona di casa, i capelli brizzolati, un sorriso accogliente, il busto proteso in avanti, quasi a volerti rendere più partecipe di quello che dice.
E poi ci sono le mani di Olmetto. Quelle dita ferme che mostra come un trofeo nonostante non sia più un giovincello. “Potrei ancora farlo. Questo lavoro mi manca tantissimo, ma bisogna sapere dire basta. Bisogna sapersi fermare e lasciare spazio agli altri”.
Si comincia dalla fine a raccontare le emozioni di un artificiere. Perché sai che ce l’ha fatta. Che i suoi giorni tra le bombe appartengono al passato. Perché ora di quel tipo di morte si può anche discutere e parlare. Durante non si può. Fino a che non metti il punto, tutto quello che dici vale fino a quel momento. Domani non sai. Ora è diverso. Non ci sono esplosioni nel suo futuro. Ci sarà una vita più tranquilla. Non morirà per una bomba. Una vita dedicata è già abbastanza.
Bisogna essere matti per fare questo lavoro. O unici. Matti e unici, forse. Ci sono solo una quarantina di artificieri come Olmetto in tutta Italia. Non sono davvero molti. Per le forze armate sono preziosi come oro. E anche se oggi ci sono strumenti e tecnologie che aiutano, la presenza umana è irrinunciabile.
Olmetto ha salutato la propria vita ogni volta che si è avvicinato a una bomba. Sua moglie, suo figlio, il suo desiderio di essere trasferito nella sua regione, la Sardegna, che non ha mai ottenuto. Ha detto addio alla casetta che si stava costruendo, ai suoi amici, ai suoi parenti. Ogni volta che partiva non ci pensava, ma sapeva che poteva accadere. Col tempo impari. La morte diventa una compagna tanto stretta quanto un amico. La vedi, le passi accanto, la disinneschi e tiri un sospiro profondo di sollievo che è un alito di vita che riempie il mondo. Anche questa volta è andata. E poi si ricomincia.
Bisogna vederla un’esplosione per capire. Prima niente, poi tutto si ferma. Il tempo si paralizza. Il tuo mondo diventano i tuoi piedi, le tue gambe, le tue mani. Sapere se c’è ancora tutto. Se sei un uomo intatto. E la tua vita nel giro di un secondo non sarà mai più la stessa. Che tu abbia perso una gamba o visto il tuo compagno morire tra le tue braccia.
La morte ha il suono di un tonfo secco. Il rumore di qualcosa che si lacera. Sembra la terra, ma è la vita di chi è lì. Ha il colore della polvere che si alza. Il peso dello spostamento d’aria che può spingerti tanto forte da farti sbattere il cervello nell’elmetto e ucciderti. Ha l’odore del sangue e della terra mescolati. E’ l’odore della paura. Sì, la paura ha quella puzza, della terra e del sangue bruciato.
La vita è quella della base. Si fanno le cose normali di tutti. Poi il cellulare suona e tutto cambia. “Si vive con il telefonino acceso, mentre sei in missione non ti rilassi veramente neanche quando mangi una pizza con i compagni. Il cellulare può sempre squillare e tu devi andare”. Che sia notte o giorno. Che faccia o freddo o caldo. Che il tuo orizzonte siano le paludi bonificate dell’Iraq o i colori caldi e di campagna del Libano.
Squilla il telefono, è la morte che chiama. “E’ come se accadesse qualcosa, come se tutto il tuo corpo si preparasse, tu pensi solo a quello che devi fare, mentre l’adrenalina sostituisce il sangue”. Si controllano le pulsazioni, ci si mantiene calmi, qualcuno è così di natura, qualcun altro impara. E deve farlo in fretta. “Non si sbaglia mai due volte in questo mestiere”.
Mettere le mani in una bomba, su un residuato bellico, dovrebbe essere spaventoso. “Spaventoso no, perché sai con cosa hai a che fare. Ma non si scherza. Rispetto. La paura c’è, perché sai che dall’altra parte hai il nemico, non sai con cosa è lavorato l’ordigno, cosa c’è all’interno e soprattutto come è fatto il congegno. A me interessa capire il sistema di attivazione. Cerchiamo il detonatore. Una volta che separi il detonatore dall’esplosivo, il 90 per cento è fatto”. Un metodo per ogni tipo.
“La paura non ti ferma. La tua mentalità cambia, pensi in un altro modo. Anche se interviene il robottino per disarticolare e separare le parti, la seconda fase, il disinnesco vero lo facciamo noi”. Lo racconta come se parlasse di infilare le mani in un pacchetto di patatine. Non vanta coraggio o fierezza. Il suo tono di voce è sereno e morbido, leggermente velato da un accento sardo che si è perso con la vita, insieme a chissà quante altre cose. Lo dice come se fosse una cosa normale. Normale per lui.
“Per noi che lavoriamo su un ordigno oggi come oggi, la paura vera non è la bomba in sé, ma l’idea di mettersi a lavorare pensando che intorno, da qualche parte, qualcuno potrebbe essere nascosto e pronto a spararti. A questo pensi: ci arriverò all’ordigno?”.
E’ così che spesso funziona. Le tecniche della contro-insurrezione si affinano come quelle dell’insorgenza. Le mine si prestano a essere piazzate ovunque. Ai lati delle strade, sotto le vie, dentro ai cumuli di pattumiera, in una macchina, su un mulo. Addosso a un uomo. Il metodo più semplice e convenzionale è quello della strada. In Afghanistan sono quasi tutte sterrate, velate da una coltre di sabbia che sembra fatta apposta. Può essercene una, possono essercene molte. Può essere una trappola per un’imboscata e allora qualcuno o più di uno potrebbero essere nascosti kalashnikov alla mano e potrebbero essere pronti a sparare. Uccidere gli artificieri fa vincere una guerra.
Quelli del Genio fanno da apripista. Sono davanti a tutti. Gli occhi puntati sull’asfalto a notare ogni spostamento del terreno, ogni buco o montagnetta. Nelle venature di una strada potrebbe essere nascosta la morte, o dentro a un canale, o sotto un cumulo di polvere. Gli occhi sono guardinghi. Occhi svegli, premurosi, preoccupati.
“Non esiste la bonifica perfetta, ti può sempre scappare qualcosa. La nostra è una bonifica di passaggio, se vedi qualcosa sulla strada è un discorso, però non è che posso garantire che sia pulita se non mi accorgo di niente. Molte volte fanno passare noi, e poi aspettano il convoglio. E bum. Poi ti chiedi se hai fatto quello che dovevi, se hai sbagliato, se ti sei distratto un attimo, se potevi fare di più. Ma non sei una macchina. Puoi solo garantire il tuo impegno. Che è davvero grande. Dal momento in cui esci, c’è solo quello. Pensi a quello che puoi trovare, a come ti devi comportare. Devi pensare sempre che può succedere qualcosa, se non lo pensi è la volta che ti fai male. Scandagli ogni imprevisto. Pensi a ogni possibilità”.
Quanto ci si sente fortunati? “Tanto. Davvero tanto”. Per quanto uno abbia studiato. Per quanto uno sia competente.
“Una mattina usciamo, eravamo in Afghanistan e in giro non c’era nessuno. Per noi è un segno. Mi sono girato verso il collega e gli ho detto “Oggi ci fanno la festa”. Noi dovevamo uscire per forza per un intervento. Dovevamo andare”. L’adrenalina impregna i corpi. Ti scorre dentro. Il cuore batte forte anche se tu non senti niente tranne l’eccitazione di qualcosa che sai che sta per accadere. Il tuo sguardo scruta il mondo che ti circonda. Senti l’ostilità, senti il vuoto, senti l’impotenza. Ma non conta niente perché c’è quell’elettricità che ti attraversa. Quel fremito che ti attrae e ti confonde. La paura è anche una calamita. L’anima si ribella, la mente razionalizza, il corpo si adegua. “Quella mattina era così, mi sono girato verso il mio collega e ci siamo guardati”. Sguardi che non hanno bisogno di parole. Sguardi d’intesa che si creano con chi condivide quel pezzo di vita. Stesso posto, stesso tempo, stesso pericolo. E quelle stesse sensazioni che non potrai dimenticare, che renderanno questo ricordo diverso da tutti gli altri. La paura non si scorda. E neanche lo sforzo che si fa per contrastarla. “Ci aspettavamo l’esplosione. Ci aspettavamo il botto. “Questa mattina è per noi, ci siamo detti”. Poi non è successo.
“La paura c’era, la sentivi, la vedevi, potevi toccarla. Invece siamo andati avanti, abbiamo fatto l’intervento e già al rientro, la strada verso la base era di nuovo popolata di gente. La situazione era cambiata. Le biciclette. Il mercatino”.
I segnali cambiano. Le persone che trafficano, le voci dei ragazzini, i carretti che portano legna e cibo. E’ la vita quotidiana che si ricompone. Resti all’erta, ma l’adrenalina cala. Rimetti i piedi in base. Si chiude il cancello dietro di te. E il sollievo ti si scioglie nelle vene come zucchero.
“Non dico rilassamento. Anche perché poi c’è altro da fare. Ma il peggio è passato. Penso che l’Iraq sia stato il momento più rischioso”, ricorda Olmetto con un brivido che gli attraversa il corpo. “Una volta siamo andati a cinturare un posto e ci siamo trovati cinturati. Eravamo circondati. Ce la siamo vista brutta. E anche qui sei costretto a cambiare un’altra volta, da operatore diventi guerriero. Devi salvarti la pelle”. Devi farti strada, devi tirarti fuori dai guai e non sempre puoi contare sui soccorsi, spesso troppo lenti, spesso troppo vincolati dalle conseguenze politiche.
“In Iraq avevo una bellissima squadra. Sapevo che quando uscivo per controllare un ordigno, alle spalle ero sempre protetto da bravi ragazzi. Non ero il maresciallo, ero un amico. Non mi ascoltavano perché ero bravo o esperto, eravamo tutti uguali lì, tutti nella stessa situazione. Eravamo tutti per uno”. Niente contava di più. I tuoi compagni e te.
“In ogni missione le persone che erano con me dovevano rientrare tutte con me. Ero responsabile per loro. Eravamo arrivati tutti insieme, tutti insieme dovevamo rientrare. E nessuno si doveva fare male”.
Questo è uno dei comandamenti di Olmetto. E’ sempre riuscito a non violarlo. Non ha avuto perdite nelle sue squadre, anche se di amici negli anni, ne ha persi. “A dire il vero, anche quando muore un soldato che non conosco, non nascondo che mi commuovo. Significa che qualcosa non ha funzionato, che qualcosa è andato storto”. O forse semplicemente succede. Fa parte di questo lavoro. Si vince anche semplicemente quando si torna a casa. E quando si perde, si perde tutto.
“Sei mesi in missione per noi sono lunghi. Perché siamo pochi e la tensione è alta e costante. Continuiamo a girare e capita che puoi partire anche due volte all’anno diversamente dagli altri. Per un attimo è sembrato che potessero abbassare la nostra permanenza a quattro mesi e poi non se n’è fatto niente”. Non è facile restare lucidi per sei mesi. Senza una pausa. Senza uno stacco.
“Gli ultimi giorni sono i peggiori. Ho sempre detto che la missione finisce quando metto piede in Italia. Non un attimo prima. Il giorno del TOA (il cambio del contingente) si parte dal posto dove abbiamo lavorato sei lunghi mesi. Ma non significa che non si rischi più. Anche la strada per l’aeroporto può essere fatale. E’ successo. Non ti devi mai rilassare. Per noi è più facile capirlo, sai benissimo che non è finita. Naturalmente ogni tanto si “svalvola”, sono le giornate no, pensi alla famiglia, pensi che sei stanco. Ti alzi con la luna storta. Ti viene voglia di dire “Domani vado via”, poi arriva la sera, vai a dormire, ti svegli e si ricomincia. Le brutte giornate ci sono per tutti. Non stiamo andando in giro a portare il pane. Gli esauriti ci sono in tutti i settori, figuriamoci nel nostro dove la tensione è sempre alle stelle”.
La tensione appunto, che si accumula: “Ogni tanto ti siedi, parli, racconti a qualche collega. I nostri rapporti sono stretti, siamo una famiglia, si litiga, ci si arrabbia, ma ognuno dipende dall’altro. Sei sempre sotto stress, aspetti la chiamata, non ci sono giornate di riposo. Non stacchi mai. Che tu vada in bagno o a prendere un caffè”.
Un'altra storia investe Olmetto. I ricordi riaffiorano alla mente e si insinuano nel discorso. Dovremmo parlare di sensazioni, non di quello che è accaduto. Ma le emozioni non sono mai slegate dai fatti. Come una bella canzone che in certi momenti diventa la storia di un pezzo di vita. E allora come non raccontare di quel residuato in Italia. Sì, in un paese dove la guerra, almeno quella convenzionale, è solo nei ricordi degli anziani. E invece può ancora colpire e uccidere.
“Una volta ci hanno chiamato da Formia. Abbiamo dovuto evacuare un sacco di gente. E solo una settimana dopo dal ritrovamento, quando tutto era stato messo in sicurezza, siamo potuti intervenire noi. Dopo interminabili sopraluoghi. Ma non sapevamo davvero se saremmo tornati a casa. Dovevamo muovere una bomba della Seconda Guerra mondiale conficcata in un terreno vicino a una villetta ed era ad altissimo rischio. Aveva un congegno che poteva scoppiare da un momento all’altro. Quando ci siamo mossi per andare a fare l’intervento, la gente piangeva convinta che non saremmo tornati indietro. Sapevamo che non sarebbe stato facile. Eravamo sei colleghi. Una bomba di aereo. Bastava un minimo movimento non corretto. Sul posto non si poteva far brillare, bisognava prenderla. Tirarla fuori. Trasportarla. Bastava un’oscillazione e avrebbe potuto scoppiare. Era messa perpendicolare e così doveva uscire. Anche il proprietario della casa piangeva, voleva salvare la villetta, tutti i suoi sacrifici erano lì. Ora sorrido, perché lo rassicurai per la sua villetta, “Faremo il possibile”, ma noi rischiavamo la pelle. Ricordo che dissi al mio capitano sconvolto quasi a confortarlo: “Non ti preoccupare dopo andiamo a prenderci il caffè”.
E quel caffè che non deve essere mai stato così buono, poi se lo presero. La villetta fu salva. Nessuno si fece male.
“Perché lo fai? Perché è giusto, perché penso che potrei salvare delle persone. Perché è questa la grande soddisfazione. Questo ti fa mettere in gioco tutto”. Sapere che hai fatto quello che era giusto. Qualcosa che pochi altri sanno e possono fare. Batti la morte e anche se non vedi il sorriso di chi salvi, sai che esiste. E il mondo in quel momento anche se solo per un istante è sicuro. E ti senti di essere stato utile. Lo hai fatto tu. Non è solo disinnescare una bomba, è innescare la continuità della vita. Di certo non lo fai per soldi, “Non si guadagna in questo lavoro. Noi prendiamo come tutti gli altri. Non ci sono incentivi e non credere che vada sempre tutto liscio, le incazzature sono tante quanto gli ordigni. E a tutti i livelli. Molti ancora non ri...
Indice dei contenuti
- Cover
- Frontespizio
- Copyright
- Premessa
- Capitolo 1 Il coraggio
- Capitolo 2 Il dolore
- Capitolo 3 La responsabilità
- Capitolo 4 Il segreto
- Capitolo 5 Il sedile della morte
- Capitolo 6 La cura
- Capitolo 7 Il Buio fuori
- Capitolo 8 L’attesa
- Capitolo 9 Il cielo
- Capitolo 10 La mente
- INDICE