TRACK # 1
ERA MAGICO –Negrita
Io non ricordo più
Cosa mi ferì qualche tempo fa.
Io ero Robin Hood
Piccolo così
E non piangevo mai
Ed era magico magico magico
era magico magico magico.
Io non ricordo più
Cosa mi ferì qualche tempo fa.
Volts, schegge d’energia
Da una radio che
Somigliava a noi
Ed era magico magico magico
Ma ora vomito vomito vomito
Io non ricordo più
Cosa mi ferì qualche tempo fa.
Io non odiavo, io
M’innamoravo, io
E non tradivo mai
Ed era magico magico magico
Ma ora vomito vomito vomito
Io non odiavo, io
M’innamoravo, io
Io confidavo in Dio
Ed era magico magico magico…
TRACK # 2
ONE STEP CLOSER –Linkin park
Lunedì mattina.
Uno dei momenti peggiori della settimana.
Entra in ufficio un uomo di mezza età, bassino e tarchiato, timidamente al seguito del signor Sansone, responsabile del personale; sbucano entrambi dalla fitta nebbia che precede il secondo caffè della mattinata.
“Francesco?”
“Buongiorno, signor Sansone.”
“Lui è Severino Mastrodonato, il tuo nuovo collega.”
Gli tendo una mano svogliata, senza neanche accennare ad alzarmi dalla sedia.
Posso permettermelo.
Severino Mastrodonato, nonostante sia visibilmente più grande di me – almeno una decina d’anni – sarà un mio diretto dipendente; sarò il suo capo, insomma, e questa mattina ho ben poca voglia di recitare la parte – a volte necessaria – del superiore amichevole e sorridente.
La sua stretta di mano è debole.
Nel complesso mi faccio un’immagine di lui che sembra poco convincente: appare troppo remissivo per il mestiere di venditore.
Lo invito ad accomodarsi alla sua postazione, gli spiego brevemente da dove potrà reperire un po’ di materiale per studiare qualcosa, per farsi un’idea di come si lavora nella nostra azienda, gli concedo senza entusiasmo la mia disponibilità per qualsiasi chiarimento.
Esauriti i convenevoli lo lascio in ufficio, pregandolo di rispondere al telefono, quindi mi avvio verso il distributore automatico di bevande per assumere una necessaria dose di caffeina. Da solo.
La sequenza di rumori che la macchinetta emette nel preparare un caffè è una delle cose che mi risulta più familiare. La conosco a memoria, come se facesse parte della mia vita da sempre. Ilbeep di quando sul display compare il credito residuo della tessera magnetica, i grani di caffè che vengono macinati, il bicchiere che cade in posizione, il fruscio – quasi impercettibile – del pizzico di zucchero che lo va a riempire, infine il rivolo di liquido nerastro che cola lentamente e il nuovobeep di chiusura.Prelevare la bevanda. Grazie.
Bevo, mentre la scritta “Bevi un caffè e riparti di slancio” si rincorre svogliata sul display. Penso che avrei potuto almeno invitare Severino a prendere qualcosa con me, ma l’idea viene spazzata rapidamente da una sensazione di fastidio e dalla contentezza per poter essere lì da solo, di potermi godere la pausa in pace e rinunciare per un attimo ai sorrisi di cortesia e ai discorsi inutili che il mio mestiere mi impone, per più di dieci ore al giorno.
Difficile rendervi precisamente l’idea di cosa provo quando ascolto Chester Bennington consumare tutto il suo fiato, per urlare “Shut up when I’m talking to you!”1 alla fine diOne step closer. E’ la chiusura del concerto, la sua camicia è inzuppata di sudore e lui salta, instancabile, in lungo e in largo sul palco. E grida.
Grida.
Sembra dover scaricare tutta l’energia accumulata durante lo show.
Il lettore cd dell’autoradio mi informa con un messaggio a cristalli liquidi che sto ascoltando la traccia numero dodici di “Live in Texas”; in quel preciso istante sento qualcosa crescere dentro di me, gonfiarsi all’altezza dello stomaco nel momento in cui Chester pronuncia le parole “Shut up” e poi esplodere con tutta la sua violenza, pervadermi per intero il corpo quando la chitarra segue graffiante il “you!”, accompagnata da una sezione ritmica energica e cadenzata.
Mi sento meglio, dopo questaesplosione.
Sono le venti e dieci, la città è frenetica e gli automobilisti guidano nervosi in preda alla voglia di rientrare a casa per la cena. Ho appena terminato le mie dieci ore di lavoro.
Niente poteva essermi più d’aiuto di questa scarica di alta tensione.
Esco dalla doccia, asciugo i capelli con un rapido colpo di phon, entro in camera da letto.
Sul display del telefono cellulare è comparsa una scritta; probabilmente è successo mentre ero sotto l’acqua, e il suo scroscio mi ha nascosto la suoneria: “Hai ricevuto un messaggio”. Poi, a capo, a caratteri maiuscoli: “FLO”. Infine, ancora a capo: “Leggi?”
Seguo l’invito del mio interlocutore elettronico, schiaccio il tastoYes e faccio scorrere il testo lentamente: “ho bisogno del tuo aiuto. riusciamo a vederci prima della fine della settimana? solo tu puoi consigliarmi. flo.”
Flo.
Le presentazioni, innanzitutto, come si conviene a un gentiluomo: Flo è stata la mia prima vera ragazza; la mia prima e ultima storia impegnativa. Avevo circa venticinque anni, lei un paio di meno, e a quel tempo erodavvero diverso da come sono ora: ero dolce e premuroso, sapevo ascoltarla, ridere con lei, fare l’amore con passione. Avevamo trovato una sorta di alchimia, un equilibrio misurato e armonico.
Laamavo.
Questa parola, ora, mi sembra avere un suono assurdo, insensato; a volte persino ridicolo.
Ora.
Perché allora le cose erano diverse.
Siamo stati insieme più di cinque anni, durante i quali ho passato alcuni dei momenti più intensi della mia vita, ai quali ho legati i ricordi che più mi piace andare a rispolverare.
Allora scattavo una infinità di foto con una vecchia Reflex Canon, ereditata da mio zio; le ho ancora tutte conservate. Ora, con la diffusione delle fotocamere digitali, questa passione potrebbe essere estremamente agevolata.
Eppure.
Eppure non scatto più una sola istantanea da anni.
La cosa ha perso interesse.
So che ora starete pensando tutti a Flo come una ragazza attraente, magari con un fisico estremamente sexy e, ad esempio, un bel paio di tette.
Lo so, perché ho bene in mente quale sia l’immagine che vi siete fatti di me, quanto mi figurate esigente in termini di ragazze e di persone da frequentare.
Sbagliate.
Flo è una ragazza bruttina, con un viso davvero lontano dai classici canoni di bellezza e un fisico solo lontanamente accettabile, ma comunque troppo magro e pieno di spigoli, più che di curve. Il naso, innanzitutto, è sproporzionato rispetto al resto del corpo: presenta una accentuata curvatura, come se fosse una collina troppo elevata che svetta dal territorio brullo e spigoloso del suo viso. Poi la peluria: Flo è bruna e scura di carnagione, e di conseguenza i peli sono nerissimi, difficili da nascondere. La ricordo continuamente alle prese con schiarenti e strisce di ceretta, con i quali tentava disperatamente di estirpare quei baffi e quelle basette che crescevano troppo in fretta, spesso con risultati non soddisfacenti.
Ora avete un quadro un po’ più dettagliato – anche se forse un tantino impietoso – della persona di cui sto parlando.
Sostituite, dunque, l’immagine che vi eravate creati in mente prima di questa descrizione, e vi risulterà più semplice comprendere il seguito di questa storia.
Lasciai Flo per Giovanna, una ragazza molto più bella di lei, che mi fece perdere la testa lentamente, con atteggiamenti misurati ma inesorabili, stuzzicandomi a intervalli regolari nei punti in cui sapeva che io e Flo eravamo deboli.
Non sul sesso, dunque, perché Flo era in gamba: aveva fantasia, eleganza, e ci metteva molta passione.
Giovanna mi coglieva in fallo sulla mia vanità, sulla mia voglia di avere accanto una ragazza bella. Mi invitava a mare e si presentava con dei due pezzi neri che sembravano studiati per mettere in risalto tutti gli aspetti positivi del suo fisico; mi telefonava per un caffè e, dopo avermi fatto pagare il conto – lasciandomi fiero di sottolineare al cameriere che pagavo anche per quella ragazza alta e slanciata che era seduta al tavolo con me – mi si incamminava davanti, con dei pantaloni bianchi di lino che facevano intravedere perfettamente in trasparenza il perizoma scuro che indossava come biancheria intima.
Fu così che, dopo qualche mese di maldes...