La guerra dei non violenti
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La guerra dei non violenti

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La guerra dei non violenti

Informazioni su questo libro

L'Autore ripercorre il filo che lo portò a pubblicare nel 1988 Gli eretici della pace uno dei primi studi sulla storia dei movimenti antimilitaristi dal fascismo alla fine degli anni Settanta. Da quel filo discende La guerra dei nonviolenti che è arricchito di una maggiore attenzione alle fonti bibliografiche ed archivistiche - molte delle quali inedite - e una periodizzazione che arriva alla metà degli anni Ottanta.

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Informazioni

Capitolo IV
Nuovi gruppi e comitati
La nuova generazione di antimilitaristi che, a partire dal 1968 si diffuse in tutta Italia, creò un’area nuova di dibattito, una maggiore attenzione alle funzioni reali delle forze armate considerate baluardo centrale del sistema capitalistico e non una semplice appendice.
Una miriade di fogli, giornali, giornaletti, volantini, espressione di quella vasta area di gruppi alternativi di controcultura nata dal 1968 si propagò in tutta Italia: si moltiplicarono anche i dossier, spesso ciclostilati artigianalmente, su problemi specifici, dai processi agli obiettori, agli incidenti subiti dai soldati durante la prestazione del servizio militare in modo da fornire un dato di informazione sulla realtà della caserma.
Veniva così dimostrato come, al di là del caso, i soldati vengano mandati allo sbaraglio senza sufficienti garanzie per la propria incolumità: disprezzo della vita, repressione dei diritti e delle necessità più elementari, privazioni del potere di disporre delle proprie facoltà intellettuali, fisiche o psichiche. Il lavoro di controinformazione incontrava enormi difficoltà perché le inchieste si svolsero sempre nel più assoluto riserbo e non arrivavano mai ad accusare esplicitamente enti o autorità militari.
Il silenzio veniva rotto solo in occasione dei processi agli obiettori e a quanti durante le iniziative di solidarietà e di informazione sulle forze armate subivano le denuncie per istigazione, vilipendio, propaganda o apologia sovversiva e antinazionale.
La grande stampa continuò a rimanere indifferente alla realtà delle caserme e solo i quotidiani della nuova sinistra fornivano le informazioni essenziali e i dibattiti sulla realtà militarista. Malgrado la creazione di comitati per l’abolizione dei reati di opinione e una maggiore assistenza tecnico-giuridica per gli incriminati, le continue denunce e i processi raggiunsero l’obiettivo di ottenere la defezione di molti militanti e una diffusa mancanza di credibilità agli occhi dell’opinione pubblica meno attenta.
Solo in alcuni casi i processi diventarono tribune di dibattito politico di rilievo usati come occasione per ribadire le proprie convinzioni antimilitariste. Il 5 aprile 1974 a Torino si aprì il processo a 9 antimilitaristi accusati di una serie di reati di opinione commessi durante alcune manifestazioni in difesa dell’obiezione di coscienza e di contestazione delle forze armate.157 Il tentativo delle forze dell’ordine era quello di discreditare il movimento antimilitarista nonviolento anche con l’accusa, poi rivelatasi falsa, di aver agito con violenza. Il tentativo fallì anche per la capacità degli imputati di presentare chiaramente come il rifiuto integrale dell’esercito non può non fondarsi che su una profonda scelta nonviolenta. Il 14 aprile 1977 si concluse il processo di appello con una piena assoluzione.
Ma il processo che maggiormente mobilitò gli antimilitaristi in una azione di difesa del pensiero fu quello contro Pietro Pinna.
Pinna fu condannato a 4 mesi di reclusione nel 1973, con sentenza confermata in appello e in cassazione per aver diffuso nel 1972 in occasione del 4 novembre questo manifesto:
4 NOVEMBRE NON FESTA MA LUTTO Per le autorità militari, civili e religiose (!) questo è un giorno di festa. Per le masse popolari è un giorno di lutto. Il popolo non voleva quella guerra. Centinaia di migliaia di soldati furono giudicati dai tribunali militari perché si ribellarono al macello. 600.000 italiani sono morti: fu una "inutile strage". E la guerra "vittoriosa" ci regalò poi il fascismo. L’esercito italiano …: 28 ottobre 1922 i fascisti marciano su Roma: l’esercito italiano… non interviene; 1935 l’esercito italiano … aggredisce l’inerme Etiopia; 1936-39 una guerra civile spagnola; l’esercito italiano interviene… ma contro il popolo spagnolo; 1939-45 una frana di aggressioni perpetrate dall’esercito italiano: Albania, Francia, Egitto, Grecia, Jugoslavia, Russia … ; 8 settembre 1943 i nazisti invadono l’Italia: l’esercito resiste … 3 giorni. La vergogna e il crimine è di tutti gli eserciti: Franco, colonnelli di Grecia, aggressione USA in Vietnam, invasione della Cecoslovacchia, Medio Oriente… Gli eserciti non servono il bene dei popoli. Servono per la repressione delle lotte popolari, a difesa della proprietà e degli interessi dei ceti dominanti. Né un uomo né un soldo per la guerra! No a tutti gli eserciti! 158
Venivano quindi ricordate le esperienze negative delle forze armate senza nascondere la verità sulle aggressioni dell’esercito italiano come quelle di ogni altro Paese.
Il 9 agosto 1974 Pinna, dopo essere stato condannato in via definitiva, presentò la domanda di grazia al Presidente della Repubblica dettata da motivi politici e non personali. Con essa Pinna richiedeva un gesto concreto per l’adeguamento delle leggi penali alla Costituzione e il riconoscimento della liceità etica e politica dell’idea pacifista nonviolenta che ispirò il manifesto condannato.
Nonostante la presentazione della grazia, il 17 gennaio 1975 Pinna fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Perugia, lo stesso dove fu imprigionato Capitini nel 1943 durante l’ultimo periodo del regime fascista per le sue idee antifasciste e liberalsocialiste. Dopo 4 settimane di carcere l’istanza di grazia fu accolta dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone e quindi Pinna fu liberato.159
Azione Nonviolenta titolò: “Una vittoria dell’opinione pubblica”. Notevole fu infatti la mobilitazione per la sua scarcerazione.160
All’autodenuncia di 14 antimilitaristi – gesto di solidarietà con Pinna e di rivendicazione di fronte alla giustizia, della legittimità del manifesto incriminato da essi diffuso il 4 novembre 1971 – che si concluse con l’assoluzione il 16 maggio 1973, si deve aggiungere una campagna fatta di migliaia di adesioni ad un appello per l’immediata libertà di Pinna, manifestazioni di piazza, volantinaggi, lettere e telegrammi, interventi di parlamentari e di intellettuali e distribuzione del testo del manifesto antimilitarista che era stato all’origine della condanna.
Queste mobilitazioni costituirono una dimostrazione decisiva di quanto possa essere determinante un’opinione pubblica attenta contro l’autoritarismo del potere statale e segnò un metodo di iniziativa politica che fu ripreso efficacemente nella lotta per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza.
Nel 1971 un gruppo di magistrati facenti capo a “Magistratura democratica” raccolse oltre 300.000 firme per l’abrogazione dei reati antisindacali e di opinione. L’iniziativa ebbe quindi un insuccesso materiale per il mancato raggiungimento del quorum delle 500.000 firme richieste dalla legge. Ripresentato nel 1974 dal Partito radicale il referendum subì un altro insuccesso con la raccolta nelle piazza di circa 150.000 firme a causa delle defezioni dei gruppi extraparlamentari che avevano garantito in un primo momento la propria adesione. Per i gruppi la coincidenza della raccolta delle firme e della campagna del referendum sul divorzio costituiva un elemento di dispersione e non di forza, come invece sostenuto dai radicali, e nulla fecero per sostenere l’iniziativa.
Nel 1977 l’iniziativa referendaria ebbe successo con il superamento del quorum su una proposta di ampi tagli al codice penale fascista.
Ma nel gennaio 1978, la Corte Costituzionale dichiarò inammissibile questo referendum perché vertente su materie non omogenee, troppo diverse tra loro. Riproposto nel 1980 con una formulazione sufficientemente omogenea, che ebbe come conseguenza la necessità di tralasciare alcune parti alla precedente iniziativa (tra cui i reati sindacali), la Corte dichiarò l’anno successivo nuovamente inammissibile questo referendum.161
La nuova stampa antimilitarista
L’analisi del ruolo delle Forze Armate, la loro ristrutturazione e la ricerca di forme alternative di difesa con la proposta della Difesa Popolare Nonviolenta (DPN) diventarono il momento di riflessione teorica più importante per i gruppi antimilitari negli anni Settanta.
Accanto ai tradizionali congressi, che fornirono l’occasione per una riflessione politica ed organizzativa si sviluppò una rete editoriale alternativa pacifista e una serie di incontri dibattiti su temi specifici.
Le nuove riviste che si diffusero162 e i quotidiani della nuova sinistra, ospitarono con sempre maggiore frequenza le informazioni e le analisi sulle forze armate,
Solo dal 1974 si nota una maggiore attenzione anche degli organi di stampa sulle Forze Armate dovuto al radicalizzarsi della lotta politica, le trame nere (con contorno di SID e ufficiali golpisti), ma soprattutto il golpe cileno che ha indotto ad un discorso più approfondito sul ruolo delle istituzioni militari.
Negli anni Ottanta il vasto lavoro di controinformazione e di studio trova nel decennio precedente un terreno fertile di dati sulla realtà militare, più sotto l’aspetto divulgativo e di testimonianza diretta di casi particolari, che su quello dell’incidenza economica e politica.
In quegli anni furono organizzati i primi incontri, dibattiti e mostre sul ruolo delle Forze Armate e sulla politica militare italiana e della NATO nella loro trasformazione, sulla conversione dell’industria bellica e sull’importanza dell’apparato militare nell’economia italiana.
Era il primo tentativo analitico attraverso il lavoro di informazione diffusa, di radicare una cultura pacifista (ancora sanzionata penalmente dai codici) contro la cultura della guerra, unica ad avere dignità scientifica, diffusione di massa e credibilità anche per l’utilizzazione di istituti di ricerca assolutamente allineati agli interessi della politica estera e militare dei governi che usavano il concetto di pace in funzione della propria politica e di quella della NATO.
La scarsità dei dati a disposizione, spesso sottratti agli stessi parlamentari, le difficoltà finanziarie e di agibilità organizzativa e la mancanza di un reale coordinamento con le esperienze estere, resero comunque ancora difficile l’elaborazione scientifica di un progetto complessivo di trasformazione della struttura militare in iniziative per il disarmo che sappiano anche imporre la visione secondo cui la difesa del paese non deve necessariamente essere assicurata con mezzi militari. Ciò malgrado, le ricerche per la pace condotte dagli antimilitaristi con la creazione di centri di documentazione e delle “case per la pace” furono le prime “banche dati” poste al servizio di quanti intesero approfondire la conoscenza del militarismo e si scontrarono con la mancanza di dati informativi. Ma accanto a questo tentativo prendevano il via le prime proposte di Difesa Popolare Nonviolenta, (totalmente alternativa a quella militare, sia in tempo di pace, che durante l’invasione e l’occupazione militare). All’inizio le strategie DPN furono diffuse con la traduzione di contributi non italiani. Successivamente con la pubblicazione a partire dal 1977 dei “Quaderni della DPN” e con una serie di incontri specifici organizzati spesso a cura del MIR.
La DPN presuppone una serie di azioni nonviolente, in genere diffuse e di massa, in grado di contrastare efficacemente ogni tentativo governativo di ottenere un sostegno popolare per una politica bellicistica in tempo di pace e in grado di impedire all’invasore ogni attentato ai diritti dell’uomo e con l’obiettivo di rendere le truppe di invasione meno solidali con il governo grazie ad una strategia tale che comporti il loro ritiro dai territori occupati.
Nella difesa popolare nonviolenta l’intera popolazione e le istituzioni della società divengono le forze combattenti come conseguenza di una precedente decisione e col beneficio di preparazioni e addestramenti. Questo tipo di politica è stata progettata come difesa sia contro usurpazioni interne – colpi di Stato o altro – che contro invasioni militari convenzionali straniere. Le armi dei difensori civili consistono in una vasta gamma di forme di resistenza e di contrattacco psicologiche, economiche, sociali e politiche. Fra queste, ad esempio, non-cooperazione politica, scioperi, boicottaggi economici, governi paralleli, infrazioni pubbliche, dimostrazioni di massa, sovversione delle truppe occupanti e supporto di sanzioni economiche e politiche internazionali. La difesa popolare nonviolenta ha come scopo quello di deterrere e di difendere dagli attacchi tramite preparativi atti a rendere la società ingovernabile da parte di potenziali tiranni interni e aggressori stranieri. La popolazione, addestrata a tal fine, e le istituzioni sociali sarebbero preparate ad impedire agli attaccanti il conseguimento dei loro obiettivi e a rendere impossibile il consolidarsi del controllo politico. Tutto ciò verrebbe utilizzato applicando una non-cooperazione e una resistenza capillare e di massa. Inoltre, quando possibile, il paese difensore cercherebbe di creare il maggior numero possibile di problemi internazionali agli invasori e di sovvertire la fidatezza delle loro truppe e dei loro funzionari. L’obiettivo principale della difesa popolare nonviolenta è quello di prevenire possibili attaccanti interni e stranieri dall’intraprendere qualunque azione ostile. Verrebbero utilizzati vari mezzi, alcuni direttamente ass...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Premessa
  6. Capitolo I Il fascismo e l’isolamento dei pacifisti integrali
  7. Capitolo II Il dopoguerra e gli anni Cinquanta
  8. Capitolo III Il movimento mette radici
  9. Capitolo IV Nuovi gruppi e comitati
  10. Postfazione di Ernesto Balducci