Good Morning Diossina
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Good Morning Diossina

Informazioni su questo libro

Good Morning Diossina racconta la vicenda di Taranto, una città dove si muore d'inquinamento, una città che per l'intreccio fra interessi economici, malapolitica e corruzione è diventata un "caso" italiano e europeo. Dal Polo siderurgico alle battaglie ambientaliste in difesa della vita, dal silenzio dell'informazione alle connivenze della politica, dalla vicenda giudiziaria esplosa nell'inchiesta "Ambiente Svenduto" alle proposte per la conversione ecologica per superare un modello produttivo dannoso, Angelo Bonelli in questo libro non solo ricostruisce la cronaca dolorosa di persone e luoghi devastati dai veleni ma prova a tracciare un
percorso per affermare un'economia "della vita" così come è stato fatto in altre città d'Europa e del mondo, da Bilbao a Pittsburgh.

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CAPITOLO 1
LA STORIA DI TARANTO

1.1 Le origini

Taranto (dal greco Tarentum) è una città della Puglia che si affaccia sul mar ionico. Fu fondata da coloni spartani probabilmente verso la metà dell’ottavo secolo A.C. La colonia si affermò dopo lunghe lotte con i locali: nel 473 A.C. i tarentini furono sconfitti dagli iapigi. Nel quarto secolo Taranto partecipò alla Lega italiota che si era formata per fermare l’avanzata delle popolazioni indigene (messapi/lucani/bruzi): ma le difese erano deboli e Taranto chiese l’aiuto di Archidamo di Sparta, di Alessandro di Epiro, di Cleonimo principe spartano. Frattanto era intervenuta Roma a sostegno dei lucani e si venne ad una pace le cui clausole, violate da Roma nel 281, provocarono la guerra tarantina con l’intervento, a sostegno di Taranto, di Pirro re d’Epiro. La guerra terminò nel 272 A.C. con l’ingresso della città ionica nell’alleanza romana. Taranto fu alleata di Roma durante la prima guerra punica, ma nella seconda collaborò con Annibale: per questa ragione fu conquistata tre anni dopo da Fabio Massimo che la sottopose a saccheggi, stragi e vendita in schiavitù dei suoi cittadini. Nel 125 fu realizzata una colonia romana (colonia Neptunia) e nel 90 fu eretta a municipio. Nel corso del IX secolo, la città fu dominata in modo alterno dai bizantini ai saraceni, finché l’imperatore Niceforo II Foca la conquistò nel 967. Nel 1063 fu centro di un potente feudo. Con gli Angioini, Taranto fu sotto il controllo (1301) di Filippo, quartogenito di Carlo II d’Angiò. Nel 1463 il principato di Taranto tornò a far parte del regno della Corona. A causa delle costanti minacce portate dai Turchi e dai Veneziani, gli Aragonesi decisero di fortificare la città, costruendo il Castello Aragonese ed il suo fossato. Nel 1495, Carlo VIII di Francia costringe alla fuga le truppe aragonesi, entrando, senza difficoltà, in città e impadronendosi del castello. Ma nel mese di ottobre dello stesso anno, Cesare d’Aragona mise sotto assedio Taranto per circa un anno e mezzo, costringendo questa volta i francesi alla resa. Occupata dai francesi nell’aprile del 1801 e, ancora, dopo Austerlitz, nel decennio 1806-15 Taranto divenne la loro più sicura base navale contro gli inglesi di stanza a Capri e in Sicilia e contro i russi che si erano stabiliti a Cattaro. Durante la Prima guerra mondiale a Taranto furono collocate le basi delle flotte italiana, francese e inglese del Mediterraneo.

1.2 La storia moderna e l’Ilva

Taranto è oggi popolata da 200.000 abitanti ed è la sesta città, per popolazione, di tutto il sud Italia. Per la sua posizione geografica, a cavallo tra il mar Grande e il mar Piccolo, è conosciuta anche come la città dei due mari.
Agli inizi degli anni ‘60 venne deciso di realizzare proprio a Taranto un polo siderurgico. La scelta di collocare l’acciaieria nella città ionica fu dettata da ragioni logistiche e dalla forte crisi economica che in quel periodo il territorio tarantino stava subendo: le produzioni navalmeccaniche, Arsenale e Cantieri Tosi, si trovavano in crisi per la perdita delle commesse militari dopo la fine della seconda guerra mondiale. La gestione dello stabilimento fu affidata ad una nuova società: l’Italsider, costituita dalla fusione di due grandi aziende di proprietà della Finsider, Ilva e Cornigliano, che, a loro volta, gestivano gli altri tre centri a ciclo integrale.
Il 9 luglio 1960 fu posta la prima pietra del siderurgico alla presenza di autorità civili, militari e religiose. I ministri Fernando Tambroni, Antonio Segni, Emilio Colombo, Mario Ferrari Aggradi rappresentavano il governo. Per far posto all’acciaieria, che oggi si estende su circa 15 chilometri quadrati, furono abbattuti oltre 40.000 ulivi secolari. Nel 1961 entrò in funzione il tubificio.
I primi prodotti dell’Italsider di Taranto vengono inviati in Unione Sovietica, in cambio di petrolio. Agli inizi del 1965 entrano in funzione gli altri impianti. La capacità produttiva dell’acciaieria, in quel periodo, è di circa due milioni di tonnellate l’anno di acciaio grezzo. L’Italsider di Taranto diventa in pochissimo tempo lo stabilimento a più alta capacità produttiva d’Italia. Sempre a Taranto, nel 1967, entrò in funzione la raffineria Eni, che collocata in aree adiacenti all’acciaieria si sviluppava su una superficie di 270 ettari.
All’inizio degli anni ‘70 la capacità produttiva dello stabilimento siderurgico arriva a 4,5 milioni di tonnellate annue. Proprio in quel periodo l’IRI decide il potenziamento della capacità produttiva per farla arrivare fino a 10,5 milioni di tonnellate/anno. Si avvia, quindi, una fase di importante espansione dello stabilimento con profondi stravolgimenti urbanistici nella città e nel porto. I lavori terminano nel 1974. I tanti operai impiegati nei lavori d’ampliamento dello stabilimento siderurgico, a metà degli anni ‘70, vengono successivamente assunti nell’acciaieria Italsider. Gli occupati nell’Italsider di Taranto, a metà degli anni ‘70, raggiungono la quota di 25 mila addetti mentre, nell’indotto, gli occupati sono circa 14.500.
Nella metà degli anni ‘80 una fortissima crisi siderurgica investe l’Europa e il piano Davignon, dispone tagli alla capacità produttiva in tutti i paesi membri della Comunità europea: tagli che causano una riduzione del 30% dei livelli occupazionali. A Taranto si affrontano i primi esuberi occupazionali utilizzando la cassa integrazione e i prepensionamenti. Nel 1987 è liquidata FINSIDER con tutte le sue società e si costituisce una nuova società che riprende il vecchio nome di Ilva. Agli inizi degli anni ‘90 una nuova forte flessione del mercato dell’acciaio riporta in crisi il gruppo e, questa volta, la Comunità Europea richiede la completa privatizzazione del gruppo: nel 1994 si avvia la procedura di vendita.
Nel 1995 la famiglia Riva acquista l’ILVA per circa 1.460 miliardi di lire (circa 750 milioni di euro); ma subito dopo l’acquisto i neoproprietari aprirono un contenzioso pagando la prima rata. Negli anni successivi la famiglia Riva avvia una ristrutturazione interna che porta ad una riduzione degli occupati che arriva a “quota” 12 mila e ad un forte turnover della manodopera che porta in fabbrica molti giovani con contratti di formazione lavoro a due anni. Nel primo anno di attività del gruppo Riva gli utili raggiungono la cifra di 600 miliardi di lire.
In seguito alle inchieste della magistratura sull’alto inquinamento a Genova, nel 2002, per il loro impatto sulla salute, in particolare a Cornigliano, nelle cui vicinanze insiste lo stabilimento siderurgico, vengono chiuse le cokerie Ilva. Uno studio epidemiologico aveva evidenziato una relazione tra polveri respirabili (diametro inferiore o uguale a 10 micron o PM10) emesse dagli impianti siderurgici ed effetti sulla salute. Nel luglio 2005 viene spento anche l’altoforno numero 2 dello stabilimento di Cornigliano. Le produzioni dell’area a caldo di quello stabilimento Ilva vengono trasferite a Taranto.
Taranto diventa, così, il solo produttore di acciaio del gruppo e il fornitore di coils per l’attività di laminazione di Genova e Novi Ligure. Nel 2006 la capacità produttiva dello stabilimento Ilva di Taranto raggiunge il record storico di 14 milioni di tonnellate per anno. Nel 2007 il gruppo realizza un utile di 900 milioni di euro. Le prime inchieste della magistratura tarantina e i processi hanno evidenziato che la forte capacità del gruppo di realizzare utili avveniva a scapito della sicurezza, della salute dei lavoratori e della tutela ambientale. Nel 2005 viene emessa la prima condanna per inquinamento nei confronti dei dirigenti Ilva e di Emilio Riva, con sentenza passata in giudicato. Diversi sono i processi per morti avvenute sui luoghi di lavoro. Nel 2009 per ordine della Regione Puglia vengono abbattuti quasi 2.000 capi di bestiame perché contaminati dalla diossina ma, solo un anno dopo è emessa un’ordinanza, sempre dalla regione, di divieto di pascolo in un raggio di 20 chilometri dallo stabilimento siderurgico.
Nel 2014 arriva la condanna per omicidio colposo nei confronti di 27 imputati, molti dei quali dirigenti Ilva tra cui anche Fabio Riva, per le morti tra gli operai causate dall’esposizione ad amianto. Nel luglio del 2012 l’inchiesta “Ambiente Svenduto” porta al sequestro degli impianti: le perizie epidemiologiche ordinate dalla Procura - consegnate nel marzo 2012 - rivelano una situazione sanitaria drammatica. Nel provvedimento che conduce a numerosi arresti, tra cui quello del proprietario dell’Ilva Emilio Riva, di suo figlio ed ex AD Fabio Riva (in attesa di estradizione), della quasi totalità del gruppo dirigente Ilva compreso il responsabile relazioni esterne, Girolamo Archinà, e di politici, i magistrati, nelle conclusioni, scrivono che la proprietà ha sfruttato al massimo gli impianti per realizzare il massimo profitto non curandosi dell’impatto ambientale e sanitario che avrebbero provocato.

1.3 Le prime inchieste e i primi processi ad Ilva

Nel 1980 la magistratura avvia le prime azioni legali nei confronti di alcuni stabilimenti industriali siti a Taranto, tra i quali Cementir, Ip e Italsider. Nel 1982 la pretura di Taranto mette sotto indagine il vertice dell’Italsider per getto di polveri e inquinamento da gas, fumi e vapori. Il direttore dello stabilimento fu condannato ad un arresto di 15 giorni solo per getto di polveri.
Successivamente sono stati diversi i processi a carico dell’Ilva ovvero della proprietà Riva e dei suoi dirigenti.
A pagina 111 dell’ordinanza del Tribunale del Riesame del 7 agosto 2012 sono elencate le pendenze giudiziarie di Emilio Riva ex proprietario dell’Ilva, defunto nel 2014, e le condanne.
“RIVA Emilio, sei pendenze giudiziarie presso questo Tribunale (per omicidio colposo, estorsione, turbata libertà d’industria o del commercio, getto pericoloso di cose, deturpamento e imbrattamento di cose altrui, omicidio colposo), nonché la citata condanna del 10.6.2004, irrevocabile il 24.10.2005, e quella inflitta con sentenza in data 12.4.2005 dalla Corte d’Appello di Lecce - Sezione Distaccata di Taranto irrevocabile l’8.3.2006”.
Il Tribunale del Riesame parla a pagina 110 dell’ordinanza di “spiccata pervicacia, spregiudicatezza e capacità a delinquere di cui i RIVA ed il CAPOGROSSO, quali organi di vertice della società che gestisce lo stabilimento, hanno dato prova, persistendo nelle condotte delittuose di cui ai capi b), c) e d) nonostante la consapevolezza della gravissima offensività, per la comunità cittadina ed i lavoratori, delle condotte stesse e delle loro conseguenze penali”.
Capogrosso è stato direttore dello stabilimento ILVA di Taranto. Il Tribunale del Riesame parla di “ben sette condanne definitive”, fra cui violazione delle direttive CEE sull’inquinamento dell’aria, omicidio colposo, violenza tentata privata continuata in concorso.
Il tribunale di Taranto già nell’anno 2004, con sentenza passata in giudicato, scriveva: “Nei confronti degli imputati Emilio Riva e Capogrosso, poi, vanno altresì disposte, poiché anch’esse obbligatorie ope legis, le pene accessorie dell’interdizione dall’industria da loro esercitata nonché della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, come previste, rispettivamente, dagli articoli 30 e 32-ter, codice penale”.
Una prima condanna importante, con sentenza definitiva nei confronti della proprietà Ilva e del gruppo dirigente, arriva nell’anno 2005 con la sentenza N. 38936 per inquinamento atmosferico, gettito pericoloso di cose, emissioni di polveri. Va ricordato che dal 2000 fino al 2005 la regione Puglia era guidata dall’esponente di Forza Italia Raffaele Fitto ed in quel periodo che si concentra il massimo dello sfruttamento dell’impianto siderurgico. Questa sentenza è particolarmente importante perché apriva la strada alla richiesta del risarcimento del danno da parte alle istituzioni locali, comune e provincia di Taranto, regione Puglia a favore della popolazione tarantina. Ma proprio rispetto a questa sentenza c’è un fatto vergognoso che dimostra quanto fosse forte il legame tra chi aveva le leve del comando della politica tarantina, pugliese e nazionale e la proprietà Ilva.
La regione Puglia, allora guidata da Raffaele Fitto (FI), la provincia di Taranto guidata dal presidente Giovanni Florido (Pd) e il Comune di Taranto non presentarono la costituzione di parte civile delle rispettive istituzioni per la definizione del danno in seguito alla sentenza della Cassazione N. 39936 del settembre del 2005. Al posto della costituzione di parte civile fu sottoscritto un protocollo d’intesa tra le tre istituzioni locali e la proprietà dell’Ilva che impegnava l’acciaieria a realizzare investimenti per ridurre l’inquinamento.
A tal proposito è interessante leggere cosa scrivevano i magistrati di Taranto nel 2012 nel provvedimento di sequestro degli impianti: «Non può non segnalarsi - si legge nella richiesta di sequestro - quella che senza timore di essere smentiti può essere definita la più grossolana presa in giro compiuta dai vertici Ilva attraverso i primi atti d’intesa sottoscritti dall’attuale gruppo dirigente (la famiglia Riva). Si tratta, tra i più recenti, di ben quattro atti di intesa sottoscritti da Ilva volti a migliorare le prestazioni ambientali del siderurgico. Il primo in data 8 gennaio 2003, il secondo in data 27 febbraio 2004, il terzo in data 15 dicembre 2004 e il quarto in data 23 ottobre 2006». Queste parole si riferiscono alla rinuncia formale della regione Puglia, attraverso Raffaele Fitto, della Provincia di Taranto, attraverso Giovanni Florido, a presentare la costituzione di parte civile. Il comune di Taranto, che avrebbe potuto esercitare questo diritto, fece scadere i termini di legge per la presentazione della costituzione di parte civile a proposito della sentenza della Corte di Cassazione del 2005.

1.4 Le morti di amianto e le condanne per omicidio colposo

Gli operai dell’Ilva morti per mesotelioma pleurico a causa dell’amianto presente nella fabbrica, potevano essere salvati se solo l’azienda, a conoscenza della problematica, avesse agito tempestivamente. È quanto scrive il giudice Simone Orazio nelle motivazioni della sentenza con la quale, il 23 maggio 2014 ha condannato 27 ex dirigenti della fabbrica (tra i quali Fabio Riva ex vice presidente del gruppo, condannato a 6 anni di carcere) accusati di omicidio colposo e disastro ambientale. Nelle 268 pagine, infatti, il magistrato scrive che se i vertici dello stabilimento avessero sottoposto a visite mediche adeguate i lavoratori, queste avrebbero consentito di «diagnosticare una patologia che poteva essere un campanello d’allarme per il mesotelioma e che certamente avrebbe obbligato il datore di lavoro a non esporre più il lavoratore, affetto da tale problematica di salute, alle fibre di asbesto» e quindi a «valutare la incompatibilità del lavoratore rispetto alle mansioni sino ad allora espletate e quindi anche rispetto all’esposizione ad amianto, motivo per cui in questi casi l’accertamento sanitario avrebbe permesso di adibire il dipendente ad altre mansioni, sottraendolo al pericolo di morte». Ventisette dei ventotto imputati (nel frattempo Emilio Riva era deceduto) vengono condannati anche a risarcire 2 milioni ed ottocento mila euro all’Inail. Sei anni di reclusione per Fabio Riva e Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento siderurgico; 8 anni e sei mesi a Pietro Nardi, di cui si paventava un probabile ingresso nella gestione commissariale, 8 anni e sei mesi all’ex dg di Finmeccanica, Giorgio Zappa; 8 anni a Francesco Chindemi (fino a pochi mesi fa a capo della Lucchini). Per gli altri ex dirigenti Italsider pene comprese tra i 9 anni e sei mesi ed i 4 anni. Ventotto persone per le quali l’accusa era quella di aver omesso «nell’esercizio ovvero nella direzione dell’impresa, nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze, di adottare cautele che secondo l’esperienza e la tecnica sarebbero state necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro, in particolare impianti di aspirazione, nonché sistemi di abbattimento delle polveri-fibre contenenti amianto». E ancora di aver omesso «di far eseguire in luoghi separati le lavorazioni afferenti al rischio d’inalazione delle polveri-fibre d amianto». Quindi hanno cagionato «il disastro costituito dall’insorgenza di malattie tumorali nei lavoratori dello stabilimento e nello specifico la conseguente morte dei lavoratori tutti deceduti per aver contratto patologie eziologicamente correlabili con l’esposizione professionale all’amianto». Mesotelioma pleurico, mesotelioma peritonale, carcinoma polmonare: queste le patologie riscontrate nei 15 lavoratori cui si fa riferimento nel capo di imputazione.
La politica aziendale è sempre stata impostata al raggiungimento del massimo profitto, anche a costo di compromettere la salute degli operai. Lo scrive, senza mezzi termini, il magistrato spiegando che «gli interventi seri in materia di amianto nello stabilimento di Taranto sono stati sempre volutamente evitati» proprio perché avrebbero determinato un blocco e un riavvio dell’attività produttiva oltre che «uno stravolgimento degli impianti e l’investimento di notevolissime somme di denaro». Ma per salvare la salute dei dipendenti, i vertici dello stabilimento avrebbero potuto almeno fornire un’adeguata attrezzatura e, invece, le testimonianze in aula hanno chiarito che agli operai venivano fornite solo mascherine respiratorie “usa e getta” che gli esperti hanno definito “del tutto inadeguate”. Una «situazione di consapevole e lucida omissione» che per il giudice «si è perpetrata per decenni, essendo sotto gli occhi di tutti nel senso che l’inerzia è stata maturata e voluta sia da coloro che avevano ruoli operativi e che, pertanto, erano a conoscenza delle inaccettabili condizioni in cui costringevano a lavorare i dipendenti sia da parte di chi aveva responsabilità manageriali, gestionali e di controllo».

CAPITOLO 2
I PROTAGONISTI DI UNA BATTAGLIA POPOLARE IN DIFESA DELLA VITA

2.1 Da soli e senza l’aiuto delle istituzioni

Perché in tanti decenni d’inquinamento l’Ilva ha potuto contaminare terreni agricoli, falde, animali e aggredire la salute, senza che alcun provvedimento concreto fosse adottato dalle istituzioni per fermare questo disastro sanitario e ambientale? La risposta sta anche nella capacità quasi osmotica che l’Ilva, attraverso un suo personaggio chiave, è riuscita a costruire, nel corso degli anni, con la politica locale, regionale, nazionale, con l’informazione, con i sindacati e anche con la chiesa. Questo personaggio si chiama Girolamo Archinà, Responsabile delle relazioni esterne dell’Ilva Spa di Taranto. E’ Girolamo Archinà ad essere ripreso dalla Guardia di Finanza mentre consegna, in una piazzola di un distributore di benzina alle porte si Taranto, una busta al professor Liberti, il consulente incaricato di analizzare la diossina dalla Procura di Taranto. In quella busta, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stata una tangente da 10.000 euro.
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Foto di Luciano Manna
Girolamo Archinà è infaticabile e insostituibile. E’ in contatto con la politica che conta, scrive, usando pseudonimi, articoli sui giornali per attaccare gli ambientalisti tarantini. Costruisce all’Ilva un volto buono. Riesce a far realizzare e inaugurare una fontanella di acqua con Riva e il sindaco di Taranto nel cimitero del quartiere Tamburi. Il cimitero che, nel corso degli anni, si è colorato di rosa/rosso a causa del deposito dei minerali provenienti dal vicino parco a servizio delle cokerie. Attraverso Archinà passano non solo i contatti con le televisioni locali per la stipula di contratti pubblicitari ma anche la concessione di contributi per feste. Lo hanno chiamato il metodo Archinà, quel modo di fare che ha permesso di costruire una rete che da Taranto, passando per Bari, arrivava fino a Roma e che ha consentito di realizzare uno scudo di protezione per le attività dell’Ilva.
L’Ilva contribuiva alle campagne elettorali di molti esponenti politici nazionali e locali: di Silvio Berlusconi, Raffaele Fitto, Maurizio Gasparri, Pierluigi Bersani e Lodovico Vico, quel parlamentare che voleva “far sputare sangue” al senatore Roberto Della Seta perché si opponeva al decreto sul benzo(a)pirene che avrebbe sanato la situazione fuorilegge dell’Ilva. A Forza Italia l’Ilva versa un contributo di 575.000 euro, 98.000 euro a Bersani, 35.000 euro a Fitto, 49.000 euro a Vico e 10.000 euro a Gasparri.
A questo metodo che stava portando la città di Taranto nel baratro, si è opposto un gruppo di cittadini, ambientalisti, ex operai Ilva, allevatori e donne. Le loro mobilitazioni, i loro esposti e le informazioni sono state utilissime anche per l’inchiesta della magistratura che ha p...

Indice dei contenuti

  1. GOOD MORNING DIOSSINA
  2. Prefazione
  3. Introduzione
  4. CAPITOLO 1 LA STORIA DI TARANTO
  5. CAPITOLO 2 I PROTAGONISTI DI UNA BATTAGLIA POPOLARE IN DIFESA DELLA VITA
  6. CAPITOLO 3 TARANTO, UNA TRAGEDIA ANNUNCIATA
  7. CAPITOLO 4 I NEGAZIONISTI
  8. CAPITOLO 5 LA VICENDA GIUDIZIARIA
  9. CAPITOLO 6 LE LACRIME TARANTINE
  10. CAPITOLO 7 NON SOLO TARANTO
  11. CAPITOLO 8 DALLA DIOSSINA ALL’CONOMIA DELLA VITA
  12. CAPITOLO 9 DOVE AMBIENTE E SALUTE HANNO VINTO
  13. CAPITOLO 10 A TARANTO UN’ECONOMIA LIBERA DAI VELENI
  14. CAPITOLO 11 STRUMENTI E RISORSE
  15. CAPITOLO 12 CONCLUSIONI