CAPITOLO XXXVIII
Il secondo viaggio a Vernazza o dei riflessi
Dopo la drammatica serata della rapina, per alcuni giorni Moise e Avraham non si videro. Moise non ebbe modo di commentare l’accaduto con Ulupi. Era irreperibile. Si rese conto che non si erano mai sentiti per telefono. Neanche aveva il suo numero. Si erano sempre incontrati come per caso nell’appartamento di Avraham. Lei doveva avere una grande fiducia nel rapporto. Doveva essere una donna davvero serena, senza nessun bisogno di controllarlo, né di conferme.
In attesa della festa di Dino Ermete a Vernazza, di lì a breve, Moise lavorava al testo della biografia. Un paio di volte volle chiedere qualcosa ad Avraham e provò a telefonargli. Non lo trovò. Non insisté. Conosceva bene l’avversione del rigattiere per il telefono e aveva imparato a non ostinarsi quando l’altro sembrava non volersi fare trovare.
In effetti Avraham era davvero irreperibile. Neanche udiva il telefono. Trascorreva ore nel suo capolavoro al piano di sotto, nel suo caleidoscopio.
Lì rifletteva. La storia di Archeo era diventata una polifonia di dèi e umani che vorticava. Con alcuni accorgimenti, riusciva a udirla nell’antro. Gli dèi della fonte gli sussurravano immagini, sì, immagini bisbiglianti. Erano sussurri. Più udibile era la figura di Hades, il dio a lui più caro. Sapeva che lui, Avraham, ne incarnava alcuni tratti agli occhi di Moise. Comparivano, a tratti, amici, Ulupi e Kshatriya. In mezzo vorticava l’uomo che lui stesso si sentiva. In quella polifonia il suo cuore si levava al cielo come un inno di speranza per il successo nella ricerca della divinità maschile.
Avraham, insomma, era totalmente immerso nella sua fantasticante follia. Un misterioso disegno sembrava avergli affidato un ruolo fondamentale nell’accompagnare Moise – Archeo – al successo dell’impresa.
Quando non era nell’antro, il rigattiere si era messo a fare un lavoro che le sessioni con Moise e la frequente presenza di Ulupi e Kshatriya gli avevano fatto rinviare: finire di staccare gli specchi da pareti e soffitto del suo appartamento e riporli nelle stanze sotterranee.
Non ne poteva più di vedersi a testa in giù anche al piano di sopra!
Il trasloco non era facile. Richiese molta pazienza e attenzione e parecchie ore. Fu un lavoro solitario. Se avesse avuto qualcuno intorno, un qualsiasi gesto maldestro avrebbe potuto trasformare una lastra di cristallo in una ghigliottina. Lui non voleva sangue nel proprio spazio, nel suo regno.
L’operazione era complicata. I cristalli pesavano e la scala era stretta. Doveva sistemarli in modo acconcio, non alla rinfusa. Si impegnava nell’aggiungere ragionevoli-sragionevoli tasselli al capolavoro. A tratti sembrava proprio mancare spazio per i nuovi specchi. Visto che c’era, rimosse anche il sistema di binari, corde, carrucole e pannelli di copertura che affollavano il soggiorno. Stuccò i buchi, passò un rullo da imbianchino per restituire un po’ di freschezza ai vani. Svanì l’odore di stantio, di muffa quasi.
La sala non fu più un arlecchinesco poliedro. Le regole ortogonali furono ristabilite. Con le pareti bianche si sentì tornato all’essenziale, al piano di sopra almeno. Lo spazio si era invece ancora più intricato al piano di sotto. Ora ci si muoveva a malapena. I molti cristalli colorati aggiunsero un tocco di allegria alla cupezza dell’antro.
Oramai sapeva a cosa gli era servita la sua scatola di vetro. In un primo stadio era stato il capolavoro che gli aveva fatto scoprire il valore della frammentazione per una migliore comprensione della realtà e la negazione dell’unità come imprescindibile componente del maschio. Era il pensiero paradossale la vera componente fondamentale dell’indole dell’uomo degno.
Nel secondo, gli aveva rivelato che i cristalli sul fondo del caleidoscopio erano in ogni individuo quantitativamente immutabili ma che un intervento soprannaturale poteva generare mutamenti qualitativi sostanziali negli individui e – quindi – nella Storia. L’evento era sottratto al volere di singoli popoli: dipendeva dal costellarsi di una divinità accompagnata dalla comparsa di una stella-guida cui dava potenza ed efficacia la parola. Nel caso di individui la divinità si manifestava con il pensiero paradossale e allora venivano rimesse in discussione, a volte persino rovesciate, leggi fino al quel momento ritenute indiscutibili.
In entrambi i casi si verificavano condizioni eccezionali, nel bene e nel male, dalle più edificanti alle più perverse.
In quegli stessi giorni, all’altro capo della città, Moise interrompeva di tanto in tanto il proprio lavoro soltanto per comprare in anonimi supermercati di quartiere le poche cose indispensabili alla propria sopravvivenza: pane, latte, formaggi, qualche fetta di carne, verdure. La gente del rione lo conosceva di vista. Dietro i suoi occhiali neri non la vedeva. Era chiuso in se stesso. Entrava, sceglieva, pagava, usciva, tonava a lavorare.
A volte si sedeva su una panchina di un giardinetto lì vicino. Aveva cominciato a comprare più spesso un quotidiano, ma faceva fatica a capire cosa succedesse nella nazione in cui stava vivendo. Non capiva la politica. Passavano i giorni e i titoli in prima pagina erano sempre uguali.
Doveva essere un Paese davvero rissoso l’Italia, pensava. In tante vite era vissuto in ambienti dove si agiva di più e si parlava di meno, eccezion fatta tra i Celti, gran parolai. Non capiva cosa celebrassero i poeti e gli scrittori italiani. I versi erano così banali da apparire ridicoli o così astrusi da risultare incomprensibili. La prosa, poi, sembrava stilata per analfabeti alle prime armi con il vocabolario.
Anche gli argomenti lo infastidivano. Avevano la prosopopea di volere essere universali. A lui parevano pedisseque e ripetute narrazioni di vicende di donne. Fatte salve rare eccezioni, tutto ruotava intorno a loro e alle loro tematiche. Chiacchiere e intrecci tra o con o per donne. Non sembravano uscire dalla fantasia degli scrittori figure di maschi. Non appariva mai un uomo che agisse per motivi propri. Tutte le loro vicende, riflessioni, questioni di vita e di morte sembravano concentrarsi sulla soluzione di problemi di madri, figlie, amanti, mogli, sorelle. Le rare volte che guardava la televisione, tanto per sciacquarsi il cervello dalle complicate riflessioni di Avraham, doveva andare su canali esteri se voleva vedere uomini che esploravano scienze, mari, continenti.
Sembrava che gli uomini italiani non avessero una vita da spendere per una propria finalità nel mondo. Erano sempre lì a spiegare alle donne cosa stessero facendo, a difendersi dai loro assalti legali o sessuali, a cercare di capire cosa volessero in quel momento, a comprendere perché stessero soffrendo.
Se la rideva poi per il modo in cui alcuni poeti, cantanti, scrittori, teste d’uovo si ostinassero a vedere come dantesche candide beatrici le più smaccate meretrici. A lui sembravano tutte impegnate a intortare un maschio: farsi sposare, farsi mettere incinte, vivere con i figli del fesso a spese sue per il resto della vita. Per quelle, la vulva e la sua messa all’asta – o sull’asta – era la fonte principale del proprio sostentamento.
Vedeva loro per prime vittime dei processi emotivi dei maschi. Le donne vivevano da infelici! Le più intelligenti per mancanza di tempi e spazi per dedicarsi al senso di pregnanza dello spirito; le più cortigiane per ossessiva dedizione allo strumento della loro sopravvivenza – al corpo. Passavano la vita a dare sostanza a quelle rotondità che prima o poi le avrebbero tradite per legge di gravitazione.
Un altro tema dominante, che spesso si intrecciava con quello femmineo di fondo, era quello delle razze non bianche e delle religioni non cristiane. La trama, in questi casi, era un inno alle culture non autoctone dello Stivale.
Lo stesso valeva per i film o telefilm che se ne traevano, e per i dibattiti che su di quei temi si farfugliavano, o per i cabaret che si inscenavano.
In mezzo a tutto quel piattume, un fatto nuovo c’era. Aveva comprato un piccolo specchio e a poco a poco stava riuscendo a superare l’avversione per la propria immagine riflessa. A mano a mano che riusciva a fissarla per più di qualche secondo, gli parve di cogliere tratti poco mediterranei. Se era stato ed era ancora un Archeo, appariva più di origine tra boema e magiara che ellena. La pelle era chiara, il viso era pieno di efelidi, i capelli chiari, quasi ramati. I suoi lineamenti erano regolari. Aveva un po’ l’aria da capitano di ventura, ma senza il naso aquilino che in genere troneggiava sulla loro faccia. Forse i suoi avi, come quelli di Archeo, davvero erano discesi da remote zone, dai monti del Caucaso, o da regioni slave, già esse una mistura di Siberiani, Mongoli e Scandinavi. Forse suo padre anziché Glauco, come era stato tradotto in greco, si chiamava Lugal-Zaggisi, nome sumero. Lui forse, prima che il suo nome fosse stato volto in Archeo, si chiamava Gudea. Chissà.
Moise nell’insieme si trovò un bell’uomo. Rimase sorpreso lui per primo dell’autoapprezzamento. Mai si era sentito tale. Aveva sempre invidiato l’avvenenza altrui, sminuente com’era della propria fisicità. Comprese perché gli altri lo trovassero gradevole d’aspetto. Ma ciò non leniva il fastidio che, dentro di sé, provava per se stesso. Il fastidio era già meno peggio del disprezzo. Continuava a sentire dentro di sé una torreggiante macchia scura sempre in procinto di attaccarlo e ingoiarlo.
Fantasticò che Avraham quella scura ombra non l’aveva dentro, minacciosa. L’aveva fuori e con lei intrecciava danza leggera, seppure a tratti amara. Lui invece con quella interna, massiccia, si contorceva in una pantomima macabra.
In un proprio affresco mentale vedeva Avraham intrecciare una specie di minuetto con gli scuri veli delle perfidie del mondo, in un buffo quanto armonioso sabba. Lui invece era ostaggio del grumo nero dentro di sé. Si divincolava patetico per sottrarsi ai suoi artigli. Ne era terrorizzato e, in fondo, seguitava a vivere un costante stato di spavento. Lo attenuavano a tratti soltanto i ragionamenti con Avraham e Kshatriya e quell’amore che viveva con Ulupi.
Gli mancava la famigliarità di Avraham con taluni testi di filosofia idealista e di antropologia, di Friedrich Schelling sugli dèi di Samotracia, di Walter Otto su Dioniso e gli dèi della Grecia, di Uberto Pestalozza sulla Potnia mediterranea, di Joseph Campbell sui miti messi a raffronto, di Heinrich Zimmer sulle saghe indù. Il rigattiere aveva avuto una vita per interiorizzare quegli autori. Lui in mille vite neanche li aveva sentiti nominare.
Era in sensazioni di questo genere il pomeriggio in cui procedeva verso la Stazione Centrale di Milano per prendere per la seconda volta in meno di un anno un treno per la Liguria.
Dino Ermete, due giorni prima, gli aveva ricordato dell’invito alla festa estiva al mare. Lo aveva rammentato anche ad Avraham che non aveva nascosto il proprio disappunto per avere accettato. Ma poi, si era detto, non poteva abbandonare Moise. Aveva un impegno con lui e si sentiva coinvolto nella sua peregrinazione. Con gli specchi aveva concluso il riordino. Non c’era fretta ad arrivare alla fine della lettura della storia di Archeo. Restavano da leggere e tradurre pochi ultimi capitoli No, non poteva esimersi dall’andare a Vernazza.
Senza avere preso accordi di sorta, i due uomini si trovarono sul marciapiede per il medesimo convoglio. Salirono insieme in treno e vi si accomodarono uno di fronte all’altro.
Quando il treno si mosse Moise si mise a leggere il giornale, Avraham a scartabellare tra i fogli dei propri appunti tirati fuori da una sgangherata cartella di cuoio. Era tutta incartapecorita, sembrava avesse cent’anni. Il biografo indossava una maglietta alla moda color pervinca, un colore che gli ricordava Ulupi e un paio di calzoni marrone molto chiaro. Si era portato dietro una tracolla con tutti gli oggetti necessari a un eventuale pernottamento.
Avraham aveva una camicia a maniche corte e un paio di pantaloni pieni di tasche. Ermete si era raccomandato sull’informalità dell’abbigliamento, anche se, aveva detto, le donne sarebbero state eleganti, aveva aggiunto con la sua risata frettolosa e allegra.
L’abbigliamento dei due era del tutto appropriato alla mancanza di aria condizionata sul convoglio. Era uno dei pochi interregionali che da Milano andavano senza cambi fino a La Spezia e si fermavano a Vernazza. Erano treni a passo di lumaca. I binari avevano cent’anni. Il viaggio, avrebbe richiesto tre ore buone, se non ci fossero stati i ritardi abituali. Ci sarebbero stati. Non avrebbero disturbato i due perché si sarebbero immersi in ben altri tragitti, tutti nelle ombre della psiche.
Da dove erano seduti potevano vedere tutti gli altri sedili, quasi tutti vuoti. C’erano un paio di donne con il capo coperto, Musulmane di sicuro, con i loro bambini ricciuti. Un paio di Cingalesi indussero Moise a chiedersi se Ulupi e Kshatriya sarebbero saliti su quello stesso treno. Rise tra sé e sé: quelli, con i loro poteri, sarebbero andati in volo.
A Pavia scesero tutti gli altri passeggeri. Bene fu che i due uomini fossero soli. Doveva cominciare il viaggio nelle oscurità delle loro follie, i loro bui più neri.
Si iniziò quando, dopo una serie di tunnel, senza alcuna apparente ragione, il treno si fermò in una galleria. Avraham sembrava sonnecchiare. No, non era un arresto imprevisto, capì Moise affacciandosi a un finestrino. Erano rimasti nel traforo perché il treno era lungo: la locomotiva e i primi vagoni erano in una piccola stazione sperduta tra gli Appennini. Era una normale fermata.
La carrozza era ancora vuota. Rimise la testa fuori e si sporse ancora di più. Il tanfo di chiuso gli arrivò in gola. La fine dell’oscurità era a un centinaio di passi. Vide una specie di stretta banchina a disposizione di chi fosse sceso e avesse dovuto percorrere il tunnel per raggiungere la stazione e l’uscita per il paese. Più avanti i cartelli blu del nome del luogo erano così di taglio che non poteva leggerli. Le luci nel vagone erano per metà fulm...