Piccoli gorghi
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Piccoli gorghi

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Piccoli gorghi

Informazioni su questo libro

"Piccoli gorghi" è il secondo libro pubblicato da Maria Messina nell'ormai lontano 1911 con i tipi dell'editore Sandron di Palermo, città dove la scrittrice nacque il 14 marzo del 1887. Le novelle di questa seconda opera furono scritte durante la sua permanenza a Mistretta, cittadina siciliana dove ella soggiornò dal 1903 al 1909, al seguito del padre che vi si trasferì con la famiglia a causa della sua nomina a direttore della locale scuola elementare. Nella stessa cittadina ella ambientò queste sue novelle. Molti sono, infatti, gli scorci urbani e campestri che inequivocabilmente si riferiscono al territorio di Mistretta, come, ad esempio, le contrade Salamone, Cicé, Cànnito e molti sono i quartieri urbani i cui nomi resistono intatti a distanza di oltre un secolo.

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Informazioni

Anno
2018
eBook ISBN
9788827860052

Mùnnino

La gna' Mara la chiamavan la farera,1 ma il suo telaio, coperto di polvere e ragnateli, taceva per molti mesi di seguito. Il marito, vecchio e bolso, veniva una sola volta all'anno per farsi aggiustar le camicie e il giubbone sdruciti e per curarsi le febbri che pigliava a Salamuni; ben che non le mandasse un soldo, la farera non si moriva di fame, e nel vicinato si diceva che se l'intendesse con Vanni il falegname, quello dai capelli rossi, che serviva i meglio signori del paese e ogni anno cominciava a picchiar sulle botti a luglio e finiva in ottobre, tanti erano i clienti che aveva.
Quello che se la passava male era Mùnnino, poveraccio, di cui la madre si sbarazzava il più che poteva; la mattina lo mandava a scuola con un pezzo di pane sotto il braccio, e nel pomeriggio gli faceva trovar la porta chiusa. Mùnnino che c'era abituato, infilava i quaderni nella gattaiola e s'avviava verso la via Amarelli dove c'era la pergola di padre Nibbio; s'accoccolava su uno scalino, coi gomiti sulle ginocchia e il mento fra le mani, e guardava i ragazzi a giocare. Lui, poiché non aveva mai trottola né pennini, non poteva unirsi ai giochi; i pennini glieli passava il maestro, e per dargliene uno nuovo voleva prima vedere il vecchio che doveva essere spuntato e ben grommato d'inchiostro; solo quando riaveva il pennino vecchio andava a giocarselo, tutto felice, ma lo perdeva subito e tornava ad accoccolarsi sullo scalino mentre i ragazzi lo schernivano. Verso l'imbrunire andava a spiare l'uscio, e quando lo trovava aperto vi si infilava lesto lesto come quei gatti che, scacciati di casa, vi rientrano subito che possono e s'accucciano timorosi di esser veduti e rimandati via.
Una notte, poteva avere nove o dieci anni al più, fu mandato a letto presto e senza cena. Non poteva trovar sonno; verso mezzanotte, sentì come se si aprisse l'uscio di strada; spaventato cacciò la testa sotto il tramareddo, ma udendo giù un passo pesante si mise a urlare chiamando la madre che dormiva nella stanzina sotto la sua soffitta. Poi, udendola bisbigliare, e rassicuratosi, saltò dal letto e stava per scendere la scaletta, quando se la vide davanti, in sottana, con la lucernetta in mano.
— Che vuoi? Che ti salta in mente?
— Ho sentito...
— Che hai sentito? Non hai sentito niente.
— Qualcuno, per la scaletta... Madonna santissima!
— Tu stai sognando. Va' a ricoricarti. Non ti far sentire a strillare dalla gente. Va'!...
Nella luce fioca della lucerna parve a Mùnnino di scorgere i capelli rossi del falegname, giù, e strillò:
— Hai visto? Madonna santissima!
— Senti, se tu dici un'altra mezza parola ti ammazzo. Com'è vero Iddio, ti ammazzo. Non ci sono i briganti, qui. Di che hai paura?
Ma sì come Mùnnino restava inchiodato sulla scaletta, in camicia, pieno di paura, di curiosità ostinata, la farera perdé la pazienza e cominciò a picchiarlo. Ne buscò tante da restar mezzo morto sul letto, tremante di freddo e di dolore. La farera diceva, con voce roca e bassa per non farsi sentire a quell'ora dalla gente:
— E zitto, capisci? Qui non c'è da aver paura. Non ci sono i briganti. Qualunque cosa tu senta, pensa che è cosa ben fatta ch'io faccio. E non andare spifferando alla gente i tuoi sogni. Ché se vengo a sapere che tu parli, che tu dici mezza parola, mezza, capisci?, t'ammazzo, ti cavo la lingua. E dormi, adesso.
Dormire poté soltanto verso l'alba, quando cominciarono a passare i caprai ed i contadini. Tutta la notte fu un singhiozzare continuo, sotto il tramareddo, un dormicchiare angosciato pieno di sogni paurosi, uno svegliarsi all'improvviso. Al mattino, con le gote livide, s'avviò alla scuola grondon grondoni con le mani in tasca e i quaderni sudici sotto il braccio. Ancora sull'uscio la madre gli aveva detto, facendo gli occhiacci:
— E zitto!
Zitto, sicuro, andava pensando. Le botte son botte. Pure il falegname l'aveva veduto: c'era da giurarci. I passi li aveva sentiti.
A scuola non seppe la lezione e il maestro, per castigo, gli levò il pane. Era proprio una giornata disgraziata. A mezzogiorno aveva tanta fame che avrebbe mangiato le pietre, e fattosi coraggio indugiò dietro i banchi fino a quando vide uscire tutti i suoi compagni. Come tutti furon fuori e nella stanza piena di polvere restava solo il maestro che si metteva il soprabito, Mùnnino si fece avanti.
— Ancora qui! Che fai?
— Signor maestro! Mi faccia la carità di perdonarmi.
— Non lo meriti.
— Signor maestro – supplicò Mùnnino con gli occhi velati di lacrime – ho troppa fame.
— Studia la lezione, un'altra volta. Va' via.
Il maestro era di cattivo umore, ma Mùnnino si fece un altro po' di coraggio.
— Le giuro che non lo farò più. Ma ho troppa fame. Lei non sa che significa aver fame! – aggiunse piangendo.
Il maestro che stava per uscire si voltò improvvisamente:
— Eccoti il pane – e prendendolo dal cassetto lo posò sulla cattedra. – Ma tu fammi un servizio. Sei capace tu di fare un servizio in segreto?
— So fare qualunque cosa.
— Giura di non dirlo a nessuno. Neanche a tua madre.
Mùnnino lo guardò mettendosi una mano sul petto.
— Beh, va a portare questo biglietto a... lo sai dove abita donna Lucia la ricamatrice? Sai quella casa rossa dove finisce la piazza e comincia la campagna? Benissimo. Proprio quella casa. Un portoncino verde. Hai proprio capito? Allora va. Ma scappa. Io ti aspetto qui con l'orologio in mano.
Mùnnino col biglietto ben nascosto nella tasca dei calzoni, corse come un furetto, ché a stomaco vuoto si corre meglio. E tornato trovò il maestro che l'affogò di domande: se era andato proprio dopo la casa rossa, e chi gli aveva aperto, e che gli avevan detto. E Mùnnino si buscò quattro soldi, e corse tutto felice, sbocconcellando il suo pane, a buttare i quaderni nella gattaiola; ma piuttosto che andare a guardare i ragazzi andò in piazza a spendersi il suo guadagno in pane e sarde salate, e salì su, verso il Calvario, a mangiar vicino la fontana. Lì c'era un cane, tutto spelato, che cominciò a guardarlo tristemente movendo un po' la coda; Mùnnino lo scacciò ma il cane non si mosse, gli tirò un sasso ma il cane tornò, e tornò a guardare un po' lui e un po' il pane che accennava a finire, con quegli occhi grandi e afflitti che parevano d'uomo. Mùnnino era sazio e soddisfatto.
— Hai fame? – brontolò.
— Toh! – e gli buttò un boccon di pane che il cane ingoiò nelle larghe fauci affamate, tornando a guardar Mùnnino, scotendo la coda.
— Brutta cosa aver fame – brontolò il ragazzo – ma per te ci vorrebbe una pagnotta! – E a poco a poco divise il resto del suo pranzo col cane; poi, contento, bevve alla cannella una buona bevuta di acqua fresca, e s'avviò verso casa, e trovato l'uscio ancora chiuso andò a guardare i ragazzi a giocare. Non seppe neanche l'indomani la lezione, ma il maestro non lo sgridò, né lo chiamò a legger le vocali alla lavagna. Nell'ora di ricreazione, mentre i ragazzi scendevano con polveroso baccano giù in cortile, gli fece segno d'aspettare, e come furon soli lo tirò dietro la porta e, messegli tra le mani due monete, gli disse d'andare a comprare due chili di maccheroni zita e un chilo di salsicce.
— Portali ben nascosti sotto lo scapolare, che non si vedano – gli raccomandò. Mùnnino tornò giusto un minuto prima che ricominciasse la scuola, rosso affannato, con quella roba che non voleva reggersi sotto il piccolo scapolare sdrucito, e che a un segno del maestro andò a nascondere nel camerino, sotto una sporta. Dopo scuola tornò a fare il viaggio verso la casa di donna Lucia e si buscò due soldi.
Da allora non si curò più di studiar le lezioni e guardò superbiosamente i compagni con una voglia matta di dire a qualcuno del gran segreto che conosceva; ma non fiatava, ché aveva imparato come a parlare non ci guadagnava niente, quando non buscava delle botte.
La notte, pieno di curiosità, stava a sentire il solito schiudersi dell'uscio, il solito passo pesante del falegname e il bisbigliare sommesso, e se udiva salire la madre, che veniva a veder se il figlio dormiva, si cacciava sotto il tramareddo chiudendo gli occhi. Faceva gran brutti pensieri contro il falegname, e quando lo vedeva di giorno – col grembialone davanti, tutto rosso, col largo viso soddisfatto, a picchiar sulle botti – stringeva i pugni mentre il piccolo cuore gli batteva più forte nel petto. E ogni giorno, avviandosi verso la fontana, col pane buscatosi dal maestro, pensava tante cose curiose, guardando il paziente cane spelacchiato che ritrovava sempre. Quando sarò grande – rimuginava – grande e robusto, allora accuserò il maestro al figlio. Il maestro ha paura di suo figl...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Prefazione
  3. Mùnnino
  4. La croce
  5. Sotto tutela
  6. Gli ospiti
  7. Ti-niesciu
  8. Oggi a me, domani a te
  9. La nicchia vuota
  10. L'ora che passa
  11. Dopo le serenate
  12. Il ricordo
  13. La Mèrica
  14. Le scarpette
  15. Nonna Lidda