Capitolo XIII
All’alba del Settecento. Il Concerto
È d’uopo un inquadramento storico-culturale: siamo in piena rivoluzione scientifica.
Anche in musica appare una novità clamorosa, l’armonia, intesa come scienza degli accordi. E prende forma il sistema temperato.
In questo capitolo ci occupiamo di musica per complessi strumentali, ed in particolare di una forma che è divenuta caratteristica del periodo tra XVII e XVIII secolo: il Concerto. Dopo alcuni cenni sui primi esperimenti, ci concentriamo sull’esperienza di Corelli, per chiudere con la musica di Vivaldi.
Nomi e forme appaiono vari (concerto grosso, sinfonia, concerto per vari strumenti, di gruppo, solista…), ma le caratteristiche di fondo spesso emergono simili, in particolare il concetto di alternanza, applicato alla divisione del complesso strumentale (tutti-concertino ad esempio), alla successione dei tempi (verso lo standard Allegro-Adagio-Allegro), alle tecniche di scrittura (contrappunto imitativo, omofonia, melodia accompagnata).
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Mentre si studia storia della musica non è infrequente scoprire sé stessi, man mano ci si avvicina al nostro tempo, in attesa di brani sempre più vicini al nostro gusto, un po’ più fruibili ed ascoltabili ancora oggi. E basterebbe un breve elenco degli autori di questo capitolo (Corelli, Vivaldi, Marcello, Couperin…) per scoprire che nei cartelloni dei concerti di oggi riempiono da soli più spazio che tutti i musicisti dei quindici capitoli precedenti messi insieme: indizio che, in effetti, la loro musica è, oggi, ancora godibile.
Vi accadrà non di rado, nei prossimi anni, di dover affrontare lo studio di qualche loro concerto o sonata, molto più che un madrigale di Marenzio, una messa di Josquin o un graduale gregoriano.
Si tratta, come già abbiamo avuto modo di notare, di un aspetto della visione teleologica della storia, e della storia della musica in particolare. Il linguaggio musicale, in quest’ottica, progredisce con gli anni ed i secoli, evolvendo, migliorando, e divenendo sempre più “efficace”. Non ci sarà difficile riconoscere alcuni nostri pensieri in quest’immagine della storia della musica, quand’anche cercassimo con tutta la buona volontà di esserne almeno in parte esenti. Nulla di male, basta esserne coscienti.
Più utile (piuttosto che protestare che, in fondo, noi non siamo teleologi) è cercare di comprendere il motivo per cui la musica di Vivaldi ci suona più familiare che un mottetto di Clemens non Papa o di un tropo del IX secolo. Si tratta di prodotti “storici”, nel senso che di ognuno di loro si possono rintracciare motivi e tecniche e contestualizzarle nel periodo in cui sono apparsi i singoli brani. In tal modo risulta facile immaginare almeno tre motivi per cui una Toccata e fuga di Buxtehude non poteva vedere la luce nel secolo IX:
- non esistevano organi in grado di stimolare la fantasia dell’autore (ricordate le manopole dell’organo di Westminster? Rapidi passaggi alla tastiera erano semplicemente inimmaginabili!);
- non esisteva la scrittura musicale, indispensabile al controllo del complicato contrappunto di una fuga;
- il sistema modale non poteva sviluppare successioni di accordi organizzati secondo la nostra amata gerarchia tonale…
Operando in questo modo si trasforma il prodotto musicale, il brano, in qualcosa di molto simile ad un qualsiasi prodotto industriale od artigianale. Costruire una Ferrari 458 Italia nel XIV secolo era difficile: progettare il suo differenziale elettronico era quantomeno disagevole… Poi la tecnica e la tecnologia sono evolute, han fatto progressi, e nel giro di settecento anni a Maranello han potuto costruire quel gioiello. Questa è una visione teleologica, per cui dal carretto trainato da un ronzino si arriva ad un V8 da 570 cavalli.
È difficile, ammettiamolo, resistere alla tentazione di osservare la storia in questo modo: ad ogni pagina ci sembra di poter intravvedere i semi che, germinando, daranno vita a qualcosa che accadrà anni o secoli dopo È uno dei vantaggi di vivere nel XXI secolo (ma dovrebbe destarvi almeno qualche sospetto la profonda influenza dei concetti di potenza ed atto di Aristotele… studiando filosofia, a volte, si scopre il nostro stesso pensiero).
Nello stesso tempo, il fatto che un concerto di Vivaldi sia ancora oggi godibile, più o meno (ma se TV e cinema e spot pubblicitari ne fanno spesso uso significa che è musica dotata di una godibilità ampiamente condivisa), dovrebbe farci nascere un’ipotesi ancor più profondo ed inquietante rispetto alla visione teleologica: quel brano “non ha tempo”. Il suo valore, il suo “messaggio”, il suo linguaggio soprattutto, sembrano validi per sempre (o per un lungo periodo): i Concerti di Vivaldi compiono tre secoli, ovvero trecento anni! Eppure ancora nel XXI secolo “ci dicono qualcosa”.
Questa è una visione romantica, quella per cui un’opera d’arte parla direttamente all’Uomo, al suo profondo sentire.
È una questione che abbiamo già più volte affrontato. E cui non abbiamo mai dato una risposta.
È una questione che ora, avvicinandoci alla musica strumentale del Settecento, si farà ben più urgente, toccandoci direttamente proprio perché capiterà spesso di affrontare questa musica, come ascoltatori e come musicisti. È quindi arrivato il momento di dare una risposta univoca, e di prendere posizione al riguardo di questa eterna querelle des Anciens et des Modernes.
… purtroppo, urge la nostra storia della musica, e dobbiamo procedere.
La rivoluzione scientifica
Nel 1543 Niccolò Copernico pubblica il De Revolutionibus. Scoprirete che da lì fino almeno al 1687 (anno in cui Newton pubblica i Philosophiae naturalis principia matematica) si mette in moto un movimento culturale che passa alla storia con l’altisonante appellativo di rivoluzione scientifica. Dentro questo movimento si inseriscono nomi che da soli ne giustificano ampiamente la definizione: Keplero, Galileo, Bacone, Cartesio, Ticho Brahe, oltre a Copernico e Newton ovviamente. È programma del prossimo anno di filosofia, quindi dovremo accontentarci di fare rapidi riferimenti a quella rivoluzione. Ma d’altro canto lo spirito che informa le nuove idee non potrà non riversarsi anche sulla musica.
Come abbiamo imparato, per lungo tempo la teoria musicale aveva guardato a Boezio, e attraverso Boezio agli antichi Greci, come ad auctoritates che non andavano discusse, ma apprese e considerate semplicemente come “vere”. Si poteva riflettere sulla musica solo partendo dai punti fissi stabiliti dagli antichi, e soprattutto si faceva sempre riferimento ad una scala ottenuta con i calcoli di Pitagora.
Quando Zarlino propone la sua scala naturale, lo fa a partire da un’intuizione che è, per l’epoca, moderna: la sperimentazione dell’orecchio. Ascoltando l’effetto di due suoni sovrapposti, egli decide per i rapporti semplici (ad esempio 5/4 per la terza maggiore invece che 81/64), perché suonano meglio. Nel nostro piccolo mondo musicale è l’applicazione del metodo scientifico: “sensate esperienze” e “necessarie dimostrazioni”. Non astrusi calcoli per creare una magica Armonia delle sfere, ma esperimenti mirati ad uno scopo preciso: nel nostro caso, la possibilità di avere terze e seste consonanti, ovvero percepite come tali dall’orecchio, dal nostro senso dell’udito. Solo tra parentesi ricordiamo che anche Machaut, a suo tempo, aveva preferito ascoltare alcune composizioni prima di inviarle a Peronnelle: anche lui sperimenta, non accontentandosi di un matematico ordine del brano ricostruibile in astratto dalla scrittura. E fin Aristosseno affidava all’orecchio un ruolo fondamentale nel giudizio musicale.
Il fermento scientifico, l’idea di una scienza che non deve cercare essenze nascoste chissà dove, bensì osservare il mondo e intuirne il funzionamento, investe anche il fatto sonoro, il suono, la sua percezione. E, per forza di cose, anche la musica.
Prima di emozionarci e commuoverci per questo grande passo dell’umanità musicale, è bene notare che, in fondo, le cose non cambiano così radicalmente per il musicista. Chi fa musica, fin dalla notte dei tempi, è per molti aspetti assimilabile ad un tecnico: lavora con i suoni, li ordina, li usa, li sa “comporre”, li sa accostare nel modo più efficace. Lo scienziato è invece chi analizza il suono, chi cerca di comprenderne il funzionamento in natura; che poi lo faccia attingendo al mito di Apollo, o a enormi sfere in armonia tra loro, o alle orbite dei pianeti, o al numerus, o a esperimenti in laboratorio, il suo operato sarà sempre scienza, una teoria che intende spiegare i fenomeni, e per il musicista non cambierà granché. Quantomeno nell’immediato.
Un sintomo di questa distanza tra scienza acustica e musica composta ed eseguita lo possiamo intravvedere nel sistema tonale. Abbiamo incontrato musicisti che, pur nulla sapendo del nostro sistema tonale, ne hanno anticipato non poche norme: Monteverdi, Palestrina, Frescobaldi accostano accordi in sequenze guidate da rapporti di tipo armonico. E quando ce ne siamo accorti eravamo tentati proprio di definirli con nomi presi di peso dalla nostra teoria dell’armonia.
Il musicista fa, crea musica cercando le migliori combinazioni tra i suoni, sperimentando soluzioni e comportamenti che solo in un secondo momento il teorico stabilisce in un sistema di regole. È quel che fa Fux con il contrappunto di Palestrina. È quel che fece il Musica enchiriadis con i primi prodotti della polifonia. E se per secoli il teorico della musica, il musicus boeziano, ha allegramente snobbato i prodotti dei musicisti, preferendo a quella misera musica instrumentalis l’arcana musica mundana nascosta dietro la volta celeste e descritta dal mistico numerus, non faceva che emulare ogni altro scienziato, tanto occupato nella ricerca di necessarie essenze da dimenticarsi di sperimentare le proprie intuizioni e ipotesi.
Non fa certo scandalo una simile osservazione. Galileo andava spesso negli arsenali e nei cantieri di Venezia: lì osservava i tecnici all’opera, parlava con loro, e lui stesso riporta che questo “mi ha più volte aiutato nella investigazione della ragione di effetti non solo meravigliosi, ma reconditi ancora e quasi inopinabili”. Non furono certo i tecnici dell’arsenale a creare il principio di inerzia: in qualche modo lo affrontavano, cercavano di sfruttarne gli effetti, ma la legge, il perché la natura si comporti in quel modo, fu Galileo a comprenderla e teorizzarla.
La tecnica non è scienza, e non è sapere. La tecnica fa. La scienza, osservando quel che la tecnica fa, comprende il funzionamento della natura, e teorizza le regole che lo descrivono.
Lo stesso accade in musica. I musicisti si accorgono che suonando assieme do-mi-sol si ottiene un effetto gradevole, una combinazione stabile. Lo scienziato cercherà di spiegarci il motivo per cui percepiamo come stabile quell’accordo. E se scopre che gli armonici di un suono sono molto vicini ai suoni della triade, sarà tentato di definire “naturale” la teoria armonica tonale.
Con questo non intendiamo certo sminuire la rivoluzione scientifica. Ma dobbiamo ricordare che la musica la fanno i musicisti, guidati da conoscenze spesso più tecniche che scientifiche.
Se poi ci mettiamo l’ispirazione...