Inside the Trap. Incursione sociologica nel mondo "trap"
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Inside the Trap. Incursione sociologica nel mondo "trap"

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Inside the Trap. Incursione sociologica nel mondo "trap"

Informazioni su questo libro

La musica "trap" è connotata da elementi estetici e culturali precisi che, ultimamente, hanno anche alimentato ondate di panico morale. Nata come sottocultura "alternativa", la trap ha ormai raggiunto un livello di fusione con la cultura di massa per certi versi sorprendente. Sono molti gli aspetti sociologicamente interessanti di questo fenomeno e questo saggio rappresenta un primo tentativo di inquadramento.
Chi segue la trap condivide ed esperimenta realmente i valori che in essa vengono rappresentati? O è tutta una finzione "post-post-moderna"? Una sorta di gioco privo di reale potenziale di rischio?

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Informazioni

Anno
2019
eBook ISBN
9788831605304
Categoria
Sociologie

1. Introduzione. Di cosa parliamo quando parliamo di “trap” e altre questioni preliminari.

Non si può incolpare il rap: “Eh voi eravate quelli col messaggio e adesso non c’è più niente”. No, non c’è più niente. Punto. Non è il rap.
(Paola Zukar, 2017)
Per la cultura hip hop, fin dalle origini, costitutiva e fondante è la giustapposizione degli opposti fra il concetto di “keep it real” e quello di “makin’ it”. Da un lato il rimanere fedeli al proprio vissuto, raccontandosi con saldo ancoraggio alle radici, alla zona di provenienza, con l’obiettivo principale di preservare il più possibile la propria autenticità; dall’altro la voglia di riscatto sociale, di ascesa, di vittoria sul fato avverso. A partire dal 2015 in Italia è andato diffondendosi un sottogenere di rap, detto trap, che sembra aver messo in discussione questo equilibrio dicotomico e più in generale le regole di ciò che estimatori e appassionati chiamano rap game. Quella che definiamo Trap music è una produzione che vive di contraddizioni e che sta facendo storia in quanto fenomeno di tendenza: amata, odiata, ma soprattutto seguita, e merita dunque un approfondimento critico che possa darle rilievo nel panorama di studi socioculturali attuale. “Sfera Ebbasta piace a tutti come il Mcdonald” decreta lo stesso rapper nel brano “20 collane”, e tutto potrebbe riassumersi così, perché la trap, nata come sottocultura nelle periferie di Atlanta è allo stato attuale un prodotto globalizzato votato al consumo di massa (statistiche diffuse dalla piattaforma di streaming musicale Spotify evidenziano come, nel 2017 il genere abbia visto un incremento degli ascolti del 74%) declinato in forme e varianti ampiamente eterogenee e dunque difficile da inquadrare con immediatezza. Banalizzando, i tratti distintivi di questa nuova wave musicale sono le sonorità accattivanti, la notevole attenzione data all’immagine (Gué Pequeno, nome altisonante della scena rap italiana l’ha definita “musica da guardare”), i costanti riferimenti al profitto, al crimine, al consumo di droghe, alle griffe di moda, ad una concezione sessuocentrica ed edonistica dell’esistenza.
Col presente articolo si intende indagare quanto e in che modo seguire uno “stile” e sentirsi parte di un fenomeno connotato da tratti contro-culturali (o presunti tali) possa incidere nel processo di costruzione della propria identità e come possa impattare sui pattern valoriali e comportamentali del singolo e del gruppo. Quanto potrebbe ritenersi fondata l’ennesima ondata di panico morale che sembra aver coinvolto l’opinione pubblica dopo gli scetticismi sul punk, il satanismo e la violenza nei videogame?
L’immaginario criminale e nichilista proposto dalla trap costituisce un potenziale pericolo per chi l’ascolta e ne segue i dictat (se li segue)? Alla luce del fatto che (a quanto risulta dall’analisi della letteratura) non ci risultano altri contributi accademici sul tema, intendiamo fornire un quadro di riferimento sul fenomeno che possa rappresentare un punto di partenza esplorativo, quantomeno sul caso italiano, per più approfonditi studi. Il testo parte da una ricostruzione storica e socio-estetica delle forme e dei contenuti della trap, per poi esporre i risultati di una ricerca etnografica condotta a Catanzaro da marzo a fine dicembre del 2018, attuata su trentacinque soggetti a vario titolo coinvolti nel fenomeno (produttori, compositori, consumatori di musica trap), nel tentativo di fare il punto della situazione su un fenomeno tanto diffuso quanto poco discusso in termini sociologici.
I post-subcultural studies hanno posto le basi per una totale revisione dell’approccio strutturalista nello studio dei fenomeni sociali marginali e “periferici”, liquidando difatti le impalcature teoriche della tradizione di Birmingham in favore di prospettive più dinamiche, incentrate sulla molteplicità e frammentazione delle forme contemporanee di identità e appartenenza: “acquisite” e “fluide” anziché “ascritte” e “solide” (Maffesoli, 1988, 40-41). Non più erano da ritenersi costitutivi e fondanti elementi quali il luogo di provenienza o la classe sociale, né tantomeno l’ideologia intesa come ortodosso monolite di concezioni socio-politiche e veicolo di precisi obiettivi a lungo termine. Nel tentativo di convogliare siffatte concezioni in una figura rappresentativa, Michel Maffesoli ricorse metaforicamente alla nozione di “tribù”, intesa come comunità a vocazione meramente emozionale, insieme di persone diverse per età, sesso, razza, status sociale, unite però da una passione comune, in funzione della quale svolgere azioni collettive intense, per quanto effimere. Priva di motivazioni utilitaristiche, la tribù: “(…) si riferisce piuttosto ad un certo ambiente, a uno stato mentale che si esprime principalmente attraverso uno stile di vita, il quale favorisce l’appartenenza e la coesione” (Ivi, 98). Le tribù incarnano una “cristallizzazione particolare” che sfida il dominio del polo inglobante rappresentato dalla massa (Ivi, 191), e ricercano il senso dell’esistere nei frammenti esperienziali, negli sparuti e passeggeri eventi di condivisione, spesso di natura estetica, spesso di consumo. In questo territorio “simulato”, le immagini avevano una funzione di totale preminenza nel fondare la dimensione dello “stare insieme”, alla quale Maffesoli si riferiva con l’appellativo di “mondo immaginale” per definire i luoghi del divertissement e della fiction, zone sospese in cui credenze e pratiche culturali diventavano fonte di “incanto”, legate poi in fondo alla dimensione non solo comunitaria ma anche (e soprattutto) commerciale (Corchia, 2017, 307). Ciò si ricollega al famoso studio di Sarah Thornton “Club cultures: Music, Media and Subcultural Capital” (1995), nel quale venne introdotto per la prima volta il concetto di capitale sottoculturale, mutuato dal capitale culturale di Pierre Bourdieu ma anche alquanto distante da esso. Il capitale sottoculturale non era “di classe” come quello culturale. Le differenze di classe, pur rilevanti, passavano in secondo piano rispetto alle distinzioni subculturali, basate sulla conoscenza della scena, sul possesso di oggetti fisici rilevanti, sull’apparenza attraverso lo stile e l'impegno percepito o la longevità dell'identificazione con la scena. Non più solo aderenza a logiche di tipo strutturale, dunque, ma dinamiche di free-floating1 senza rigidi vincoli di appartenenza. Per i giovani nati e cresciuti nella società dei consumi, infatti, secondo Andy Bennett (1999, 605) le affiliazioni culturali sono multiformi e mobili, alcune in parziale o totale opposizione alla cultura dominante, altre, parzialmente o completamente aderenti al mainstream. Non esiste coerenza nei gruppi giovanili e non esiste coerenza nelle subculture, altresì esistono network relazionali deprivati di confini temporali solidi e caratterizzati da forme di appartenenza galleggianti, esistono spazi reali ma soprattutto spazi virtuali nei quali sperimentare forme di alterità legate al “qui ed ora”.
A ciò va aggiunto anche l’impatto che i nuovi media e le innumerevoli declinazioni della pervasività capitalistica hanno provocato sulle esistenze e sul processo di costruzione delle identità dei neo-subculturalisti2, i quali devono (ora più che mai) fare i conti con una iper-realtà che sembra aver decretato la definitiva sovrapposizione del “modello” sul reale, polverizzandolo.
Per le generazioni alle quali la trap si rivolge, ciò sembra particolarmente calzante3: “In un mondo sempre più interconnesso a livello globale in cui le idee, gli stili, la musica, la gente, la tecnologia e il capitale circolano e si scontrano in modi complessi, su una scala e con una velocità prima impensabili” (…) “le culture giovanili contemporanee sono caratterizzate da stratificazioni di gran lunga più complesse di quella suggerita dalla semplice dicotomia mainstream monolitico vs. sottoculture resistenti” (Muggleton e Weinzierl, 2003, 7). In questa sorta di gioco di ruolo farsesco, sospeso tra il reale e “l’aumentato”, sembra infine che giudice ultimo resti l’individuo, libero di sperimentare gusti e sensazioni svolgendo attività del tutto depoliticizzate, basate su scelte di consumo in quello che David Muggleton definisce “tempio postmoderno del piacere” (Ivi, 49).
Resta da vedere quanto questa “licenza di esperire” sia effettivamente autentica. Da un lato libertà da destrutturazione, dall’altro strette maglie ...

Indice dei contenuti

  1. 1. Introduzione. Di cosa parliamo quando parliamo di “trap” e altre questioni preliminari.
  2. 2. Dalle trap house alle Instagram stories: esegesi di una tendenza
  3. 3. La ricerca: Inside the trap
  4. 4. Conclusioni
  5. Riferimenti bibliografici