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La città tra cinema e pittura
Informazioni su questo libro
"La città tra cinema e pittura" è un'analisi comparata tra l'opera del regista Wim Wenders e il pittore
Edward Hopper che sviluppa la tematica degli spazi urbani, predominante nella loro opera e ne approfondisce
i punti salienti e le divaricazioni lungo le sue principali direttrici: i nonluoghi dell'urbanizzazione e della contemporaneità, spazi di una transitorietà, sia
fisica che esistenziale.
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Informazioni
Argomento
ArtCategoria
Artist Monographs 1. GLI SPAZI URBANI IN WENDERS E HOPPER
1.1 I nonluoghi in Edward Hopper e in Wim Wenders
Nell’America degli anni trenta, all’interno di una corrente regionalista, che in più casi si colorava di accenti nazionalistici e antiavanguardistici, è da collocare l’opera di un artista solitario e schivo, Edward Hopper. Il suo mondo poetico fatto di strade vuote, città anonime, case solitarie è abitato da figure umane immobili. Le periferie sono gli spazi urbani privi di solennità e di eroi che Hopper privilegia decantando “l’orrida bellezza”di questo ibrido di stili architettonici, in una sorta di apologia della mediocrità americana.
L’America anonima e impersonale dei sobborghi radunava i difetti sia della metropoli che del microcosmo nostalgico e rurale alla Grant Wood, ma proprio in questo suo essere ordinaria risiedeva, in un certo qual modo, il suo fascino kitsch, dal quale l’artista non era esente e che, anzi, contribuì ad alimentare l’ambiguità e l’originalità della sua poetica. Ambiguità che consisteva, paradossalmente, nel non riuscire ad odiare questo “caos di brutte cose” (1) come lui stesso definì il suo paese.
La situazione degli anni Trenta raccoglieva al suo interno sia tendenze artistiche impegnate nella polemica sociale, sia artisti che, con intenzioni critiche, davano grande rilievo agli aspetti quotidiani della vita americana ed è proprio all’interno di quest’ultima compagine che l’opera di Edward Hopper si può annoverare. Tuttavia, egli fu sempre piuttosto scevro e attento a non cadere, stilisticamente, in una rappresentazione caricaturale dell’America come fecero, al contrario, molti artisti coevi dell’American Scene.
Quelli di Hopper sono i suburbi dove, dopo la depressione degli anni trenta, la piccola e media borghesia si trasferisce ed è in questa uniformità culturale che gli anonimi e scialbi personaggi di Hopper mettono in scena le loro esistenze prive di slanci, ma conformi ai dettami dei rotocalchi. All’interno di questa poetica di base, Hopper crea, attraverso una distanza, una posizione voyeristica che lo mantiene sempre al di fuori della scena, una molteplicità di lettura direttamente imparentata alle stratificazioni di senso tipiche dell’astrattismo, sebbene Hopper contrapponga all’invenzione, fondamentale nella pittura astratta, la forza dell’immaginazione.
Ed è attraverso di essa che, come una macchina del tempo, egli registra oggettivamente le mutazioni del paesaggio urbano che, a seguito dell’incremento dell’industrializzazione, ha prodotto una divaricazione tra città e campagna e, di conseguenza, una metamorfosi etica ed estetica dei luoghi. Vi è uno stacco netto, una soluzione di continuità tra la rappresentazione della periferia e quella della città.
Questo cambio di registro, che dalle ariose case dei sobborghi, da quello spazio della memoria, conduce lo spettatore nel chiuso e nel notturno della metropoli, somiglia ad una discesa nell’inconscio. In questa epica del quotidiano quindi, assumono rilevanza quegli spazi urbani che, in questi ultimi anni, l'etnologo Marc Augè ha poi ridefinito come nonluoghi, spazi in cui nulla si può leggere né della propria identità, né del rapporto con gli altri e dove vuoto e libertà convivono in conflittuale sintesi. Una libertà che riporta alla mente le parole dello scrittore Peter Handke: “gli uomini sono liberi come i posti a sedere”.(2)
Stanze d’albergo impersonali e fredde, squallidi interni di uffici, bar notturni e stazioni di rifornimento sono i luoghi comuni del paesaggio americano che rivelano la psicologia di chi vi transita. I colori di Hopper, quando si sofferma su questi paesaggi cittadini, sono tersi e abbaglianti, ormai completamente privi di quel tonalismo, basato sui chiaroscuri, utilizzato dall’artista negli anni della sua formazione.
Egli decise di abbandonare la pittura tonale soprattutto in seguito al lungo e incisivo soggiorno parigino, dal quale rimase fortemente affascinato. Entrare in contatto con l’opera degli impressionisti e con la loro analisi del colore e della luce, fu di fondamentale importanza per l’artista, essendo anch’egli profondamente coinvolto in questo tipo di ricerca espressiva e formale.
Il periodo parigino e l’incontro con la pittura francese alleggerì il suo sguardo dalla precedente pesantezza chiaroscurale alla Rembrandt, dando nuova linfa vitale anche alla sua opera successiva.
Fu attraverso la dolcezza della luce dell’Ile de France e della Normandia che si riconciliò, in quel periodo, con la vita, come ebbe modo di osservare il poeta e critico Yves Bonnefoy in un suo saggio sull’artista: “Illusioni, queste impressioni vaghe, questi investimenti fuggevoli della coscienza nelle rappresentazioni ch’essa forma? Ma cos’è un pittore se non colui che unisce, sia pure nella sua più breve percezione di un po’ di blu sopra un tetto quando il cielo si scopre, la propria chimera più profonda con le sensazioni più superficiali?”.(3)
In questo determinante periodo, oltre a trasformare la propria tavolozza grazie al contatto diretto con la vitalità della pittura impressionista, egli sviluppò un forte interesse per le potenzialità espressive e drammatiche della luce, attraverso le quali penetrare più profondamente l’essenza del reale. Questo forte interesse, unitamente a una sempre maggiore semplificazione delle forme e solidità dei volumi, si rivelerà profondo e definitivo.
Tuttavia, nonostante il grosso coinvolgimento nell’atmosfera parigina e nelle innovazioni artistiche di quegli anni, egli non si fece mai influenzare dai grandi movimenti dell’avanguardia, né dalle rivoluzioni formali e ideologiche che essi portarono.
Al contrario, continuò a sviluppare una personale linea di ricerca, partendo dal suo stile che in Francia andò definendosi, cercando piuttosto di trovare una strada innovativa all’interno della tradizione figurativa americana.
Oltre alle opere di Renoir, Sisley e Monet, Hopper studiò attentamente i tagli insoliti e le particolari inquadrature dal sapore cinematografico di Degas. Da quest’ultimo apprese l’idea di trasformazione pittorica della realtà mediante la forza dell’immaginazione e del pensiero, direzionando l’opera di Hopper verso costruzioni psicogrammatiche, dotate di diversi livelli di senso. Le sue opere sono strutturate all’interno di una maglia di ortogonali, creando vuoti necessari all’individuazione e all’evocazione della universale condizione umana.
Ciò lo possiamo notare, ad esempio, nel dipinto Room in Brooklyn (fig.1) del 1932, dove lo spazio tra la donna seduta e il tavolino guida la percezione e l’emozione verso un senso di solitudine e di isolamento, temi onnipresenti nell’opera del pittore americano; presenza necessaria a sottolineare l’assenza e il vuoto che la circondano, facendo emergere un’atmosfera metafisica in queste immagini silenziose.
Silenzio che ritroviamo anche in alcuni personaggi dei film di Wim Wenders ma per il regista, più che disagio esistenziale, è ricerca di linguaggi altri, di modi di comunicazione tipici dell’infanzia, quando ancora la carica significativa dello sguardo non è soppiantata dalla parola. Sempre attraverso il silenzio, Wenders rende il suo tributo al cinema muto, il cinema delle origini, ricco di essenzialità e di rigore.

Fig.1 E. Hopper, Room in Brooklyn, 1932, olio su tela
L’uso frequente del bianco e nero ispira, peraltro, ad un raffronto tra cinema e incisione, riconducendo alla memoria una famosa acquaforte di Hopper, Night Shadows (fig.2) del 1921, che si avvale di un’inquadratura dall’alto, dal taglio fortemente cinematografico. Night Shadows va così a fare il paio col famoso film di Fritz Lang (il quale studiò pittura alla scuola parigina di Maurice Denise) M: il mostro di Dusseldorf (fig. 3) del 1931 dove le riprese, di tipo espressionista, si avvalgono anch’esse di questo tipo d’impaginazione, di una stilizzazione realistica e di un impatto visivo di tipo architettonico completamente ricostruito in studio.

Fig.2 E. Hopper, Night shadows, 1921, acquaforte

Fig.3 F. Lang, da M: il mostro di Dusseldorf, 1931
Il cinema espressionista sempre privilegiò una resa geometrica dell’insieme infondendo alla città aspetti inquietanti e fortemente alienanti, proiezioni di angosce interiori come lo stesso personaggio afferma: “Sono sempre costretto a camminare per le strade, e c’è sempre qualcuno dietro di me. Sono io. Talvolta sento che io stesso sono dietro di me, ma non posso sfuggire”.(4)
La città irrompe dunque, con i suoi reticoli di strade, nell’immaginario di Hopper, avvolta nei suoi misteri e nelle sue ombre minacciose. Queste ombre della notte, questi violenti chiaroscuri li troviamo, in prima battuta, nelle opere del Cinema Espressionista Tedesco di inizio secolo, nei lungometraggi di Lang, di Wiene, di Murnau, per poi reincarnarsi successivamente, in seguito all’emigrazione in America di registi e architetti provenienti dalla Germania, nel Cinema noir americano degli anni trenta e quaranta.
Anche la Paramount e la Warner Bros. ebbero al loro interno designers tedeschi specializzati nel realizzare caffè, night club e ristoranti ed è evidente come l’immaginario di Hopper ne sia rimasto influenzato.
Nei suoi dipinti ritroviamo quel tipo di costruzione mitica e la stessa sospensione narrativa del cinema in bianco e nero di quegli anni che lo soccorse nel definire la sua poetica, grazie a quel grado di stilizzazione e di rigore geometrico di cui le sue immagini urbane necessitavano.
In Office at night (fig.4) del 1940 Hopper mette in atto un gioco prospettico di inclinazioni e obliquità che toglie stabilità alla composizione conferendole enigmaticità. L’aura di seduzione del corpo femminile, provocatoriamente definito dall’abito aderente, rimanda al motivo, ricorrente nel Cinema Noir, della donna dall’angelica in apparenza ma, in realtà, seducente e pericolosa.
Queste stesse atmosfere si possono inoltre rintracciar...
Indice dei contenuti
- INTRODUZIONE
- 1. GLI SPAZI URBANI IN WENDERS E HOPPER
- 2. IL DENTRO E IL FUORI
- 3. L’IMPOSSIBILITA’ DELL’IDENTITA’
- 4. IL CONCETTO DI TEMPO