QUINTO RICORDO
Del mio carattere di quand’ero bambina si possono dire tre cose: che ero timida; che sentivo la responsabilità di ubbidire a tutti; e che quando ero stanca diventavo irascibile, scorbutica con chiunque provasse a parlarmi.
Per fortuna, non tutti lo facevano. Persone a parte, c’era una categoria di creature per le quali non provavo mai rabbia, rancore, e nemmeno tristezza: gli animali. Alcuni avevano la pelliccia, altri le piume – ma, a qualunque specie appartenessero, avevano sempre il potere di farmi sentire libera, serena e felice.
Ricordo che il primo mi venne regalato quando avevo sei o sette anni. Il papà, esasperato dalle mie continue suppliche, era uscito un giorno di malumore e, al suo ritorno, aveva con sé una boccia piena d’acqua e sassolini.
«Ecco», mi disse, piazzandola sopra il lavello della cucina, da dove mia madre osservava la scena con gli occhi sbarrati, vagamente inorridita. «Ora la pianterai con i piagnistei.»
Io sbattei le palpebre, senza capire, ma poi scorsi un guizzo nell’acqua e fu allora che cacciai un grido.
Un pesce rosso, con le squame color bronzo e sfumature aranciate, nuotava pigramente dentro la boccia. Io mi ci appiccicai col naso come facevo qualche volta con le vetrine dei giocattolai e rimasi a contemplarlo, rapita, mentre mia madre iniziava a lamentarsi e ad andare dietro a mio padre per chiedergli spiegazioni.
Da quel giorno, passai settimane sempre a osservare quel pesce: la bocca con le sue movenze, il modo che aveva di mangiare una briciola sputando e riprendendola, il corpicino che si inarcava spingendosi in avanti.
Per un po’ mi andò bene così, ma poi, essendo io un tipo molto passionale, cominciai a desiderare di più. Non mi bastava guardare. Per interagire con il pesce, dovevo arrivare a toccarlo.
Nei giorni seguenti misi in pratica il mio addestramento. Infilavo la mano nell'acqua e a tutti i costi insistevo in questa manovra, giorno dopo giorno. Le prime volte lui guizzava dappertutto, come impazzito, ma dopo qualche tempo iniziò a sopportare l'intrusione della mia mano fino a rimanere immobile.
A quel punto, ero quasi giunta al mio scopo. Un pomeriggio – la mamma era da una vicina, il papà in giro per chissà quali bar – mi decisi a fare la mossa definitiva. Trattenendo il respiro, immersi la mano nella boccia, tenendola in orizzontale, con il palmo rivolto in alto. Poi mi morsi il labbro e rimasi immobile, fissando il pesciolino e inviandogli delle specie di comandi mentali per pregarlo di avvicinarsi alle mie dita.
Ancora oggi non so dirvi se goda di strani poteri medianici, fatto sta che quella volta, dopo un po’, il pesce venne davvero. Col cuore che batteva forte lo vidi posarsi sopra la mia mano fino a rimanerci tranquillo, come se il mio palmo fosse il suo l’habitat naturale. Potevo sentire le sue pinne sfiorarmi, la sua coda viscida tra le dita.
Ero arrivata al mio scopo. Non ero una bambina lagnosa. Ero una vera ammaestratrice di pesci rossi, e ciò per me era molto gratificante.
La stessa cosa si ripeté, qualche mese più tardi, con un canarino giallo imprigionato nella gabbietta ovale che si trovava in cucina. Mamma diceva che vivacizzava la stanza con il suo canto, ma a me non bastava, il mio desiderio era di toccarlo e mentre ci provavo la mamma protestava e mi diceva che sarebbe morto di spavento. Tutti i giorni lo tormentavo, infilando la mano dentro la gabbia piano piano, e lui svolazzava da destra e sinistra, perdeva qualche piuma, i semini saltavano e il beverino per l'acqua cascava in terra mentre le urla della mamma non facevano che aumentare la tensione del momento.
Finché, un giorno, riuscii a prenderlo delicatamente tra le dita. Io non riuscivo a fiatare, e nemmeno lui, dato che stava con il becco aperto, terrorizzato. Era così leggero che ebbi paura di schiacciarlo, così mollai la presa e lui cominciò a volare per la cucina sbattendo contro gli oggetti, la finestra, i quadri, per poi sistemarsi dietro la cappa, soddisfatto di aver trovato un posto sicuro.
La mamma, stranamente, non se la prese. Anzi, da quel giorno gli lasciò sempre la gabbietta aperta, così che la bestiola potesse entrare e uscire a suo piacimento. Una gentilezza che, evidentemente, lui apprezzò, perché nel giro di poco il canarino iniziò a intrattenerci durante i pasti: gorgheggiava sullo scolapiatti, rubava lo spaghetto dal piatto, si lavava le piume sul bordo della pentola incrostata, mezza piena d'acqua. E noi giù a ridere, perfino il papà, finché la mamma non si seccò di dover sempre disinfettare le pentole prima di usarle per cucinare, momento che sancì il ritorno in cella del mio piccolo amico.
La prima esperienza con un gatto non fu altrettanto fortunata. Anzi, portò la mamma all’esasperazione, e sempre per gli stessi motivi: vivevo in simbiosi con lui, tenendolo perennemente sulle gambe anche quando fingevo di studiare, e del resto le sue fusa – che mia madre chiamava "credo", come se il micio borbottasse delle preghiere – esprimevano bene come si sentisse a suo agio tra le mie braccia.
Era un gatto magnifico, con un solo difetto: era bianco, un dettaglio che non tardò a innescare una scintilla nella mia fantasia di bambina.
Un giorno, infatti, desiderandolo più soffice di quanto già non fosse, mi venne la pessima idea di lavarlo con il “Lip”, il detersivo appositamente studiato per detergere le magliette candide di lana. Il povero animaletto si fidava di me, così si lasciò portare in bagno senza ribellarsi… all’inizio.
Non appena l’acqua gli bagnò il pelo cominciò a gnaulare, e io facevo del mio meglio per tenerlo fermo mentre lui, terrorizzato e saponato dentro al lavandino, sembrava pelle e ossa e si arrampicava sui rubinetti in cerca di fuga. Per lo spavento, si sporcò, e più io lo rilavavo, più lui si sporcava.
Passavano i minuti e io avevo ormai perso il controllo sulla situazione. Sul pavimento giacevano asciugamani ridotti a stracci. C'era acqua da tutte le parti, e fu così che mi trovò mia madre, rientrando dalle commissioni. Ancora oggi ricordo il suo urlo acuto, ma soprattutto il dolore che provai quando, il giorno dopo, al mio rientro da scuola, non trovai più il gatto.
Per tanti giorni soffrii la sua mancanza, ma per la mamma non ero pronta a prendermi cura di un animale così impegnativo. Oggi capisco che aveva ragione, ma allora piansi per settimane intere, ripetendo che non era vero, finché non mi resi conto che i miei genitori non avrebbero mai cambiato opinione. Eppure io volevo bene a quel gatto, più di quanto possa oggi esprimerlo in queste pagine. Solo che non ero in grado di dimostrarlo.
Dopo un po’, per consolarmi, iniziai a cercare nuovi modi per entrare in contatto con gli animali. Coi vicini non parlavo, e nemmeno con gli altri bambini del quartiere, perciò il mio cuore mi portò a giocare nella campagna di fronte a casa, dove cresceva tanta insalata selvatica. Speravo che ci avrei trovato dei conigli, e per questo presi a trascorrere in mezzo all’erba gran parte del pomeriggio, raccogliendo lattuga, strappando petali e annusando gli odori della campagna: fieno, caprifoglio e qualcosa di più caldo, animale. So che può sembrare assurdo, ma il tanfo del letame era, in un certo senso, il mio preferito, perché poteva significare solo una cosa, e cioè che nei dintorni dovevano esserci degli animali.
Li scovai qualche giorno dopo, per puro caso. In genere non mi muovevo mai dal prato davanti a casa, che la mamma poteva controllare alzando gli occhi dalle pentole in...