Parte Prima
Recensioni
Snowpiercer e quel che resta dell’umanità nel mondo post-apocalittico di Bong Joon-ho
★ ★ ★ ★
Titolo: Snowpiercer (Seolguk-yeolcha)
Regista: Bong Joon-ho
Paese: Corea del Sud, USA, Francia
Anno: 2013
Genere: azione
Snowpiercer, del regista Bong Joon-ho e ispirato alla serie a fumetti Le Transperceneige, a oggi è il film più costoso che sia mai stato prodotto in Corea.
Nel 2014 l’uomo, nel tentativo di impedire lo scioglimento dei ghiacciai, causa invece una nuova era glaciale, provocando quasi l’estinzione della specie umana. Si salvano solo i passeggeri dello Snowpiercer, un treno speciale che ruota in moto perpetuo intorno al mondo e impiega un anno per farne il giro completo. Il treno risulta così ciò che resta dell’umanità e, proprio come la terra gira incessantemente su se stessa, esso gira a sua volta in tondo attorno a essa perché, qualora si fermasse, il clima polare congelerebbe ogni cosa al suo interno.
2031. Sono passati diciassette anni e il piccolo mondo rispecchia ancora perfettamente le gerarchie sociali della storia dell’umanità. In coda al treno, ai piedi, si trovano i proletari, sorvegliati dalle guardie, a loro volta guidate da una magistrale, spietata e grottesca Tilda Swinton. Man mano che si avanza con i vagoni, si sale anche con il livello delle classi sociali, fino ad arrivare in testa al treno, in cui risiede il capo Wilford (Ed Harris), l’ideatore di tutta la struttura. Il treno ricorda, per la suddivisione in classi sociali, il grattacielo descritto da James Ballard nel suo romanzo Il condominio, dove nei piani più bassi risiedono gli operai e, salendo in cima, fino agli ultimi piani, si trovano avvocati, dottori e finanzieri.
Nel treno di Bong, come nel grattacielo di Ballard – e come nella storia – il caos viene sempre generato dal tentativo di rivolta del popolo, dunque dall’incontro-scontro tra il proletariato e le classi più abbienti. Per contro, la dittatura crea un clima rigido e di terrore in cui ognuno, stando al proprio posto, contribuisce al mantenimento dell’ordine.
Curtis (Chris Evans) si mette a capo dei proletari e li dirige (proprio come Bong con il suo film) in un percorso all’interno del treno, nel tentativo di arrivare in testa allo stesso e porre fine alla loro condizione subalterna. Lo spettatore accompagna Curtis e i suoi amici in un viaggio attraverso il mondo e la storia dell’umanità, rievocando negli scontri che essi affrontano durante il loro cammino i grandi stermini della storia e nella figura di Wilford una sorta di misterioso e pacato dio-dittatore.
Snowpiercer è un film attualissimo, che rispecchia perfettamente la società contemporanea, sia per la caratterizzazione dei personaggi sia per come presenta la tecnologia: questo treno ad alta velocità consente ai passeggeri di sopravvivere proprio grazie a un suo sistema interno di autoalimentazione, che gli permette di correre senza sosta. Può, quindi, risultare senza forzature una metafora della società contemporanea, caratterizzata della sua frenesia e dal suo essere multitasking. Inoltre, volendo azzardare una lettura metalinguistica, il treno che gira in tondo sui suoi binari può essere visto come correlativo della pellicola cinematografica, del meccanismo cinematografico e dello “srotolarsi” del film stesso, inquadratura dopo inquadratura, sequenza dopo sequenza, avanzando treno e pellicola simultaneamente.
Bong non ci risparmia niente: arti mozzati, corpi trafitti da lame, sparatorie e accettate, il tutto condito da quella poeticità tipica del cinema orientale, da una fotografia sublime e da un montaggio che elide all’ultimo secondo le scene più cruente – nel momento del braccio mozzato, in quello del corpo trafitto o della mano tritata – mostrandoceli solo prima e, a volte, dopo, ma il più delle volte lasciando concludere l’azione spietata all’immaginazione dello spettatore e ai suoi neuroni a specchio.
Snowpiercer è un film violento e allo stesso tempo poetico. Indimenticabile la prima, silenziosa inquadratura con un lento zoom del paesaggio desolato della terra che rimanda immediatamente al concetto di morte (tale quadro ricorda i film del conterraneo Kim Ki-Duk), messa subito in relazione con la velocità e il rumore del treno in movimento che rappresenta, di contro, la vita. Per la violenza esibita, invece, non si può non avvicinare Snowpiercer ai lavori di un altro regista conterraneo, e qui produttore, Park Chan-Wook (si pensi alla trilogia della vendetta).
Infine, non è possibile non accostarlo – non tanto sul piano stilistico, quanto su quello ideologico – ad alcuni lavori del danese Lars von Trier, come Dogville. Ma, al contrario di quest’ultimo, Snowpiercer risulta un lavoro non riuscito del tutto, come se Bong, dopo aver sviscerato fino in fondo i temi della crudeltà e dell’avidità che l’essere umano nutre e ha sempre nutrito, perda qualche colpo sul finale a sorpresa, lasciando lo spettatore con uno spiraglio di luce e di cambiamento. Ma al nostro buon Bong possiamo perdonarlo: in fondo, è fantascienza.
Un uomo diviso tra maschera e identità in Birdman, di Alejandro González Iñárritu
★ ★ ★ ★ ½
Titolo: Birdman (id.)
Regista: Alejandro González Iñárritu
Paese: USA
Anno: 2014
Genere: commedia
Titoli di testa: le lettere appaiono un po’ per volta e costruiscono in modo frammentato le parole sullo schermo. Appare per una frazione di secondo quello che in seguito si scoprirà essere uno scuro paesaggio marino desolato con molte grandi meduse morte sulla spiaggia. Veniamo catapultati in un interno logoro, un uomo di spalle, in mutande, che sta levitando in quella che appare una sorta di meditazione. L’inquadratura si stringe sull’uomo, sempre di spalle, finché una videochiamata non lo riporta letteralmente coi piedi per terra. L’uomo si avvicina al suo MacBook e uno specchio ci mostra la sua duplice identità, ovvero l’immagine riflessa del suo volto insieme a quella della locandina di Birdman 3, il supereroe che l’ha reso popolare. Non è certamente un caso che i suoi volti (con e senza maschera) ci vengano mostrati per la prima volta da uno specchio, simbolo delle apparenze e metafora di un Io scisso non solo in senso psicoanalitico, ma anche nell’accezione di una divisione tra un passato sicuro (la locandina appesa che simboleggia la popolarità del personaggio di Birdman) e un presente incerto (l’uomo in “carne e ossa”, che è pur sempre un – doppio – fantasma cinematografico e il declino da cui cerca di rialzarsi).
L’uomo di cui stiamo parlando è Riggan Thomson (Michael Keaton) e si trova nel suo camerino (altro elemento che fa riferimento al mondo delle “apparenze”, poiché nel camerino ci si traveste da “altro”) ed è alle prese con la sua prima rappresentazione teatrale di un’opera di Raymond Carver.
Birdman è cinema che strizza l’occhio al metateatro, una commedia nera e grottesca che riflette sulla vita, sull’arte e, dunque, sul labile confine che c’è tra realtà e finzione, ma anche tra amore e morte, e il film è tutto qui. Birdman gioca di continuo con il meccanismo della finzione, a cominciare dalla straordinaria mise en abyme iniziale, quando per la prima volta Riggan sale sul palco da dietro le quinte ed entra quasi automaticamente in scena, accompagnato da una traballante camera a mano che, per quasi due ore di film, segue in maniera morbosa e instancabile i personaggi e gira loro intorno in modo fluido, costruendo eleganti piani sequenza (il film è montato come se fosse un unico, tuttavia finto, piano sequenza). Il teatro è, dunque, nella storia ma non nel mezzo cinematografico, che viene esibito con sapienza e in maniera estrema.
Oltre che a giocare con la realtà e la finzione, Birdman è anche teatro di fantasie e allucinazioni o, più semplicemente, di conflitti interiori tra le due identità: quella di Riggan Thomas-Birdman e quella di Riggan Thomas-regista e attore teatrale. Da qui, nel corso del film, prende sempre più piede la critica ai blockbuster (eccezionale la scena in cui Birdman si rivolge direttamente agli spettatori, accusandoli di non richiedere film impegnati, difficili e angosciosi, ma solo leggeri prodotti di massa ben confezionati). Non manca, poi, l’attacco alla critica, capace solo di mettere etichette.
Quello di Iñárritu è un film colto e intelligente – si citano scrittori come Gustave Flaubert, filosofi come Roland Barthes – ma i riferimenti più curiosi sono quelli cinematografici, dall’insistente inquadratura del corridoio alla Shining (Stanley Kubrick) all’altrettanto insistente batteria che compone la colonna sonora e che dà quel tocco grottesco che rimanda ad alcune sequenze filmiche di David Lynch, per avvicinarsi a film come Venere in pelliccia (Roman Polanski) per quel che riguarda il (con)fondersi di finzione e realtà.
Birdman è una delle pellicole più entusiasmanti del Festival di Venezia 2014 e che si è aggiudicata quattro tra le principali statuette agli Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior fotografia).
Imperdibile.
Lettere di uno sconosciuto: rivoluzione culturale e memoria nel melodramma storico di Zhang Yimou
★ ★ ★
Titolo: Lettere di uno sconosciuto (Gui Lai)
Regista: Zhang Yimou
Paese: Cina
Anno: 2014
Genere: drammatico
Presentato nella sezione Fuori concorso del Festival di Cannes 2014, Lettere di uno sconosciuto (Gui Lai), del regista cinese Zhang Yimou, è un intenso melodramma dai toni cupi e intriso di malinconia. Un padre di famiglia viene imprigionato ai tempi della Rivoluzione culturale in Cina, quando sua figlia ha appena tre anni. Dopo dieci anni riesce a scappare per tornare dalla famiglia, ma, proprio quando l’uomo sta correndo incontro a sua moglie per riabbracciarla, viene di nuovo catturato dalle forze dell’ordine in una delle sequenze di maggior potenza emotiva, con l’assordante rumore del treno in arrivo che copre le voci dei due coniugi che non riescono, così, più a comunicare, separati ulteriormente dal ponte che, anziché unirli, li divide insieme all’arrivo della polizia. La donna, durante la corsa, cade e batte la testa. Più in là, le verrà diagnosticata un’amnesia. Passano altri dieci anni e l’uomo viene liberato, ma quando torna a casa la moglie non lo riconosce.
Lettere di uno sconosciuto si apre nel buio di una notte dalla pioggia fitta e incessante, correlativo oggettivo dell’animo tormentato dei personaggi. L’uomo, infatti, è appena scappato e moglie e figlia sono state avvertite dalla polizia, ma mentre la prima non è affatto convinta di denunciarlo alla legge qualora tornasse, la seconda, indottrinata dal partito, risponde prontamente che lo farà non appena si sarebbe presentato. La pioggia, così, diventa anche metafora di combattimento – quello dell’uomo che cerca con tutte le forze di riunirsi alla famiglia – nonché del conflitto madre-figlia.
La pioggia non è l’unico filtro visivo. Lettere di uno sconosciuto fa largo uso di tali espedienti: porte, pareti, vetri, binari, ringhiere, il ponte… ma è soprattutto il tempo, insieme all’amnesia della donna, ad aver innalzato la barriera più dura da sconfiggere. Quello di Zhang Yimou è un film sull’amore come devozione, ma anche sul passato in grado di divorare il presente, un passato che acceca, e la malattia altro non è che una metafora per dirci che quello che stiamo aspettando, anche se sembra non arrivare mai, spesso si trova proprio sotto i nostri occhi o al nostro fianco. Ma il passato è come una malattia da cui sembra impossibile guarire ed è così che Lettere di uno sconosciuto, se si era aperto nella combattività di una pioggia incessante, si chiude nella poesia e nella delicatezza – ma anche nella rassegnazione – di una neve leggera, col messaggio che la vita è un viaggio da percorrere giorno dopo giorno in direzione della consapevolezza e non una stazione in cui si aspetta qualcosa o qualcuno che non arriverà mai. Non si può vivere il presente se si guarda indietro, al passato, verso un fuoricampo.
Tuttavia la regia risulta abbastanza sobria e contenuta, al servizio di una narrazione la cui sceneggiatura pecca di ripetitività e sentimentalismo, sfiorando il ridicolo in un paio di ...