Che fare?
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Informazioni su questo libro

L'opera fu composta fra il dicembre 1862 ed il 1863 nella fortezza di Pietro e Paolo, a San Pietroburgo, dove Cernysevskij era tenuto prigioniero. A carico di Cernysevskij non era stata formulata nessuna accusa formale, ma si era certamente attirato le attenzioni della polizia zarista per la sua feroce critica alla politica di Alessandro II.
Il romanzo fu pubblicato nella primavera del 1863 nei numeri 3, 4 e 5 del Sovremennik, il giornale sul quale l'autore aveva proclamato le proprie idee democratiche e rivoluzionarie prima dell'arresto. Fu però immediatamente sequestrato, e fino al 1905, anno in cui fu pubblicato integralmente per la prima volta, venne diffuso solo attraverso copie clandestine. Tuttavia questo non diminuì la portata dell'opera e il grande influsso che essa ebbe su diverse generazioni di giovani rivoluzionari. Basti ricordare che lo stesso Lenin intitolò nel 1902 la sua opera politica sull'organizzazione e la strategia del partito rivoluzionario Che fare? proprio in onore del libro di Cernysevskij.
Negli anni trenta, Cernysevskij e il suo Che fare? sono stati indagati da Vladimir Nabokov nel terzo capitolo de Il dono: attraverso lo sguardo del protagonista-scrittore Fëdor Godunov-Cerdyncev leggiamo un'opera nell'opera: una biografia corrosiva di Cernysevskij, e della genesi di Che fare?.

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Informazioni

Anno
2019
eBook ISBN
9788831639798
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici
CHE FARE?

I. LA VITA DI VERA IN FAMIGLIA

1

L’educazione di Vera era stata delle più ordinarie. La vita di lei, prima che facesse la conoscenza dello studente medico Lopuchov, non aveva presentato alcun che di speciale. Un certo che di speciale si notava nondimeno in lei fin da prima.
Vera Pavlovna era venuta su in un alto caseggiato, sulla Gorochovaja, tra la Sadovaja e il ponte Semenovskij. Adesso, quel caseggiato ha il suo bravo numero; ma nel 1852, quando di codesti numeri non s’aveva idea, portava questa scritta: «Casa del consigliere effettivo di stato Ivan Zacharevič Storešnikov.» Se non che, questo Ivan era morto fin dal 1837, e padrone della casa era suo figlio Michail, come dai documenti risultava. Ma tutti gli inquilini sapevano che Michail non era che il figlio della padrona, e che costei si chiamava Anna Petrovna.
Il gran caseggiato aveva due portoni, quattro gradinate e tre cortili. La gradinata più vistosa conduceva agli appartamenti padronali. Anna Petrovna era ed è una signora distinta. Michail è un distinto ufficiale, ma allora era anche giovane e piacente.
Chi abiti adesso, in alto della più sudicia scaletta del primo cortile, al quarto piano, nella casetta a destra, lo ignoro; ma nel 1852 ci stava l’amministratore della proprietà, Pavel Rozalskij, uomo grasso e vistoso, con la moglie Mar’ja, magra, lunga, ossuta, con la figlia Vera e col figlio Fëdor, ragazzo di nove anni.
Oltre all’ufficio di amministratore, Pavel Rozalskij lavorava anche in non so quale ministero. Quel primo ufficio non gli fruttava gran che; un altro si sarebbe forse arricchito; ma Pavel Rozalskij, come da sè lo diceva, era uomo di coscienza. La padrona ne era perciò contentissima, e in quattordici anni di servizio egli non aveva messo insieme che un capitaluccio di diecimila rubli. Di questi, soltanto tremila erano usciti dalle tasche della padrona; il resto aveva tutt’altra origine. Pavel Rozalskij dava danari su pegno.
Mar’ja, la moglie, aveva anch’ella il suo gruzzolo: cinquemila rubli, come contava alle sue comari, ma in realtà un poco di più. Le prime basi del capitale erano state gettate quindici anni innanzi con la vendita di una pelliccia e di certe masserizie ereditate dal fratello. Avendone cavati poco meno che ducento rubli, ella li aveva subito messi in circolazione, con lo stesso sistema del marito ma con più rischioso ardire… Un farabutto le pigliò una volta cinque rubli, lasciando in pegno un passaporto rubato, e la signora Mar’ja ebbe a snocciolare altri quindici rubli per uscir d’impaccio; un altro birbaccione impegnò per venti rubli un orologio d’oro, e si trovò che l’orologio era stato preso ad un morto, sicché si dovette pagar salato per districarsi. Ma se da una parte aveva perduto, dall’altra aveva anche accumulato più speditamente del marito. Capitavano anche altri profitti straordinari. Una volta, la figliuola Vera era ancor piccolina e certe cose non le poteva capire; se non che la cuoca si prese la briga di spiegargliele per filo e per segno, per vendicarsi di una correzione manuale inflittale dalla padrona… Una volta, dunque, arrivò dalla signora Mar’ja una dama sconosciuta, bella, elegante, e fu accolta come ospite. Si fermò una settimana, senza dar noia a chicchessia. Riceveva solo le visite di un bell’uomo, il quale regalò alla piccola Vera confetti, bambole e anche due libri figurati; in un libro c’erano città, alberi, animali; l’altro le fu strappato di mano dalla mamma, sicché la bambina non vide le figure che una volta sola, quando lo stesso donatore gliele aveva mostrate. Per tutta quella settimana, regnò in casa la pace; la signora Mar’ja non alzava la voce e non menava le mani. Poi, una notte, Vera era stata destata da grida, chiamate, usci sbattuti, un inferno. La mattina, la signora Mar’ja, sorseggiando un bicchierino d’acquavite, aveva borbottato: «Grazie a Dio, tutto è andato bene!» Aveva anche offerto da bere alla cuoca, dicendole: «Poverina, hai faticato come una bestia!» e, dato un bacio a Vera, se n’era andata a letto. Un’altra settimana era passata, senza più grida, e poi la dama elegante era partita… Queste cose erano state viste da Vera, quando aveva otto anni o nove. La cuoca, come s’è detto, le spiegò di che si trattasse. Ad onor del vero, di questi casi non ce ne fu che uno.
Quando ebbe dieci anni, andando un giorno con la mamma, Vera ricevette un inatteso scappellotto accompagnato dal monito: «Sciocca! guardi alla chiesa e non ti fai la croce?… Piglia esempio da me, da tutta la gente per bene!»
A dodici anni, Vera andò a scuola, ed ebbe in casa un maestro di pianoforte, un tedesco beone, ma buon maestro e, per dato e fatto del bere, di assai modeste pretese.
Quand’ebbe toccato il quattordicesimo anno, bastava da sola al governo della casa e della famiglia, la quale, del resto, non era numerosa.
A sedici, la mamma prese a intronarla: «Lavati il viso, grulla, che mi pari una zingara! Da che mostro hai preso, non lo so davvero!»
Non poche n’ebbe a sentire per la tinta bruna della pelle, e s’era ormai assuefatta a credersi brutta. In principio, la mamma la copriva appena di qualche cencio; ora la vestiva con una certa ricercatezza. «A che serve?» pensava Vera; «con l’abito di seta o con quello di mussola, sarò sempre un mostricciattolo. Che fortuna, la bellezza! e quanto mi piacerebbe di esser bellina!»
A diciassette anni, congedato il maestro di musica, Vera prese a dar lezioni di pianoforte nella stessa scuola dove aveva imparato. La mamma promise di trovarle altri allievi.
Di lì a sei mesi, la zingara era già divenuta, per virtù propria e per materna sollecitudine, una piacente ed elegante giovinetta. La cuoca le confidò un giorno di non so che intenzioni matrimoniali manifestate dal capo d’ufficio di Pavel Rozalskij. Si vociferava infatti al ministero che il capo d’ufficio gli si mostrava tenerissimo e più volte, fra i suoi pari, aveva detto di voler trovare una moglie, magari senza dote, ma che fosse una bellezza.
A che sarebbe andata a finir la cosa, non si può dire. Il capo d’ufficio la pigliava per le lunghe, e nel frattempo un’altra occasione si presentò.
Il figlio della padrona venne a dire all’amministratore che la mamma lo pregava di portarle un campionario di parati, volendo rinnovare tutto quanto il quartiere. Simili commissioni si affidavano prima al maestro di casa. Non ci voleva gran che a capir la faccenda. Il padroncino si fermò più di mezz’ora e accettò perfino una tazza di té. Il giorno appresso la signora Mar’ja regalò alla figliuola un fermaglio, rimastole fra i pegni non riscattati, e ordinò per lei due vestiti nuovi, l’uno di 40 rubli, l’altro di 52, che con frange, nastri e fattura, ammontavano a rubli 174, come la stessa signora Mar’ja affermò al marito. In effetti, non costavano che cento, e la stessa Vera n’era informata; ma anche con cento rubli si hanno due vestiti eccellenti. Vera si rallegrò dei vestiti, del fermaglio, e soprattutto degli stivaletti che la mamma aveva finalmente consentito a comprarle dal famoso Korolev.
La spesa non fu buttata via. Il figlio della padrona di casa divenne assiduo, e, naturalmente, s’intratteneva con la signorina più che con i genitori. La madre, beninteso, fece alla figlia ogni possibile avvertimento.
Una volta, dopo desinare, le disse: «Sai, Vera… Cerca di farti bella. Si va a teatro stasera. Ho preso un palco in seconda fila. Tutto per te, scioccherella. Il babbo ed io non si guarda a spese… La pensione, il maestro di pianoforte… Già tu sei un’ingrata, e non si capisce davvero che cuore è il tuo!»
Dal fatto del capo d’ufficio, le materne sgridate avevano assunto questa forma di scherzosa tenerezza.
S’andò a teatro. Dopo il primo atto, entrò in palco il figlio della padrona di casa, accompagnato da due amici, un borghese e un militare. Sedettero, si fermarono un pezzo, chiacchierarono.
La signora Mar’ja, benché fosse tutt’orecchi, non afferrava il filo del discorso, visto che si parlava sempre in francese. Di francese non sapeva che quattro parole: belle, charmante, amour, bonheur. Già sapeva da un pezzo che la sua zingara era belle e charmante; quanto ad amour, anche un cieco avrebbe visto che il giovanotto era infatuato; e quando c’è l’amour, si capisce subito che deve seguire il bonheur… E poi?
«Vera, non far la scontrosa! Che è, che ti volti in là? Ti hanno forse offesa, facendoti l’...

Indice dei contenuti

  1. CHE FARE?
  2. Nikolaj Gavrilovič Černyševskij
  3. Che fare? (romanzo)
  4. INTRODUZIONE DELL'AUTORE
  5. CHE FARE?
  6. Note