La fuga in Egitto. Romanzo
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La fuga in Egitto. Romanzo

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La fuga in Egitto. Romanzo

Informazioni su questo libro

Protagonista del romanzo è Giuseppe, maestro elementare ormai alle soglie della pensione, dopo quarant'anni di onorato servizio. Il figlio adottivo, ragazzo dall'indole avventurosa e selvaggia, scappato di casa diversi anni prima, si è stabilito da tempo in un paesino in riva all'Adriatico. La narrazione si apre con l'invito del figlio e di sua moglie a trasferirsi presso di loro, per cominciare una nuova vita insieme.
I ritmi familiari, assumono ben presto i contorni torbidi del peccato, e della colpa che lega Antonio, figlio di Giuseppe, e la serva di casa, Ornella, che darà alla luce un figlio.
Giuseppe, il cui animo è macchiato anch'esso da una colpa tremenda (è infatti responsabile del suicidio della moglie), affronta la situazione con delicatezza e cercando di proteggere con il suo affetto la nipotina.
In seguito a un litigio, Antonio caccia di casa Ornella, che si rifugia presso Giuseppe, il quale l'accoglie con sofferta indecisione.
Un romanzo sull'infelicità e la solitudine

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Informazioni

Anno
2019
eBook ISBN
9788831644716
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

GRAZIA DELEDDA

LA FUGA IN EGITTO

ROMANZO
1926
LA FUGA IN EGITTO

Dopo quaranta anni d’insegnamento nelle scuole elementari, il maestro Giuseppe De Nicola era andato a riposo e si disponeva a fare un viaggio.
L’antefatto è questo: in gioventù egli aveva adottato un ragazzo orfano, con la speranza di farne il suo successore nella scuola del paesetto natìo. Il ragazzo però preferiva la vita avventurosa: così gli era scappato di casa, e dopo tentati tutti i mestieri, da marinaio a facchino di porto, da cacciatore di camosci a guardia di dogana, aveva finito con l’incontrare e sposare la vedova di un padrone di barche, del quale l’eredità consisteva in una villa con strascico di vigne e poderi in riva all’Adriatico.
Trovato finalmente il posto che gli conveniva, il giovine mandò al padre adottivo un pacco di sigari, avanzo del turbinoso passato, chiamò col nome di lui, Giuseppina Nicola, la sua prima bambina, e infine lo invitò anche a nome della moglie ad andare ad abitare con loro.
E il maestro, laggiù nel paesetto umido sperduto tra valli e montagne, pensava a questa nuova famiglia, in questo sfondo favoloso di paesaggio marino, proponendosi di mettersi in viaggio, per andare a visitarla, come uno dei re Magi verso Betlemme: ma aveva paura della distanza, degli scioperi ferroviari allora frequenti, dei cinque trasbordi necessari per raggiungere quel paese di sogno.
Così passò qualche anno, finchè egli non andò in pensione: rimasto solo, senza più neppure la turbolenta e ingrata famiglia della scuola, si decise al grande viaggio: e partì davvero con gioia religiosa non priva però di un vago terrore.
Era il suo primo viaggio, quello, il suo viaggio di nozze con la vita: neppure il figlio giovinetto sfuggito al recinto delle mura domestiche in cerca di spazio e di fortuna, aveva fatto il transito così di volo fra la realtà e il sogno. La terra gli sfuggiva di sotto i piedi come il pavimento lucido di una sala da ballo, la natura gli danzava intorno spiegando e ripiegando i veli dei suoi paesaggi sempre diversi, e lo trascinava con sè, in alto sui monti fino a toccare le nuvole, e dentro i loro passaggi fumosi e neri come tubi di camino, e fuori nella vertigine azzurra dei torrenti, e giù per le verdi chine dove pare di rotolare nudi sull’erba fredda.
Egli stava aggrappato al finestrino del vagone, coi bambini in viaggio; e quando piombava il nero delle gallerie ritirava la testa per paura che un mostro vagante in quel mistero gliela stroncasse: al primo barlume la rimetteva fuori non curandosi se il vento del treno si divertiva a ballare con violenza fra i suoi capelli grigi e a riempirgli di fuliggine il naso.
Due giovani sposi allacciati accanto all’altro finestrino, guardavano uno negli occhi dell’altro la terra fuggente: egli non li invidiava; poichè tutti assieme andavano verso la stessa mèta.
Una prima delusione lo aspettava all’arrivo, quando nella piccola stazione, dove al fermarsi del treno i grandi pioppi ridenti s’inchinarono di qua e di là salutando i viaggiatori, non trovò nessuno.
Ebbe timore di essersi sbagliato: lui solo era sceso dal treno e questo già proseguiva fischiando, come fischiasse per lui; e la quiete delle vigne, nella improvvisa immobilità della terra, i cespugli che parevano carichi di farfalle addormentate, i fili stessi dell’erba che si piegavano sulle loro ombre lunghe e vive, gli davano uno stordimento di febbre. Fra tutto quel verde non si vede che il tetto rosso della stazione: uscito dalla stazione egli si ferma ad aspettare, dritto fra le sue due valigie come l’asta di una bilancia; ma davanti a lui non vede che un largo viale erboso con in fondo un grande uovo metà azzurro di mare e metà di cielo.
Sopra il viale fra due file di pioppi e di robinie che sembravano coppie di sposi, alti e slanciati i pioppi, basse e tondeggianti le robinie cariche di frangie scintillanti, il cielo è alto e chiaro ma di una tristezza indicibile, tanto più che non se ne spiega la ragione: è la tristezza delle grandi solitudini, che non è nell’aria ma nel cuore dell’uomo che guarda.
E l’uomo con le valigie ha l’impressione di essere sbarcato peggio che in una città sconfinata e sconosciuta, dove nessuno parla la sua lingua e se cammina dovrà camminare a lungo e arrivare solo ad una spiaggia deserta.
D’un tratto la nostalgia per la sua casetta lontana lo afferra: perchè ha lasciato la sua vecchia casa, il paese dove sono sepolti i suoi parenti, dove qualche amico lo aveva ancora?
Come i giovani e i deboli che non conoscono la gioia della solitudine, si è lasciato lusingare dall’azzurro delle lontananze; ed ha creduto di raccogliere solo il necessario per la sua vita in quelle due valigie il cui odore di cuoio nuovo rivela in chi le porta il viaggiatore novellino. Ma la vita si vendica; e quelle valigie adesso gli pesano come piene zeppe di tutto il suo passato.
E mai come adesso ha sentito la distanza insuperabile che lo divide da quella famiglia che infine non è la sua.
La famiglia è creata dall’uomo con l’essenza sua stessa, col suo seme, il suo sangue, il suo sudore: e fra lui e quell’altra famiglia esiste solo un legame sentimentale più fragile di un filo di ragno.
Tanto è vero che nessuno gli è venuto incontro.
Ma neppure pensò di tornare indietro, anzi si mise a camminare tranquillo per il lungo viale confortandosi subito con la speranza di poter il giorno dopo e poi accompagnare la sua alla solitudine di quella passeggiata serena.
– Saremo amici, buona strada; dopo tutto tu mi accogli bene; tu sola mi sei venuta incontro e mi fai compagnia.
La strada, infatti, si faceva sempre più buona con lui, molle di erba fine, e odorosa; nello sfondo delle arcate fra un albero e l’altro gli lasciava vedere i prati placidi con vacche bianche e neri cavalli al pascolo, e le case dei contadini ritinte di ocra e di rosa, le siepi fiorite e i pergolati lucenti: tutto laccato come nelle cartoline illustrate.
Dietro i tronchi degli alberi qualche fiore di genziana pareva lo aspettasse in agguato e oscillava al suo passare: e anche la voce tenue del mare adesso gli veniva incontro come quella di un amico, sebbene fra lui e il mare, del quale ancora non aveva conoscenza, esistesse un malinteso fatto di paura e di ripugnanza.
Da quel muro turchino, sempre più alto davanti a lui, si staccarono appunto le prime due figure umane che gli fecero sperare di non essersi smarrito, o almeno di aiutarlo a trovare la via giusta; tanto più che gli venivano incontro guardando le sue valigie come oggetti straordinari.
Allora affrettò il passo e il cuore gli si riempì di luce.
Forse era la sua nipotina la bambina bruna vestita di rosso che l’altra figura di giovine donna teneva per mano.
Era proprio la sua nipotina.
– È lei il signor maestro De Nicola? – domandò con voce maschia la donna, fermandosi marzialmente davanti a lui. – Suo figlio è dovuto partire d’improvviso per un affare urgente, e la moglie è a letto con la febbre che le viene ogni tre giorni. Saluta il tuo nonno, Ola. Mi dia le valigie.
Ola guardava dal basso il viso del nonno, dopo che i suoi occhi neri obliqui che sprizzavano raggi d’oro avevano risalita tutta la persona di lui assorbendone ogni particolare; e non pareva disposta a salutare, anzi si tirava indietro afferrando i lembi del suo vestitino; eppure in questo vestitino increspato che si allargava fra le sue mani come un papavero tolto dalla buccia, e nella piccola persona tesa, e sopra tutto nel viso dorato riverso in mezzo al fiore dei riccioli neri, vibrava un’offerta irresistibile.
E il nonno, lasciate andar giù le valigie come un peso ormai morto, la prese fra le braccia, la sentì calda e viva contro di lui; e quando i capelli di lei, che erano salati, e la sua guancia più liscia e morbida del velluto, gli sfiorarono la bocca, trasalì come a un contatto d’amore.
La donna intanto aveva preso le valigie e si avviava dondolandole come due borsette leggere; tanto era alta e ben costrutta: una giovine Giunone incoronata di treccie gialle.
Il maestro la seguì, col suo nuovo peso.
– Dunque tu ti chiami Ola: io lo sapevo da un pezzo. Ola….
Il dolce nome gli si scioglieva in bocca come un frutto di miele.
Ola si schermiva lievemente, ma si lasciava trasportare volentieri, senza cessare di guardarlo in viso con i suoi occhi mutevoli fatti di sole e di ombra: sguardo di studio, più che altro, che osservava le rughe di quel viso così vicino eppure così ignoto, i punti neri del naso, i capelli che si accompagnavano fitti uno bianco uno nero come il giorno e la notte; e penetrava nella bocca cercando di spiegarsi il mistero dei denti d’oro che vi si nascondevano in fondo come gli anelli della mamma nel cassettone. Ella taceva però, e alle molte domande di lui rispose infine evasivamente:
– Papà mi porta oggi un fucile.
– Un fucile? Ma i fucili sono per i maschi. Io invece sai che cosa ti ho portato? Una bella bambola.
– Le bambole ce le ho, – disse lei, accogliendo la notizia con indifferenza: poi puntò il ditino sulla spilla della cravatta di lui, già prima bene studiata, e gli occhi le brillarono di bramosia.
– Anche papà ce l’ha, con una perlina rossa, ma non me la vuol dare.
– Abbiamo capito: tu vorresti questa: ebbene, se te la dò tu cosa mi dài?
Ola abbassò la testa, la risollevò piano piano e lo baciò sulla guancia.
– Ah, birbona, sai già l’arte. Ebbene, la spilla è tua, ma te la darò quando saremo a casa.
Allora lei, rossa per la gioia, si abbandonò su di lui. E furono subito amici.
Quando arrivarono allo svolto del viale, poichè adesso si apriva una strada meno generosa, anzi un viottolo solcato dal passaggio dei carretti, la donna consigliò il maestro di metter giù la bambina.
– Quella lì, a lasciarla fare, profitta di tutto. Giù, Ola, chè il nonno è stanco.
– Anch’io sono stanca, – ella rispose con voce davvero di stanchezza. E non cessava di toccare il piccolo fiore della spilla: era questa che le premeva.
– Ancora un poco, – disse il nonno raccoglien...

Indice dei contenuti

  1. LA FUGA IN EGITTO
  2. Grazia Deledda
  3. LA FUGA IN EGITTO
  4. Note