Lord Byron. Saggio
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George Gordon Noel Byron, VI barone di Byron, meglio noto come Lord Byron RS (Londra, 22 gennaio 1788 – Missolungi, 19 aprile 1824), è stato un poeta e politico inglese.
Considerato da molti uno dei massimi poeti britannici, Byron è stato un uomo di spicco nella cultura del Regno Unito durante il secondo Romanticismo, del quale è stato l'esponente più rappresentativo insieme con John Keats e Percy Bysshe Shelley. ---------------- Arturo Farinelli (Intra, 30 marzo 1867 – Torino, 21 aprile 1948) è stato un critico letterario, germanista e accademico italiano.

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Informazioni

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George Gordon Byron


George Gordon Noel Byron, VI barone di Byron, meglio noto come Lord Byron RS (Londra, 22 gennaio 1788 – Missolungi, 19 aprile 1824), è stato un poeta e politico inglese.
Considerato da molti uno dei massimi poeti britannici, Byron è stato un uomo di spicco nella cultura del Regno Unito durante il secondo Romanticismo, del quale è stato l’esponente più rappresentativo insieme con John Keats e Percy Bysshe Shelley.
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Lord Byron


Quando Lord Byron venne a morte, tra le mille voci di rimpianto che si sollevarono qua e là per il mondo, si udì pur quella del massimo poeta de’ tempi, vegliardo fatto incerto ancora sugli ultimi destini e le esperienze che accordava al suo Faust – «La stella più fulgida di un secolo di poesia è tramontata» –. Spariva d’un tratto, e nell’anima restava lo stupore e lo sbigottimento. Quel ribelle, pieno di foga e di tumulto, se l’era stretto al cuore il poeta, tutto saggezza e divina calma e armonia; per un decennio l’aveva seguìto in ogni tappa; e perdonava, infinitamente più generoso per lui che per altri, l’eterna inquietudine e turbolenza, l’ipocondria insanabile, la vita dissipata e il tormento inflitto all’arte. Restava nel Lord, altero e eccentrico, non so che di primitivo e di barbaro, una natura sempre fuori del comune, l’audacia, la spavalderia, la grandezza («Grandiosität»). Sulle turbe spiccava una personalità vera e possente, quella personalità, in cui il Goethe vedeva il suggello del divino. Non lo potevano comprendere i filistei e i pedanti; lui, Goethe, doveva ammirarlo e compatirlo ad un tempo; e avvertiva il traviare e delirare inevitabile di tutti i giudizi sulla poesia byroniana, straziata e scissa, dominata dalla passione, e non mai sollevata sulla sua torbida marea; pensava al suo proprio «Sturm und Drang», all’ardenza sua di gioventù, che ritrovava nel poeta britannico. Il suo passato era sommerso, e sembrava rivivere nello spirito del compagno, lanciato a tutte le tempeste della vita.
Appunto questa natura «straordinaria», avvertita dal Goethe, e la passionalità eccessiva, l’attitudine eroica, destavano l’ammirazione nei contemporanei. I più equilibrati s’inchinavano al poeta squilibratissimo. Veramente, pareva che nulla di mediocre fosse in lui, e vincesse di statura i più grandi acclamati; le stranezze si ritennero meravigliose virtù; le violenze, audacia vera. Al fascino fatale di una poesia, tutta teatralità e foga declamatoria, apparsa tutta fiamma di sentimento e calore e vigore dell’immaginazione, pochissimi sapevano sottrarsi. Alle alture sue, dove posava solitario e cupo, chi mai poteva accedere? Una arcana forza era in quella poesia, di cui era follia volersi dar ragione; e si credeva risolvesse i misteri più profondi, e premesse nella mente i pensieri più gravi. Spontaneamente, lo Shelley confessava di trovare nel geniale amico una «poetical power», maggiore di quella concessa a lui per natura; celebrava come immortali i frammenti del Don Giovanni; vedeva sincerità e robustezza, dove noi, certo più gelidi nel giudizio, deploriamo la pompa e l’artifizio, quella robustezza, «the excellence of sincerity and strength», che pur vantava lo Swinburne. Possente la poesia, più possente l’uomo che la gettava da sè; «l’uomo soverchiava sempre l’artista», diceva di Lord Byron il Mazzini; «l’anima sua fu delle migliori che mai scendessero sulla terra». Così venivano man mano trasfigurandosi, sublimandosi, nel concetto dell’eroe vero, le sembianze del poeta idolatrato; e lo Shelley, che poteva testimoniare di tante dissolutezze e frenesie, diceva del Byron, nel ’21, ch’egli diventava ormai «a virtuous man».
I tempi portavano ad una esaltazione e passione fatale per il fosco poeta, che insorgeva, schiaffeggiando il mondo, maledicendo la vita e gli umani destini. Sappiamo gli spasimi, le tristezze, le irrequietudini e turbolenze dei romantici; e anche fuori della cerchia loro, ovunque era sfogo d’arte e di poesia, ritrovi il tormento delle anime sensibili, quel bisogno di trarre sospiri e lamenti, di avere in cuore una passione grande e cocente, la voluttà del dolore, il desiderio di un continuo stridere di procelle, la smania di accarezzarsi infelici e tristi, di gridare al mondo l’irrimediabilità della propria sventura, e la poca pietà, la corruttela e nefandezza degli uomini, quel fuggire la calma, per pascersi del dubbio e dello strazio, e trovarsi soli, incompresi, quell’abbandonarsi al cupo, all’orrido, schivi di ogni serenità di cielo, paurosi di ogni armonia e pacatezza dell’anima, il cullarsi nel vago e nell’indeterminato, e il fare di tutto mistero e un grande enigma, un regno di tenebre e di ombre. Le malattie dello spirito erano care e ricercate, e dovevano coltivarsi con amorosa cura, perchè non scemassero o illanguidissero. L’eroe byroniano non sentenziava da folle: «The best of life is but intoxication».
Ai soliloqui dell’anima, perpetuamente agitata e triste, bisognava rispondesse una natura, piena pur essa di tumulto e di mistero: un mare in fremiti, dirupi e antri selvaggi, foreste urlanti al vento, torrenti che precipitano, il ghiaccio delle vette più alte. Le grandi solitudini si popolano, e mormorano al mormorare e imprecare dell’uomo e al suo chiassoso espandersi e declamare. Si fugge dal silenzio e dal raccoglimento intimo, per abbandonarsi a tutti i fremiti del cuore, a tutte le tempeste scatenate. Quella passionalità, ruggente e indomabile, aveva l’aria di gran forza, di una energia spirituale insolita, riconosciuta anche da un delicatissimo poeta come il Grillparzer, che chiamava Lord Byron il vero «poeta del sentimento», araldo de’ tempi nuovi. Al fondo dell’anima dei più tormentati e scissi restava cert’acredine, lo spasimo del dubbio, l’amarezza del disinganno. Le blandizie e soavità del canto irritavano; occorreva una Musa forte e selvaggia, una lira che vibrasse gli accordi più disperati. La violenza byroniana era ritenuta grandezza dal Guerrazzi; il Niagara, le Alpi, i Vulcani, le tempeste che infuriano, il fulmine che scoppia non producono lo sbigottimento provato dalla contemplazione di quella poesia nuova, appena presentita dal Guerrazzi, vibrata, diceva, da un’«anima immensa». Ben poteva chiamare «perfido» Alfred de Vigny l’incanto patito dall’arte byroniana, e riconoscere la profonda tristezza che restava nei cuori; dall’attrazione fatale appena riuscì a liberarsi. E al «concerto selvaggio», alla «sauvage harmonie» dei canti del Lord misterioso s’inebriava il De Musset quanto il Lamartine e la Sand. La seduzione operava dovunque; e si sospiravano le passioni tumultuose, i dissidi più stridenti, le ambascie più cupe del cuore, le voluttà più capricciose e folli, per assaporarne il disgusto, dopo l’effimero piacere. Più è offuscata la luce, più si addensano le tenebre, e più alletta il torbidume di vita, e si ricerca l’arte che bizzarramente lo specchia.
Nè può stupire che più del Faust stesso soggiogassero i lugubri canti del Manfred; e si amasse il turbamento che dava al cuore quel «caos spaventevole di luce e di tenebre», quella «mescolanza di coscienza e di fango, di passioni cocenti e di pensieri altissimi, in lotta fra di loro, senza scopo e senza armonia». «Shall my soul be upon thine – With a power and with a sign!». Non come tirannide, ma come necessaria disciplina dell’anima subivasi il magico potere. E sembrava che, con quella guida, con l’oppio somministrato, e le scosse e le vertigini, si uscisse dai torpori temuti dell’immaginazione. Gli sdegni e le invettive del ribelle si vantavano come magnanimità; la segregazione altera come eroica fermezza, il barocchismo delle idee come sublimità. Angelo o demonio, disceso dal cielo, venuto su dai più focosi e bassi inferni, la figura del poeta usciva dalle sfere comuni; non lo comprendevano le turbe; bisognava l’avvicinassero gli eletti. Anche il Foscolo riconosceva in lui «il cuore veemente del genio»; e lo ricercò e lo ammirò un tempo il Leopardi, che ci ha pur lasciato il più accorto giudizio sulla poesia byroniana, tutta fremiti e disarmonie e smarrimenti; pure a lui Lord Byron era apparso «uno dei pochi poeti degni del secolo, delle anime sensitive e calde».
Come un gran turbine, che trascinava con sè, irresistibilmente, gli spiriti, questa gran voga cessò; e si sedarono gli animi; non apparvero più desiderabili i grandi sbigottimenti, le infermità, le stranezze, il cupo avvolgersi nelle ombre e nei misteri. Muto restava l’«apostolo del dubbio e del dolore». Il culto per Lord Byron, conservato da alcuni religiosissimamente nel cuore, era un delirio del passato; nuovi tempi spronavano a nuove conquiste, nuovi amori e predilezioni; e il poeta delle esuberanze folli disparve, come disciolto nel nulla, simboleggiato dall’Euphorion goethiano, «gesellt zu Starken, Freien, Kühnen», che si spinge frenetico nel cielo, e si annienta nel volo audace.
La voce del «grande Napoleone dei regni della poesia» perdevasi ai venti ed echeggiava nel deserto. Bisognava fare giustizia di tante aberrazioni commesse, di una passione fatale e travolgente, non domata per troppi anni; e si piegò il giudizio al biasimo, ad una condanna decisiva. Ritenere ancora poesia verace la declamazione byroniana – quale stoltizia! – Non era teatrale ogni gesto del Lord, ribelle e altero? Quei suoi drammi, i quadri della vita più convulsa e torbida, non si risolvevano in scenografie pazzesche, elementari e fantastiche, come i libretti d’opera più graditi al volgo? E dove è arte in quel lusso abbagliante d’immagini, la decorazione orientale, ostinatamente trascelta e pomposamente sfoggiata? Potrà farsi poesia di un’enfasi perpetua, di un ragionare disperato, di un’ironia, che sempre consuma e dissolve? Avviati così alla negazione, l’arrestarsi è impossibile: il biasimo si inasprisce per necessità; e tutto si oscura e si annerisce. L’opera intera di Lord Byron appare uscita dalle sregolatezze più dementi, dai baccanali e le orgie. Goethe prevedeva gli eccessi della critica, e vedeva il suo protetto, poeta «senza pari», in balia di una «kaum gerechte und billige Beurtheilung». Davvero dovrà degenerare in caricatura il nostro giudizio? Un duce degli spiriti per molti decenni, che determinò nel mondo intero una moda di poesia, seguìta anche dagl’ingegni maggiori, non aveva veramente nè fantasia, nè genio, nessuna facoltà di plasmare e creare e ritrarre la vita? Riconosciamo che questo poeta, che fantasticò con fede così scarsa sugli eterni destini dell’uomo e gli arcani dell’universo, appena offre versi incisi per l’eternità, e non si aggiunge al coro dei sommi, presenti a noi sempre, ad ogni corrente di vita e di pensiero: Omero, Dante, Shakespeare, Cervantes, Goethe; non ci solleva alla contemplazione dei cieli; ci lacera le ferite del cuore, invece di medicarle; ma egli deve aver pure avuto in sè qualche scintilla divina accesa; non gli negò natura il dono di sviluppare intera una forte personalità, esprimendo il suo gran tedio e il suo dolore.
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Quello che più colpisce in Lord Byron è il suo voluttuoso immergersi nella passione che ad ora ad ora lo domina, e il trascinare nell’arte tutti i suoi turbini del cuore. Non definì egli, nel Don Giovanni, la poesia come respiro di passione, tumulto, ruggito di tempesta? La sorte, benigna ai suoi capricci, gli largì a dovizia sentimenti impetuosi e irrefrenabili, lo addestrò alla lotta, alla ribellione, alla sfida; gli creò gli uragani violenti, per animarlo e sconvolgerlo e straziarlo a piacere. Porsi al disopra della lotta e d’ogni torbida agitazione; creare, come Shakespeare e Goethe e tutti i sommi facevano, solo quando le passioni erano placate, e dome le furie, e si quetavano le onde del mare tempestoso della vita, non era nella natura del Lord Britannico. Considerava languore quello che, in verità, era forza di dominio; l’abbandonarsi a tutti gli inferni del cuore era per lui coraggio, vittoria, disposizione unica per affermarsi poeta. Trasportati da un demone eterno, gli eroi byroniani muovono talora un lamento per l’incapacità di dar freno alla loro natura irruente («untaught in youth my heart to tame» – Childe Harold; «I could not tame my nature down» – Manfred); ma quetarsi sarebbe accrescere in loro l’infelicità e la tristezza; bisognava che sempre tra fremiti scorresse quel suo sangue ch’egli dice del Mezzodì (To the river Po), che attizzasse quel fuoco interiore che lo consumava («the fire that on my bosom preys – is lone as some volcanic isle»), e lo mordessero bene le passioni, come serpenti annidati nell’anima sua («My passions were all living serpents… Twined like the gorgons round me» – Werner. È dolore vero, insopportabile tortura, l’ambascia del cuore, a cui dicesi in preda...

Indice dei contenuti

  1. LORD BYRON
  2. Arturo Farinelli
  3. George Gordon Byron
  4. Note