Nota sul paesaggio (1)
Ripensando a Nusfjord, alla visuale che si cela nel fondo del fiordo, di cui ho scritto in una nota precedente, ho fatto alcune riflessioni.
E' difficile da spiegare: ho involontariamente descritto il paesaggio stesso come se fosse un quadro.
Di solito, quando componi un quadro, studi degli equilibri visivi. Poi certi effetti. La montagna grande, immensa. Quest'altro scoglio piccolo.
A Nusfjord tutto è già così. Di suo. Come un quadro. Meglio di un quadro.
Ci sono paesaggi che sembrano possedere le caratteristiche degne dei migliori dipinti.
E' per questo che li definiamo pittoreschi. Pensiamo a Goethe. Che era attratto da tutto ciò che vedeva di immenso, sublime, gigantesco. E anche immensamente lirico. Un paesaggio che sembra voler ispirare poesia.
O che, forse, contiene esso stesso poesia. Chissà.
Questa poesia è insita nel paesaggio? O è l'uomo che la guarda che gliela attribuisce? La bellezza è negli occhi di chi guarda.
Eppure, certi paesaggi posseggono qualcosa di stregato.
Anche se ne nessuno mai li guardasse, sarebbero lo stesso così immensi, così giganteschi. Sproporzionati, anche. Fuori scala. Essere dei giganti a volte rende speciali. Un difetto è anche il più grande dei pregi.
Ci piacciono dei paesaggi che ci ricordano casa, che ci risultano familiari, e sono uguali a cento altri.
Altri, invece, ci catturano perché sono diversi da tutto.
Esiste una dimensione di qualità propria del paesaggio?
Allora tento un approccio: se un paesaggio è diverso da tutti, se è unico, si segnala da sé. Quindi possiede caratteristiche uniche, eccezionali. Non è più buono o più cattivo, ma ha dei tratti che suscitano, generalmente, certi effetti.
Un paesaggio familiare lo noti se possiede un carattere ben definito e riconoscibile. Se per esempio prendo un bel bosco, lo percorro, ma nel bosco incontro continuamente fabbriche, una, due, tre, allora non lo riconosco più come bosco, non è un bosco, non mi dà più l'impressione di esserlo. Magari sono due o tre alberi, sì, che ricordano un bosco, che lo evocano. Ma per fare un bosco, ci vuole il bosco.
I paesaggi che incontriamo dalle nostre parti spesso non hanno più una riconoscibilità, né un tratto distintivo, né un carattere definito.
Se la natura è troppo contaminata, perde parte del suo fascino.
Ma anche una città come New York credo che sia bella, a modo suo. Perché è tutta grattacieli. Una distesa infinita. Ha un carattere, appunto.
Nota sul paesaggio (2)
La buona architettura, come ho detto, per me possiede meriti qualitativi che vanno molto aldilà della mera bellezza estetica: funzionalità, utilità, istanze morali, umanità.
Ma il paesaggio? Per quali qualità si può definire migliore di un altro?
E' chiaro che non esistono paesaggi eticamente più elevati di altri, questo no, questo non si può dire.
Ci ho riflettuto, e sono arrivato alla conclusione che un paesaggio per colpirmi deve essere innanzitutto riconoscibile. Con questo intendo dire che deve avere dei caratteri ben definiti. Un bosco, per essere un bosco, deve comprendere una bella distesa ininterrotta di alberi. Se è continuamente interrotto da fabbriche, case, magazzini, parcheggi, allora non è un più un bosco. Possiamo parlare di alberi sparsi qua e là, case, fabbriche. Ma non di bosco. Un luogo così diventa difficile da raccontare, persino da definire. E' un luogo meticcio, senza un nome, spesso difficile da rammentare. E' un luogo che, come si dice, non è né carne né pesce.
Quindi, di un paesaggio, non posso dire è buono o cattivo, ma posso attribuirgli un certo carattere, questo sì. Dico attribuirgli, sperando che non si offenda, il paesaggio intendo, perché non riesco a pensarlo come non vivo, a non ritenerlo un essere umano. Fatto di roccia e sassi ma comunque pregno di esistenza, sebbene apparentemente fermo, immobile, da millenni.
Qual è l'esatto confine che definisce la vita? E' possibile stabilirlo?
Cosa distingue un microorganismo, tipo un batterio, da una roccia?
Non è la roccia forse piena di venature, forme e disegni di incredibile ricchezza? Non è frutto dell'intreccio di più minerali e composti?
Il paesaggio a volte possiede dei tratti fortemente marcati. Addirittura appare vivo, pulsante.
Pur impercettibilmente.
Penso agli innumerevoli paesaggi della mia vita. Alcuni sono calmi, rilassanti, come il mare di una baia. Altri infiniti, come gli oceani. Altri minacciosi, come i mari negli stretti, segnati dal vento, scatenati, infernali.
Le montagne possono essere “dolci”, quando sono basse arrotondate e lasciano lo spazio all'orizzonte, come in certe coste dell'Islanda. O possono essere sublimi e terrificanti, quando sono irte ed appuntite e dominano strettissimi fiordi, schiacciandoci con le loro ombre scure. Come certe montagne delle Isole Lofoten.
Nusfjord
Come è strano questo borgo. E' come se dietro le cose, nascondesse altre cose. Avverto un senso di mistero. Profondo. Antico.
C'è un forno, che è anche panetteria e caffè. Risale al milleottocentosettantasette, ed è rimasto esattamente come allora.
Vecchie signore, del posto, si siedono a chiacchierare su una vecchia panca di legno. La schiena appoggiata direttamente alla parete rovente del forno, mentre fuori piove a catinelle. Dentro, il caldo. Fuori, un freddo cane.
Dentro, fin troppo caldo. Bisogna spogliarsi di tutto, e ancora non si resiste. Si crepa di caldo, ma le signore persistono, come immuni, coperte di abiti di spessa lana. Non so come facciano.
Ho detto che chiacchierano. Ho mentito. Osservandole per qualche minuto, mi sono reso conto che fanno solo finta di muovere la bocca. Stanno lì, contro la parete, zitte, per un lungo lasso di tempo. Sorseggiando qualcosa da una tazza. Forse un infuso di erbe.
Si scambiano sguardi, espressioni. Ascoltano, scrutano gli altri, i visitatori. Ogni tanto qualcuna pronuncia una parola breve, in dialetto, come un suono, secco e gutturale.
Non ridono, ma forse parlano di noi. Commentano.
In paese non c'è molto altro. Si siedono qui e parlano di tutto. Questa è la loro vita, la loro giornata. Tutto il loro tempo libero è qui, a scambiarsi storie. In silenzio, poche parole.
Sono sintetici, quelli delle Lofoten. E a volte non è malaccio, come cosa.
Ho sempre più nettamente la sensazione che tutto sia rimasto all'ottocento.
Non credo di essere mai tornato indietro nel tempo, finora. Almeno non così. La sensazione è davvero reale, palpabile.
É protestante, antico. Luterano, mormone, non so.
C'è una piccola piazza. Strana, quadrata. Sembra uscita direttamente da un quadro di Bruegel.
I gabbiani nidificano sulle finestre, su ogni davanzale. Sono a centinaia, riempiono le facciate, le imbrattano di escrementi.
Più dietro c'è un piccolo porto, rettangolare, con i rorbuer tutti intorno. Mai visto uno così, con una forma simile.
Mi trasmette una sensazione di internità. E' un esterno che è un interno. Intimo, protetto.
Il fiordo è riparato, nascosto dagli enormi scogli, invisibile dal mare aperto. Come ogni villaggio vichingo che si rispetti. Nascosto allo sguardo.
Ma il piccolo porto è ulteriormente dentro, dietro, più nascosto ancora, riparato.
E' tutto così preciso.
C'è qualcosa di tetro in tutto questo. I gabbiani che ti fissano a centinaia da ogni buco, le signore al forno che ti scrutano, il porto e la piazza, irreali. L'essere tornati indietro nel tempo. All'ottocento. Al medioevo.
Guardo ...