Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni
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Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni

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Il tempo della gioventù - Il '68 e dintorni

Informazioni su questo libro

È un romanzo di formazione che narra la storia dello sviluppo emotivo e culturale di un giovane studente-lavoratore meridionale e la realizzazione della sua vocazione.

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Informazioni

Anno
2020
Print ISBN
9788831662062
eBook ISBN
9788831664936
Argomento
Didattica

IX

I gior­ni e le set­ti­ma­ne pas­sa­va­no e Car­lo pen­sa­va con ti­mo­re: quan­do fi­ni­rà que­sto scio­pe­ro; quan­do pos­so es­se­re in gra­do di so­ste­ne­re gli esa­mi; quan­do po­trò an­da­re via da que­sta cit­tà che ha da­to l’ani­ma al caos. Era so­praf­fat­to dal­la sen­sa­zio­ne che que­gli av­ve­ni­men­ti com­plot­tas­se­ro con­tro i suoi pro­get­ti. En­tro il ’69 si do­ve­va lau­rea­re. Era an­sio­so di ri­tor­na­re a ca­sa e d’in­se­gna­re. Com’era vo­la­to via il tem­po! Il 1965 gli sem­brò lon­ta­no; era­no pas­sa­ti tre an­ni sen­za ac­cor­ger­se­ne, co­me quan­do si bat­to­no le pal­pe­bre. Qual­cu­no bus­sò al­la por­ta.
«Chi è?» Chie­se Car­lo.
«Po­li­zia!.» Se­guì una ri­sa­ta.
Ri­co­nob­be le vo­ci e aprì. En­tra­ro­no in or­di­ne En­nio, Ne­reo, Mau­ro e uno stu­den­te di me­di­ci­na, del­la pro­vin­cia di Ro­ma, che a quan­to si di­ce­va in gi­ro non stu­dia­va tan­to, e tra­scor­re­va il tem­po a cor­re­re die­tro al­le ra­gaz­ze e in ca­sa a leg­ge­re o a pro­iet­ta­re ma­te­ria­le por­no­gra­fi­co o a or­ga­niz­za­re fe­sti­ni. Un ve­ro vi­tel­lo­ne, un rap­pre­sen­tan­te del­la nuo­va bor­ghe­sia in­tel­let­tua­le; un fi­glio di quei ge­ni­to­ri che por­ta­no in ca­sa quat­tri­ni non su­da­ti, di­ce­va­no i ma­li­gni com­pa­gni.
«Sem­pre più ri­lut­tan­te a la­scia­re la tua ta­na» sbot­tò En­nio ap­pe­na mi­se pie­de nel­la stan­za.
«Ai mer­ca­ti non si sta se­du­ti, né si scio­pe­ra» di ri­man­do se­rio Car­lo. Si se­det­te sul­la spon­da del let­to.
En­nio fe­ce «Ah!».
«Che schi­fo, tu in tut­to quel mar­ciu­me!» Escla­mò il vi­tel­lo­ne.
Ne­reo s’in­cu­pì, ave­va let­to sul vol­to dell’ami­co i se­gni del­la vi­ta du­ra che con­du­ce­va. Car­lo ave­va gli oc­chi cer­chia­ti da un blu in­ten­so, la pel­le del vi­so ti­ra­ta e pal­li­da, ru­ghe pro­fon­de sol­ca­va­no la fron­te, se­gni di chi cer­ca di com­pren­de­re i pro­pri pro­ble­mi esi­sten­zia­li e non rie­sce che a per­ce­pir­ne la pro­pria im­po­ten­za.
Ci fu una pau­sa. En­nio esor­dì:
«Ie­ri il ret­to­re ha det­to che, se en­tro le die­ci di og­gi non sgom­bria­mo le au­le oc­cu­pa­te, chie­de­rà l’in­ter­ven­to del­le for­ze dell’or­di­ne. Noi non dob­bia­mo per­met­te­re al­la po­li­zia di en­tra­re nell’uni­ver­si­tà, sa­reb­be una pro­fa­na­zio­ne. Con i com­pa­gni del co­mi­ta­to ci sia­mo in­con­tra­ti per di­ver­se vol­te ie­ri se­ra; ab­bia­mo di­scus­so del pro­ble­ma si­no al­le due e ab­bia­mo con­clu­so che non con­se­gne­re­mo, sic et sim­pli­ci­ter, l’uni­ver­si­tà nel­le ma­ni dei ser­vi del­lo sta­to. Sei d’ac­cor­do?» Chie­se a Car­lo.
Car­lo mos­se la te­sta in sen­so af­fer­ma­ti­vo. Vo­le­va ag­giun­ge­re qual­co­sa, ma in­ter­ven­ne il vi­tel­lo­ne.
«Ci sia­mo spac­ca­ti le os­sa a dor­mi­re per ter­ra e ro­vi­na­ti lo sto­ma­co a man­gia­re pa­ni­ni per ol­tre un me­se; per che co­sa? Sa­reb­be una ve­ra vi­gliac­ca­ta se...».
Il vi­tel­lo­ne par­la­va , e par­la­va be­ne an­che. Car­lo, pe­rò, pen­sa­va ai pro­get­ti che ave­va pas­sa­to in ras­se­gna tut­to il gior­no. La mat­ti­na­ta l’avreb­be tra­scor­sa stu­dian­do; nel po­me­rig­gio avreb­be fat­to una lun­ga pas­seg­gia­ta con Lau­ra. De­si­de­rò d’es­ser­le ac­can­to, se­du­to su di una pan­chi­na del giar­di­net­to con il cam­po di boc­ce e di­scu­te­re di pro­get­ti per il lo­ro fu­tu­ro, sen­za pre­oc­cu­pa­zio­ni del pre­sen­te.
In quel mo­men­to la sua at­ten­zio­ne era per Lau­ra. I com­pa­gni?
Sic­co­me l’ar­rin­ga del vi­tel­lo­ne con­ti­nua­va, En­nio os­ser­vò con spi­glia­tez­za: «Fa­re­sti me­glio a stu­dia­re giu­ri­spru­den­za; man­nag­gia, quan­to chiac­chie­ri!».
Fi­nal­men­te quel­lo tac­que. I pre­sen­ti si guar­da­ro­no in mo­do in­ter­ro­ga­ti­vo.
«So­no le no­ve e die­ci» no­tò con per­ples­si­tà En­nio. «Non vo­glio per­der­mi il fi­na­le del­lo spet­ta­co­lo; e tu?».
Car­lo ta­ce­va; pen­sa­va ad al­tro.
«Non lo for­za­re» in­ter­ven­ne Ne­reo, «se non ha l’ani­mo pre­di­spo­sto»
«Ven­go con voi» in­ter­ven­ne Car­lo.
Si al­zò. Un gio­va­ne mo­der­no può ne­ga­re le pro­prie emo­zio­ni, nep­pu­re gli im­pe­gni pro­gram­ma­ti in pre­ce­den­za. Car­lo era stan­co e sfi­du­cia­to; non pen­sa­va ad al­tro che al­la fi­ne di tut­to, que­sto è ve­ro, ma né po­te­va tra­di­re la fi­du­cia ri­po­sta in lui dai com­pa­gni di lot­ta, an­che se que­sti non co­no­sce­va­no il su­do­re che fa­ce­va at­tac­ca­re la stof­fa sul­la pel­le, non ave­va­no mai vi­sto al­beg­gia­re por­tan­do sul­le spal­le pe­si di tren­ta chi­li, non con­trol­la­va­no con­ti­nua­men­te il de­na­ro cu­sto­di­to in fon­do al­le ta­sche. Per lo­ro tut­to era pos­si­bi­le, tut­to si po­te­va cam­bia­re an­che le isti­tu­zio­ni pub­bli­che.
Giac­ché non vi fu­ro­no del­le obie­zio­ni, an­da­ro­no via. Per stra­da si con­ti­nuò a par­la­re del me­de­si­mo ar­go­men­to. Il vi­tel­lo­ne, ge­sti­co­lan­do di­ce­va che non si po­te­va pren­de­re nul­la dal­la co­mu­ni­tà se non si al­lun­ga­va­no le ma­ni. En­nio af­fer­ma­va che le nuo­ve idee per una mo­der­na so­cie­tà do­ve­va­no na­sce­re dal­le con­te­sta­zio­ni gio­va­ni­li e non più sui ban­chi del­le scuo­le né dai li­bri pro­dot­ti dal­la cul­tu­ra do­mi­nan­te. Se il po­po­lo riu­scis­se a ca­pi­re que­sto mec­ca­ni­smo si avreb­be una svol­ta de­ci­si­va nel­la sto­ria.
Pa­ro­le, bel­le pa­ro­le, che re­sta­va­no so­spe­se là, nel­le lo­ro go­le, co­me bol­le di spu­man­te. La sto­ria, il po­po­lo, pen­sa­va tra sé Car­lo, que­sti ra­gaz­zi han­no di­men­ti­ca­to che il po­te­re è nel­le ma­ni dei po­ten­ti di tur­no. Que­sti sog­get­ti si ri­pro­du­co­no an­che e più nu­me­ro­si dei pre­ce­den­ti do­po ogni ri­vo­lu­zio­ne so­cia­le. Il cit­ta­di­no non im­pa­ra que­sta le­zio­ne. Egli è e ri­ma­ne un nu­me­ro, un si­gnor nes­su­no. D’al­tron­de, si sa che nem­me­no una Di­vi­ni­tà fol­le po­treb­be cam­bia­re un ope­ra­io in un fi­nan­zie­re, un per­di­tem­po in uno scrit­to­re, un pre­po­ten­te in un si­gno­re edu­ca­to e ri­spet­to­so dei di­rit­ti uma­ni, una mas­sa sot­to­mes­sa in una pro­ta­go­ni­sta.
Al­lo­ra a co­sa ser­ve gri­da­re, pro­te­sta­re in que­sto mon­do di sor­di? A chi co­man­da oc­cor­re un eser­ci­to di ob­be­dien­ti, non la gen­te che pen­sa. Que­sta nu­vo­la gri­gia di pen­sie­ri Car­lo se la sen­ti­va sci­vo­la­re sul suo es­se­re e gli im­mo­bi­liz­za­va la men­te.
«Tut­to ciò che vo­glia­mo è scioc­ca­re la so­cie­tà, che si è ad­dor­men­ta­ta sui fal­si bi­so­gni in­ven­ta­ti dal ca­pi­ta­li­smo» di­ce­va En­nio.
«Bi­so­gna es­se­re ubria­chi o alie­na­ti per con­ti­nua­re a par­te­ci­pa­re al­le or­ge of­fer­te da que­sta so­cie­tà. Non ve ne ac­cor­ge­te che non dan­no nes­su­na sod­di­sfa­zio­ne?» As­se­ri­va Ne­reo.
«In­tan­to la gen­te è mor­bo­sa­men­te cu­rio­sa; vuo­le pro­va­re tut­to. È cer­ta che da qual­che par­te ci so­no del­le emo­zio­ni, dei pia­ce­ri da sco­pri­re» in­ter­ve­ni­va il vi­tel­lo­ne.
«Co­sa ac­ca­dreb­be se la po­li­zia ir­rom­pes­se nell’uni­ver­si­tà?» Chie­se un gio­va­ne, dal vi­so da bam­bi­no, smil­zo e bas­so, che si era uni­to al grup­po per la via.
En­nio si fer­mò e si don­do­lò sul­le gam­be.
«Che pro­vi! Le ab­bia­mo pre­pa­ra­to una sor­pre­sa». Gli luc­ci­ca­va­no gli oc­chi dal­la gio­ia.
A que­sto pun­to, Car­lo pen­sò al­la teo­ria dell’eter­no ri­tor­no di Nie­tzsche. C’era un si­cu­ro nes­so tra gli idea­li ri­vo­lu­zio­na­ri de­gli stu­den­ti e quel­li dei car­bo­na­ri del no­stro Ri­sor­gi­men­to: si ri­pe­te­va la lot­ta al­la ri­cer­ca di una pro­pria iden­ti­tà so­cia­le.
Que­sto pen­sie­ro pas­sò su­bi­to, can­cel­la­to dal­la sua li­be­ra scel­ta di par­te­ci­pa­re al­la pro­te­sta stu­den­te­sca, e quin­di ora do­ve­va ac­cet­ta­re an­che lo scon­tro fi­si­co.
«Qual è la sor­pre­sa?» Dis­se cu­rio­so Car­lo.
En­nio si ac­co­stò all’ami­co, lo fis­sò con gli oc­chi pie­ni di mi­ste­ri co­me per dir­gli: com­pa­gno, tu non co­no­sci la guer­ri­glia ur­ba­na.
«Le mo­lo­tov» gli sus­sur­rò all’orec­chio.
«Le mo­lo­tov!» Ri­pe­té in­ge­nua­men­te Car­lo.
«Per­dio!!» Escla­mò il vi­tel­lo­ne. «Il no­stro com­pa­gno non leg­ge i gior­na­li».
«Ss­s­ss..» Lo az­zit­tì En­nio.
Con pic­co­li ge­sti En­nio in­di­cò ai com­pa­gni grup­pi di agen­ti del­la po­li­zia, che si spo­sta­va­no da un an­go­lo a un al­tro del via­le, in­vian­do­si di con­ti­nuo a vi­cen­da ri­chia­mi con i me­ga­fo­ni, per non smar­rir­si in quel ma­ra­sma ge­ne­ra­le.
Gli stu­den­ti ave­va­no rag­giun­to il piaz­za­le dell’uni­ver­si­tà. Que­sto spiaz­zo era af­fol­la­to di gio­va­ni con i ber­ret­ti ca­la­ti sul vol­to. En­nio si li­sciò i ca­pel­li per ri­met­ter­li a po­sto, co­me se fos­se­ro scom­pi­glia­ti, e stril­lò: «An­dia­mo! Dob­bia­mo far pre­sto pri­ma che la po­li­zia bloc­chi le stra­de d’ac­ces­so».
Car­lo non riu­sci­va a stac­ca­re gli oc­chi da­gli uo­mi­ni in di­vi­sa, che gli cor­re­va­no ve­lo­ci da­van­ti al na­so.
«Sa­rà un af­fa­re se­rio pas­sa­re» dis­se a bas­sa vo­ce Car­lo.
Il suo vol­to espri­me­va la pre­oc­cu­pa­zio­ne di fu­tu­ri guai. En­nio fe­ce fin­ta di non sen­ti­re, ave­va già de­ci­so di an­da­re avan­ti; an­che gli al­tri era­no d’ac­cor­do. Pro­ce­det­te­ro. Si fer­ma­ro­no ac­can­to a un grup­po d’igna­re tu­ri­ste, al­cu­ne del­le qua­li era­no gras­se, con am­pi se­ni e fian­chi ab­bon­dan­ti, al­tre ma­gre, con sul­la te­sta cap­pel­li di pa­glia e av­vol­te in enor­mi scial­li co­lo­ra­ti. Af­fa­ti­ca­te per il lun­go cam­mi­na­re, le tu­ri­ste si era­no se­du­te su di una pan­chi­na, a po­chi pas­si dal­la pe­ri­co­lo­sa pol­ve­rie­ra, sen­za scar­pe ai pie­di e con la boc­ca aper­ta. I ra­gaz­zi ri­pre­se­ro ad avan­za­re pas­san­do a zig­zag tra gli al­be­ri e fa­cen­do­si scu­do l’un l’al­tro, co­me se l’om­bra del cor­po di chi pre­ce­de­va of­fris­se la ga­ran­zia di un si­cu­ro ri­fu­gio.
Nel piaz­za­le c’era un gran mo­vi­men­to. Gli ami­ci si fer­ma­ro­no die­tro un tron­co mae­sto­so e sbir­cia­ro­no in­tor­no in cer­ca di un pas­sag­gio. Que­st’av­vi­ci­na­men­to sta­va sve­glian­do il lo­ro en­tu­sia­smo di gio­va­ni guer­rie­ri. Lo ave­va vi­sto tan­te vol­te nei film di guer­ra; ora era ar­ri­va­to il lo­ro tur­no. Si sta­va­no com­por­tan­do mol­to be­ne, con pru­den­za e at­ten­zio­ne.
Ri­ma­ne­va­no a po­chi pas­si dal­la me­ta, se­ri e dif­fi­den­ti, e i pen­sie­ri pas­sa­va­no su di lo­ro sen­za la­scia­re trac­cia.
All’im­prov­vi­so, dal fon­do del via­le ar­ri­va­ro­no, con un ru­mo­re as­sor­dan­te, tre ca­mion, che si fer­ma­ro­no in mez­zo al via­le a po­ca di­stan­za dai gio­va­ni in at­te­sa. Ne di­sce­se una cin­quan­ti­na di agen­ti con scu­di di pla­sti­ca tra le brac­cia e sul ca­po un el­met­to con una vi­sie­ra lu­ci­da per pro­teg­ge­re il vol­to.
Uno di que­sti agen­ti, agi­tan­do­si co­me un for­sen­na­to, gri­da­va ai suoi col­le­ghi di pren­de­re po­si­zio­ne. Tra quel­li che già era­no pre­sen­ti e i nuo­vi po­li­ziot­ti ar­ri­va­ti si ge­ne­rò una mo­men­ta­nea ba­raon­da. Nei ra­gaz­zi, se­mi­na­sco­sti dal tron­co dell’al­be­ro, si ac­ce­se la spe­ran­za di at­tra­ver­sa­re in­den­ni lo sbar­ra­men­to del­la po­li­zia: quel­lo era il mo­men­to d’an­da­re o mai più. En­nio bat­té le ma­ni sul tron­co. Una gran­de agi­ta­zio­ne s’im­pa­dro­nì di tut­ti i gio­va­ni all’idea che fi­nal­men­te fos­se giun­to il mo­men­to.
«Sie­te pron­ti?» Esor­dì En­nio sen­za di­sto­glie­re lo sguar­do dal­la ma­rea di gen­te che scia­ma­va sot­to i suoi oc­chi.
La sua ca­pa­ci­tà di pren­de­re del­le de­ci­sio­ni ra­pi­de era sin­to­mo del­la sua ot­ti­ma pe­ri­zia di co­man­do e del suo buon equi­li­brio men­ta­le.
«Sì» ri­spo­se­ro in co­ro.
En­nio at­te­se an­co­ra qual­che se­con­do; nes­su­no fia­ta­va. Sul grup­po dei ra­gaz­zi era ca­du­to un ta­le si­len­zio che si sen­ti­va il rit­mo ac­ce­le­ra­to del lo­ro re­spi­ro an­sio­so.
In­tor­no aleg­gia­va un’aria di tre­men­da at­te­sa, che non ren­de­va ner­vo­si so­lo gli stu­den­ti; lo era­no an­che gli agen­ti del­la po­li­zia se­mi­na­ti un po’ do­vun­que. In gi­ro, quin­di, c’era aria di ba­ruf­fa.
«Via» gri­dò En­nio. Fe­ce un bal­zo, co­me un fe­li­no nell’at­to di af­fer­ra­re la pre­da.
In quei fran­gen­ti c’è sem­pre qual­cu­no che ha pau­ra, che può es­se­re in­dot­to ad ab­ban­do­na­re il cam­po; suc­ces­se tut­to il con­tra­rio. Al se­gna­le vo­la­ro­no via tut­ti, com­pat­ti co­me un sol cor­po. At­tra­ver­sa­ro­no di cor­sa il trat­to che li di­vi­de­va dal­lo spiaz­zo, tra due ali di agen­ti.
Per la fret­ta, per po­co Car­lo non fi­nì tra le brac­cia di un po­li­ziot­to al­to, gros­so e con le spal­le lar­ghe co­me un lot­ta­to­re, che gri­da­va:
«Fer­ma­te­vi do­ve an­da­te; non si può pas­sa­re!»
Car­lo lo schi­vò scar­tan­do­lo co­me un av­ver­sa­rio in una par­ti­ta di pal­lo­ne. Rag­giun­se­ro sen­za in­ci­den­ti l’as­sem­bra­men­to for­te di cir­ca due mi­la stu­den­ti. Si uni­ro­no, ben pre­sto, al bru­sio dei pre­sen­ti, che col pas­sa­re dei mi­nu­ti si sta­va tra­mu­tan­do in cla­mo­re. Gli stu­den­ti era­no di guar­dia all’in­gres­so dell’uni­ver­si­tà e ave­va­no la con­se­gna di non la­scia­re en­tra­re le for­ze dell’or­di­ne.
«Tut­to be­ne, com­pa­gni» chie­se ai nuo­vi ar­ri­va­ti un gio­va­not­to ro­bu­sto con gli oc­chia­li oscu­ri e bar­ba, al­to co­me un pa­lo, con sul ca­po un pas­sa­mon­ta­gna gri­gio ca­la­to fi­no so­pra le orec­chie e una fa­scia ros­sa in­tor­no al brac­cio.
At­te­se­ro il tem­po ne­ces­sa­rio per ri­pren­de­re fia­to. An­sa­va­no, per il gran cor­re­re. Do­po En­nio ti­rò fuo­ri la vo­ce: «Sì».
«Ve­ni­te dal via­le?» Lo in­ter­ro­gò.
En­nio gli fe­ce cen­no di sì con la te­sta.
«Vi so­no mol­ti po­li­ziot­ti».
«È stra­pie­no di agen­ti.»
L’af­fer­ma­zio­ne fe­ce cam­bia­re umo­re al­lo spi­lun­go­ne.
«Ba­star­di» com­men­tò a den­ti stret­ti.
Gi­rò lo sguar­do in­tor­no; chia­mò al­cu­ni col­le­ghi che ave­va­no la stes­sa fa­scia al brac­cio e co­mu­ni­cò la no­ti­zia ap­pe­na ap­pre­sa. Ci fu una spe­cie di con­sul­to di guer­ra; se­gui­ro­no gli or­di­ni. Quel­li con le fa­sce al brac­cio do­ve­va­no es­se­re i ca­pi del mo­vi­men­to. Que­sti nuo­vi ca­pi­ta­ni di ven­tu­ra non ave­va­no mai co­man­da­to un plo­to­ne di sol­da­ti; tut­ta­via, in qual­che mo­do sa­pe­va­no co­me si­ste­ma­re una bar­ri­ca­ta in ma­nie­ra che il pia­no di sbar­ra­re la via agli in­tru­si fun­zio­nas­se. Do­po tut­to un cer­vel­lo lo ave­va­no, an­che se lo usa­va­no al­la ma­nie­ra lo­ro.
In quel mo­men­to ar­ri­vò di gran car­rie­ra uno stu­den­te: ave­va le go­te ros­se, il vol­to co­per­to di su­do­re e il to­ra­ce si sol­le­va­va e si ab­bas­sa­va ra­pi­do con una fre­quen­za in­de­scri­vi­bi­le, se­gno che ave­va cor­so co­me una lo­co­mo­ti­va. Ri­pre­se ap­pe­na fia­to e ini­ziò a par­la­re.
«Com­pa­gni ci han­no cir­con­da­to, tut­te le stra­de so­no pie­ne di po­li­ziot­ti». Gri­da­va tal­men­te tan­to che Ne­reo sus­sur­rò all’orec­chio di Car­lo: «Sem­bra uno fuo­ri di sen­no».
«Cia­scu­no è mat­to al­la sua ma­nie­ra» fu il suo bre­ve com­me...

Indice dei contenuti

  1. I
  2. II
  3. III
  4. IV
  5. V
  6. VI
  7. VII
  8. VIII
  9. IX
  10. X
  11. XI