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Elena Zanella
Raccolta fondi
La buona causa non basta più. Bisogna essere bravi, tecnicamente bravi
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Introducendo
Prova a pensare al fundraising come una tazza piena di pennarelli colorati. I pennarelli rappresentano la creatività . La tazza è il contenitore all’interno del quale questi pennarelli sono collocati. La creatività lasciata libera ha una grande forza ma se orientata e organizzata è n volte più potente.
Il fundraising è questo: un processo creativo organizzato, gestito da creativi inquieti.
Fatta eccezione per quelle organizzazioni che hanno già assunto forme aziendalistiche in un’ottica organizzativa, il fundraising va declinato come approccio strategico che non può slegarsi da altri temi quali la comunicazione, il marketing, la lettura di un bilancio, la stesura di un progetto, la comprensione delle implicazioni in merito alla gestione della privacy, la valutazione degli impatti, la grafica.
Da qui, fundraising integrato appunto, termine con cui da qualche anno definisco questo approccio trasversale alla materia che prevede figure flessibili e curiose, non per forza multicompetenti ma certamente dotate di una visione ampia, pronte a mettersi in gioco e vogliose di investire sulla propria preparazione.
È percezione abbastanza comune che basti seguire un manuale di fundraising per sapere come fare per risolvere i tanti problemi legati alla raccolta fondi. Beh, non è così. Di libri ce ne sono tanti, tutti ugualmente validi; tutti più o meno simili; tutti che raccontano cosa funziona di più e cosa invece funziona meno.
Se pensiamo che basti adottare uno strumento di raccolta fondi per fare fundraising, abbiamo un problema. Fare fundraising è un processo lungo: chi ha fretta, sbaglia.
Di una cosa sono assolutamente convinta: finché avremo chiaro come fare ma meno chiaro cosa vale la pena davvero fare e perché, saremo sempre alla rincorsa di un equilibrio economico faticoso da raggiungere.
Questo libro nasce dalla volontà di mettere in ordine alcuni aspetti che stanno alla base della sostenibilità di un ente, ordine senza il quale i risultati sono effimeri e di breve durata.
Non è un libro di tecniche anche se, certo, si parlerà anche di queste nel corso delle pagine perché i suggerimenti su come agire nelle diverse situazioni saranno presenti. L’obiettivo principale che mi pongo è quello di aiutarti a porre il tema della raccolta fondi sotto la giusta prospettiva, spazzando via i pregiudizi e rivedendo alcuni preconcetti per aiutarti a costruire o ricostruire il tuo approccio alla sostenibilità su basi più solide, rendendo più semplice e duratura la raccolta delle risorse necessarie al raggiungimento degli obiettivi sociali del tuo ente nel medio/lungo periodo.
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Il problema di considerarsi impresa
Quanti sono gli enti di Terzo settore in Italia? Con questa prima domanda, sono solita introdurre in aula il tema del fundraising. Ancora mi sorprende riscontrare quanto questo dato sia sconosciuto a buona parte dei presenti.
Secondo il censimento permanente delle istituzioni nonprofit in Italia, nel 2017 gli enti attivi erano 350.492 – il 2,1% in più rispetto al 2016 –, impiegavano 844.775 dipendenti (+3,9%) e oltre 5 milioni e mezzo di volontari occupati a livelli diversi. Nel 2011 erano 301.191 unità . 10 anni prima erano 221.412 (estratto o risultati completi in nota). Registriamo quindi un + 58% rispetto a inizio millennio. Se guardiamo al fundraising e al mercato del dono di cui si approfondirà più avanti, a questi vanno aggiunti enti pubblici e pubbliche amministrazioni perché entrambe queste categorie possono concorrere a spartirsi l’interesse del donatore. Come per ogni professione, conoscere bene questi numeri come prima cosa è importante per comprendere il settore nel quale si opera, dimensioni e dinamiche. Il fundraising non fa eccezione. Se non conosci il mercato del dono e le logiche di Terzo settore, gli sforzi che intraprenderai saranno vani.
Un dato curioso e che fa riflettere è che in occasione del terzo censimento, quello del 2011, i questionari inviati dall’Istat all’indirizzo degli enti sono stati oltre 474mila. A meno di un mese dalla scadenza, solo il 37% degli interpellati aveva dato riscontro dimostrando un Terzo settore poco reattivo alle sollecitazioni istituzionali e, di fatto, obbligatorie.
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Davvero non facciamo impresa?
Come in un rush finale, all’indomani della scadenza, gli enti che risposero all’appello dell’Istat furono i 2/3 del totale. 170mila i grandi assenti. Dimenticanza o inconsapevolezza? Da tecnico e studiosa delle sue dinamiche, propendo per la seconda.
Il Terzo settore è un universo molto variegato e in questa varietà sta la sua complessità e ricchezza. Fino a oggi almeno, un’associazione di quartiere e una grande fondazione bancaria che finalizza il credito a favore del territorio in cui opera stanno sullo stesso piano. In questa complessità , però, competenze e capacità di una e dell’altra sono decisamente diverse, così come la cultura in materia.
L’idea di non essere impresa è più comune di quel che si pensi. Una percezione errata che nasce dalla visione distorta che essere impresa significa sostanzialmente fare profitto.
Con il tempo ho imparato che la buona fede gioca un ruolo importante nel nonprofit. Non si fa non perché non si vuole ma perché non si conosce o non lo si ritiene prioritario. La priorità è del progetto, il resto è secondario o comunque irrilevante.
Presto o tardi però si impara che onori e oneri vanno di pari passo e un ente senza scopo di lucro non è esente da impegni.
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