Capitolo 1 Rendere visibile l’invisibile
1.1 Influenze di tecniche e miti teatrali nel Novecento
Il Naturalismo ottocentesco, circoscritto dagli spazi chiusi dell’ambiente familiare in cui un’interminabile sequenza verbale pareva soffocare sia l’azione che l’intuito creativo dell’attore, il rovello delle problematiche esistenziali che logorava il personaggio, il flusso delle emozioni che non riusciva ad evadere dalla prigione interiore, hanno fatto della drammaturgia un fardello così pesante da schiacciare sia l’attività inventiva dell’attore che il piacere ricettivo dello spettatore.
Quell’atmosfera da salotto appare presto démodée, artificiale, piacevole solo per il decrepito pubblico della Belle Époque. La pantomima-arlecchinata ottocentesca oramai stereotipa e claudicante s’avvia sulla strada della pensione (1). In risposta a ciò, il Novecento tiene a battesimo un piano strategico mettendo in gioco nuove tecniche espressive per ritrovare l’identità del linguaggio teatrale. Alla vigilia della guerra si afferma la tendenza a rifiutare le vecchie convenzioni ed a promuovere la ricerca di nuove forme spettacolari più adatte a tradurre la realtà complessa del presente, ad analizzare la vera essenza del quotidiano, a considerare il valore intrinseco dell’esistenza (2). Il teatro di regia si fa strada, la pedana scenica diviene il luogo deputato per l’attore che si impegna a giocare la sua partita drammaturgica in un faccia a faccia decisivo con lo spettatore. I padri fondatori della messinscena sono per lo più grandi attori come Stanislavskij, Mejerchol’d o Craig, attori per vocazione come Artaud e Copeau; quest’ultimo giunge al laboratorio teatrale dopo un prezioso lavoro critico-letterario (3). Alle origini del teatro contemporaneo troneggia il mito della Commedia dell’Arte in cui il materiale da convogliare nell’edificio scenico è nelle mani dell’artista. Il talento dell’attore si misura con la continua ricerca dell’ignoto nello spazio del teatro, con la sperimentazione, con l’improvvisazione (4). Nel considerare la tecnica dell’improvvisazione, il più fecondo elemento formativo dell’attore Sergio Colomba afferma che “l’improvvisazione consente all’attore di costruirsi materiali espressivi e presenza; diventa stadio imprescindibile del processo creativo, ricerca di ciò che non si conosce “(5). A questo proposito Marco De Marinis parlerà giustamente di riteatralizzazione del Teatro (6). La Commedia dell’Arte e l’improvvisazione sono le basi su cui poggia la tecnica dell’attore del Novecento. Anche nella nuova drammaturgia si scorgono tipi fissi che appartengono alla cultura di oggi e di sempre, necessari capri espiatori partoriti dalla comunità sociale.
Al tramonto dell’Ottocento si espande il genere comico, prende piede il Music-hall, il vaudeville, alla ricerca del burlesco e della parodia.
Dalla sfera sociale si staccano tipi vicini alle maschere dell’Arte ma con una psicologia ed una coerenza ideologica reali. Si vengono via via a costituire individui comuni, buffi nei tratti e nelle movenze.
Il Théâtre de la Foire ne rappresenta un passaggio fondamentale, con il suo gioco scanzonato che prende le distanze da quello delle maschere legato invece agli archetipi.
Il commediografo Alain-René Lesage è considerato l’ufficiale iniziatore del genere vaudeville poiché si trova nel mezzo tra la Foire e i Comici dell’Arte (7). Guardando in avanti, oltre il più garbato romanticismo di Eugène Scribe - che, per dirla con Vito Pandolfi, sembra ripercorrere la strada di Goldoni (8) - scavalcando poi la raffinatezza dandy di Eugène Labiche (9) che sposta lo sguardo dalla classe aristocratica a quella borghese, appare, nello specchio parigino della Belle Époque, l’immagine di George Feydeau (10) che regalerà al vaudeville un abito nuovo. Nelle sue commedie in tre atti inserirà, tra la farsa e il gioco, una beffarda ironia da pochade (11). “Il vaudeville di Feydeau celebra i fasti dei crepacci che si aprono, l’allegria della distruzione: in essa si sprofonda volentieri” afferma Vito Pandolfi che dedica al teatro drammatico due prestigiosi volumi (12).
E rivela poi la vera identità del vaudeville: “Quel che la Commedia dell’Arte deve a Plauto, il vaudeville deve alla Commedia dell’Arte: l’impianto scenico e l’effetto comico” (13).
Secondo Gordon Craig:
“[…] La Commedia dell’Arte fu polemica contro il teatro di parola a favore del teatro basato sulla visione dello spettacolo e del professionismo degli attori capaci di costruire con le loro variazioni su tema, uno spettacolo […]”(14).
Nasce infatti il fenomeno della vedette, prima tra tutte Sarah Bernhardt, che prende il posto dello spirito di équipe che aveva gonfiato il cuore alle precedenti compagnie teatrali. Sulla tecnica dell’improvvisazione, che deriva oltre che dalla commedia all’italiana anche dalle discipline orientali, trova le sue radici tutto il teatro del Novecento, la grammatica del corpo quale strumento capace di rappresentare anche le emozioni (15). Nasce il teatro del “protagonista” che si divincola dalle righe testuali, spolvera gli abiti consunti tra le pagine e si mostra ancora immaturo e timido al pubblico. Un essere autentico che prende coscienza gradualmente, che non è più attore bensì personaggio, per dirla con Pirandello, pervaso dall’emozione di sentirsi vero, nelle membra e nella mente, sì da mettere sotto le luci della scena la sua intera esistenza che ha la durata di una rappresentazione.
Stanislavskij, nel suo snervante lavoro sull’attore, ci spiega come sia importante il rivivere, riattivando l’esperienza vissuta, la memoria affettiva per regalare al personaggio così concepito la consapevolezza di una identità reale, di un passato vero, di un carattere definito già prima della scrittura scenica. Questa creatura così concepita, legata alla sua storia, può finalmente improvvisare la sua parte, i suoi gesti prendono forma da un personale, inimitabile istinto creativo. Marcel Marceau sviluppa il suo genio in questo mare e spensierato, sotto un sole indelebile, naviga sul suo battello ubriaco lontano, verso mondi sconosciuti, al di là del reale, in un universo onirico, effimero e semplice, rifugio ideale per l’anima.
1.2 Il mio primo incontro con Marcel Marceau
Le mime révèle l’homme
dans son essence.
M. Marceau (16)
L’arte del mimo mi ha sempre affascinata. In fondo al mio animo bambino Marceau rappresenta un mito. È un poeta del gesto che dall’invisibile crea il visibile, che trasforma l’ombra in luce, il nulla in realtà. È uno scultore che afferra in un pugno i sogni e li plasma per trasformarli in materia viva davanti agli occhi del suo pubblico.
È un attore silenzioso spesso costretto a parlare, a dare un nome ai suoi antenati, a ricordare i suoi maestri, a menzionare la sua scuola e i suoi discepoli. Condannato all’eloquenza, Marceau, nel corso di ogni intervista, racconta la storia del teatro gestuale.
In occasione di un suo spettacolo allestito nello spazio Pierre Cardin de L’Académie des beaux-arts di Parigi, ho deciso di andarlo ad incontrare. Sono partita col cuore gonfio d’emozione e in un batter d’ali eccomi arrivata all’aeroporto Charles de Gaules. Era il 10 dicembre del 1993. Un insolito rendez-vous proprio nella sala del teatro, alle diciotto.
Giusto il tempo per una tazza di tè seduta in vetrina al Quartiere Latino e via sul metrò. Si è fatto attendere come una vera star, ma davanti ai miei occhi è apparso come un uomo comune, scusandosi finanche dei dieci minuti di ritardo.
“Abito fuori Parigi, non ho calcolato a dovere…”.
In effetti Marceau aveva da diversi anni scelto di vivere in un angolo tranquillo, nella campagna francese, a Berchère, con sua moglie Anne e i suoi quattro figli.
Lo osservavo con ammirazione, un’energia luminosa pareva invadere il mio corpo e la mia mente; mi sentivo lucida e decisa come non mai. Sull’agenda avevo preparato a Roma una decina di domande a lui destinate ma il carisma dell’artista che avevo al fianco, seduto su una poltrona rossa di mezza sala, si era impadronito della mia timidezza regalandomi una determinazione con cui non mi ero mai, sino ad allora, confrontata. La stanchezza, che dalle prime luci dell’alba mi aveva tenuto la mano sin sulla soglia di quella sala, era volata via trascinando con sé tutte le mie abitudini e il mio intero passato. Ero lì, con tutta me stessa, per un’ora soltanto che ricorderò per la vita intera.
Un uomo comune dicevo, maturo, certo, ma con un’età indefinita e ininfluente. Catturata d’improvviso dal suo sguardo magnetico, ho iniziato a provare un timido disagio. Era come se il mio sguardo stesse penetrando nella ricchezza della sua interiorità, tra le onde dei suoi segreti, per annegare in un mare azzurro di emozioni. Ciò che mi ha reso fiera, è stata la sua eloquenza, davvero inaspettata.
Con la mia agenda chiusa sulle gambe mi sono trovata in un attimo a discorrere con lui sulla sua formazione d’attore e poi di mimo accennando a Charles Dullin, a Etienne Decroux e alla Scuola di Mimodramma Marcel Marceau. Ha cominciato allora a ripercorrere le fasi della sua educazione teatrale partendo da alcuni particolari episodi della sua giovinezza che ho così tradotto: “All’età di vent’anni ho preso parte alla resistenza in Francia, mi sono rifugiato a Parigi e sono entrato nella scuola di Charles Dullin.
C’era ancora la guerra ma ho cominciato, ciononostante, a lavorare con Decroux. Mi sono arruolato nella Prima Armata francese, ho partecipato alla Campagna di Germania e, dopo essere stato liberato, nel 1946, ho iniziato la mia carriera. Sono tornato da Dullin. Era mia intenzione diventare attore drammatico ma Decroux sosteneva che ero nato per essere un mimo, forse il più grande della mia epoca”.
A proposito della carriera di mimo ha poi parlato della decisione di consacrare la sua vocazione d’attore all’arte del mimodramma e della pantomima di stile ed ha descritto il suo personaggio, Bip, creato nel 1947. Con gli occhi lucidi ha poi così continuato:
“…Nel ’48 mi sono separato da Etienne Decroux perché questo amore era oramai diventato impossibile. Si trattava, ovviamente, di amore spirituale tra due artisti. Ero insieme a Jean-Louis Barrault il suo migliore discepolo. Nello stesso anno ho formato la mia compagnia e, sino al 1964, ho messo in scena ventisei mimodrammi con la troupe e con il mio personaggio dal volto bianco, Bip”.
Il personaggio ideato da Marceau ha rappresentato per me, vedendolo sulla scena, una delle più belle immagini in bianco e nero dei miei sogni infantili. La rosa rossa, unico elemento a colori, agganciata al cappello a bombetta, mi aveva fatto sempre pensare 18 all’amore, alla malinconia, e, in ultimo, alla solitudine. Bip è, secondo Marceau, il Pierrot del ventesimo secolo influenzato dalla Commedia dell’Arte e da Charlot:
“Attraverso Bip rendo omaggio alla vita di Pierrot, di Charlot, poiché loro l’hanno data a me”.
Appagando la mia curiosità nei confronti delle creazioni pantomimiche, ha fatto un rapido excursus sul suo repertorio composto da cinquanta pantomime di stile e cinquanta pantomime di Bip.
L’arte di Marceau è una continua ricerca della perfezione e marcia sul binario dell’evoluzione. Lanciando uno sguardo discreto sulla vita quotidiana, sulla violenza, sulla miseria sociale, su ogni sorta di “slittamento” che la nostra società subisce, l’artista trasforma con un solo gesto il mondo, lo capovolge e lo fa rimbalzare, ci gioca come un bambino con il suo pallone. Nelle sue performances si sposano precisione e improvvisazione; i suoi allievi però lavorano su un canovaccio minuziosamente definito che non consente di improvvisare in scena. La grammatica, ovvero lo studio della micro-gestualità, è essenziale nel mimo.
Lo spettacolo in quei giorni allestito a L’Éspace Pierre Cardin, che ho avuto modo di vedere la stessa sera di quell’incontro, si componeva di due parti: la prima dedicata alle pantomime di stile e ad un mimodramma d’ispirazione antica, di una suggestione sconvolgente, Pygmalion, in cui un artista scolpisce una statua che si anima e lo uccide, e tre divertentissime pantomime di Bip; la seconda parte costituita dal mimodramma Le Manteau tratto da Gogol (di cui farò opportuna menzione nel paragrafo dedicato ai mimodrammi). È stata una serata indimenticabile. Tranquilla nell’animo, ho fatto ritorno in albergo al Quartiere Latino. Con la palpabile sensazione di aver ricevuto un prezioso insegnamento, mi sono sentita d’improvviso ricca dentro. Non avrei mai più abbandonato Marceau.
1.3 Come nasce un mimo
L’acteur est un athlète du coeur
Antonin Artaud (17)
Ogni bambino, sin dalla nascita, si avvale dei meccanismi della mimica. Il riso, il pianto, la tristezza, la collera, rappresentano la sua gestualità quotidiana.
“[…] L’enfant ne fait que rire ou pleurer ou s’irriter. Il subit, peu à peu, toute une série de réactions facilement observables qui consiste à jouer toutes les actions du milieu ambiant. C’est alors le Mimisme […]”(18).
Il gioco viene rappresentato dai gesti:
“[…] Les enfants ont un don de mime par la facilité intuitive du jeu. C’est ce qui donne à leur rêve et à leur action, quand ils font du mime, une sincérité touchante et harmonieuse […]”(19).
Giocando con i soldatini ad esempio, prendendoli tra le mani, si mima la guerra; con le pentoline la bambina imita la gestualità casalinga della mamma, la ritualità del cibo. La conquista della realtà avviene attraverso il gioco. Ce ne parla Marcel Jousse nel suo interessantissimo saggio sull’antropologia del gesto:
“[…] Le Jeu humain, c’est la force vitale à la conquête du réel […]. Nous connaissons les choses que dans la mesure où ...