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Il lavoro è un diritto?
Liberarsi da un grande equivoco per riprendersi il futuro
- Italian
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Informazioni su questo libro
Siamo cresciuti innamorati di questa meravigliosa idea: il lavoro è un diritto, tutti hanno il diritto di godersi un lavoro dignitoso e appagante. Purtroppo però quest'idea si è rivelata un principio astratto su cui i politici hanno speculato, illudendoci e portandoci a dare per scontato ciò che non lo era. La verità è che il diritto al lavoro non lo garantisce nessuno: sta a ciascuno di noi conquistare con fatica e intelligenza il lavoro appassionante e dignitoso che ci spetta e che ci aspetta.
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Informazioni
Argomento
EconomiaCategoria
Economia del lavoroI FONDAMENTALI
Partiamo dalle basi signor Ministro. Le chiedo un atto di fiducia di pochi minuti. Le chiedo di ascoltarmi come se lei fosse un bambino perché è importante che io e lei ridefiniamo il concetto di lavoro a partire da un foglio bianco. Provi a dimenticare tutto ciò che sa e a resistere alla tentazione di dire “è troppo banale, è troppo stupido, è troppo semplice”. Faccia conto di avere non più di dieci anni. Oppure faccia conto di essere Federer che partecipa da studente ad uno stage di perfezionamento sui fondamentali del tennis. E’ ovvio che Federer vivrà la sensazione di trovarsi di fronte a delle ovvietà, eppure parteciperà allo stage perché intuisce che guardando in faccia quelle ovvietà, analizzandole, mettendole in discussione, potrà scoprire nuovi significati e nuovi modi di operare. Tutti i processi creativi partono dalla rilettura di ciò che è scontato. Se lei mi regala qualche minuto di ascolto senza pregiudizi le faccio fare un percorso al termine del quale comincerà a intuire che il 90% delle sue attività non hanno senso e sono anzi dannose per la nostra comunità e per tutte le persone che la compongono.
Partiamo dalla definizione di lavoro. In senso lato lavoro significa attività umana funzionale al sostentamento personale. Se passo la giornata a postare video su youtube ma quest’attività non contribuisce al mio sostentamento non sono uno youtuber. Sono un tizio come tanti che posta video su youtube. Divento uno youtuber quando il flusso finanziario generato dalla mia attività contribuisce al mio sostentamento. Questa definizione che le ho appena proposto è talmente larga che comprende il lavoro in schiavitù: non sono remunerato e non sono libero di non fare, ma ciò che faccio è il pegno della mia sopravvivenza.
Non si scandalizzi signor Ministro se includo la schiavitù nella mia definizione di lavoro. Grazie a Dio oggi in tutti i paesi civili ridurre in schiavitù una prostituta o un raccoglitore di pomodori è un reato molto grave, ma ai fini del mio ragionamento è importante partire da una definizione che non contiene elementi etici e/o di legalità, e che può valere per il data analyst del 2020 così come per il sollevatore di blocchi di pietra della Piramide di Cheope. Lavora chi provvede con la sua fatica (il sudore della fronte) e il suo impegno al sostentamento personale. Il lavoro serve a mangiare. Questo è il nostro primo assioma.
Procediamo ancora in questo percorso lapalissiano, pazienti ancora un po' signor Ministro, a breve sarà tutto evidente e concreto. Abbiamo detto che si lavora per il sostentamento personale. Chi ci offre questo sostentamento? Chi ha tratto dal nostro impegno un beneficio tale da renderlo disponibile a privarsi di parte delle sue risorse. Il nostro secondo assioma dice che il lavoro è il prezzo di un beneficio goduto da qualcun altro. Questo qualcun altro si chiama cliente. Corollario di questo assioma è che per ogni attività lavorativa ci deve essere un cliente, qualcuno, ripeto, disposto a privarsi di qualcosa pur di ingaggiarci. E anche questo vale per il data analyst del 2020 così come per il sollevatore di blocchi di pietra della Piramide di Cheope. In questa prospettiva inoltre la distinzione contemporanea tra lavoro dipendente e lavoro autonomo/imprenditoriale perde di significato. Se faccio la receptionist con un contratto a tempo indeterminato full time in un hotel il mio cliente è il mio datore di lavoro. “Compra” il mio impegno e il mio sforzo con una promessa di continuare a farlo sistematicamente in futuro impegnandomi a non “vendere” il mio tempo e il mio sforzo ad altri. Tecnicamente resta un mio cliente, esattamente come quello che avrei se facessi il designer con la partita IVA o se gestissi un banco di frutta. Fissi bene in testa questo secondo assioma ed il suo corollario signor Ministro, perché da 60 anni circa questa banale evidenza è stata rimossa. Una rimozione che è alla base dello smarrimento delle economie sviluppate nella ricerca di una soluzione al problema lavoro.
Facciamo un ulteriore passo avanti. Quanto vale il lavoro? Cosa determina il suo valore? Ancora una volta proviamo a guardare la storia schermando i nostri orientamenti culturali, religiosi e politici. Ecco il nostro terzo assioma: Il valore del lavoro è definito dal valore della sua ricompensa. Una merce scambiata senza contropartita è una merce senza valore, sostanzialmente non è una merce. Applicare questo terzo assioma significa dire che ogni minuto della giornata lavorativa di Margo Georgiadis1 vale 4987 volte il minuto di un suo dipendente a caso, Anil, di mestiere magazziniere. Immagino che questo numero la faccia rabbrividire. E’ mostruoso in effetti. Il tempo di Margo ha lo stesso valore del tempo del suo magazziniere Anil perché sono tutti e due esseri umani. E’ sacrosanto, signor Ministro, sono d’accordo con lei. Eppure Anil rimanda le cure mediche che gli servono perché aspetta tempi migliori, mentre Margo ha una copertura assicurativa capace di trasformare la sua camera da letto in una clinica prestigiosa ad un suo schiocco di dita. Il valore delle diverse ricompense di cui godono influenza molto l’aspettativa di vita di entrambi, e quindi anche il valore del loro tempo. E’ un’ingiustizia. Posso essere d’accordo con lei, ma il nostro pensiero è figlio del contesto culturale/religioso/politico in cui abbiamo maturato le nostre convinzioni. Al sollevatore di blocchi di pietra della piramide di Cheope probabilmente quel pugno di acqua e di farina per reggersi in piedi sarà sembrato equo. E forse lo stipendio annuo di qualche migliaio di dollari sembra equo anche ad Anil oggi.
E adesso signor ministro arriviamo al cuore della questione. Perché nel 2017 alla Mattel il CEO (Margo Georgiadis) portava a casa 31,3 milioni di dollari e il lavoratore mediano (nome di fantasia Anil) 6271 dollari? Lei potrebbe rispondere che la responsabilità è della globalizzazione, della finanziarizzazione dell’economia, della liberalizzazione selvaggia, del turbocapitalismo sregolato. Sono parole che un bambino non capirebbe, mentre la verità è a portata di bambino. Il prezzo del tuo lavoro dipende dal rapporto di forza negoziale tra te che lo vendi e il tuo cliente che lo compra, come per ogni merce. Questo quarto assioma si può applicare universalmente, dal soldato di ventura di Cartagine all’astronauta, passando per il mezzadro del 300. Approfondiamo questo concetto di rapporto di forza negoziale, signor ministro.
In qualsiasi scambio della vita il valore di ciò che ciascuna delle due parti porta a casa dipende dal numero e dal valore delle opzioni alternative allo scambio di ciascuna delle parti. Lei mi capisce al volo perché questa regola è fondamentale anche nel suo mondo, la politica. Resto nell’ambito del lavoro con un esempio concreto. Sono una compagnia assicurativa ed è per me indispensabile assumere un attuario. Non ne posso fare a meno. Sfortunatamente per me gli attuari sul mercato sono pochi e tutti molto richiesti. Al termine del colloquio quindi il candidato che mi piacerebbe assumere avrà molte più opzioni alternative rispetto a quante ne abbia io. Di conseguenza sarà lui a “fare il prezzo”. E questo è il motivo per cui un attuario trentenne oggi in Italia guadagna circa 1000 euro al mese in più di un suo coetaneo laureato inquadrato in un’altra funzione della Compagnia. E’ il gioco della domanda e dell’offerta, vecchio come il mondo. Ovviamente se per assurdo sul mercato restasse una sola compagnia assicurativa con decine di attuari a spasso il rapporto di forza negoziale si rovescerebbe. Chi ha più alternative vince. Per completare il ragionamento il concetto di opzioni alternative può essere osservato anche in un’altra prospettiva: il “prezzo” del mio lavoro dipende anche dal valore del “maleficio” che posso arrecare al mio cliente (e viceversa ovviamente) nel caso in cui io decida di interrompere/sospendere/diradare la collaborazione, e ovviamente anche al valore del “maleficio” che mi può essere arrecato dal mio cliente. Se il nostro giovane e scaltro attuario presenta una lettera di dimissioni è presumibile pensare che l’amministratore delegato della Compagnia pensando ai danni di una sua uscita e ai costi di una sua sostituzione provi a trattenerlo con un aumento di stipendio. Per converso se la Compagnia è in difficoltà e rischia la bancarotta è presumibile che lo sventurato attuario accetti un part time piuttosto che restare disoccupato.
Resista alla tentazione di pensare che quanto le sto descrivendo è troppo banale per un adulto perché non è finita qui signor Ministro. Il rapporto di forza negoziale tra il lavoratore e il suo cliente dipende anche dalla collocazione dell’attività del lavoratore nella catena di creazione del beneficio (valore) goduto dal cliente. Questo quinto assioma ci dice che nello “stato di natura”, se non intervengono fattori regolamentari/normativi, veniamo retribuiti non in base al nostro sforzo/impegno ma in base a quanto valore specifico la nostra attività ha portato al cliente. Per capire bene occorre partire dal concetto di catena di creazione del valore: quando lei compra il giornale in edicola lei spende 2 euro che costituiscono il valore del suo beneficio nel leggere il giornale. Immagini questi due euro come una catena composta da 20 anelli del valore di 10 centesimi ciascuno. Con i 2 euro lei ricompensa il proprietario del giornale che mette a disposizione le sue risorse per tenere in piedi la struttura e organizzare il lavoro dei giornalisti, i giornalisti, l’impianto con le rotative che ha stampato il giornale, i distributori che hanno organizzato e gestito il trasporto delle copie in giro per l’Italia, l’edicolante che l’ha salutata e le ha porto il giornale. Lei ha retribuito 5 soggetti diversi in questa catena di 20 anelli ma non ha dato 4 anelli a ciascuno. Ha dato a ciascuno un numero di anelli corrispondente al beneficio che lei ha attribuito alle 5 diverse attività dei 5 soggetti. Perché lei ha scelto quel giornale? Perché era ben stampato? Un pochino. Perché è arrivato in tempo in edicola? Un pochino. Perché aveva bisogno del saluto e del sorriso dell’edicolante? Un pochino. E’ probabile che lei abbia scelto di rinunciare a 2 euro perché voleva leggere le notizie? No, le notizie sono ovunque, gratuitamente. Lei ha scelto di rinunciare a 2 euro soprattutto perché voleva conoscere il pensiero di alcune persone che lei stima. E ancor di più lei ha scelto di rinunciare a 2 euro perché attribuisce un valore di credibilità al giornale nella sua coralità, altrimenti si limiterebbe a seguire il blog del singolo giornalista. Quindi dei 20 anelli probabilmente lei ne assegnerebbe almeno 10 alla proprietà del giornale, 7 ai giornalisti e solo 3 agli altri 3 soggetti. E se poi per lei non avesse nessun valore il saluto dell’edicolante e il profumo buono della carta stampata perché preferisce i colori nitidi dello schermo del suo tablet, lei non assegnerebbe neanche un anello a stampatori, distributori ed edicolanti. E’ quello che sta accadendo in realtà. Gli edicolanti si spezzano la schiena, spesso al freddo e al gelo, svegliandosi alle quattro e mezzo e nel giro di pochi anni hanno scoperto che il loro lavoro ha un valore che tende a zero.2
Ecco spiegato signor Ministro il concetto di collocazione nella catena di creazione del valore. Se gli utili della compagnia assicurativa dipendono per il 20% dall’avere dei bravi attuari e per il 40% dall’avere dei bravi agenti che vendono le polizze al giusto prezzo, il bravo agente guadagnerà il doppio del bravo attuario. E questo accade talvolta anche a prescindere dalla rarità della figura professionale sul mercato. Potrebbero esserci pochissimi geologi e moltissimi designer. Ma se io cliente finale mi innamoro più della bellezza che della solidità della casa e sono disposto a pagare un premio di prezzo per la bellezza il designer guadagnerà più del geologo.
Ancora un esempio. La mia attività di addetto alla cassa del negozio di abbigliamento è fondamentale. Il titolare del negozio mi dice che senza di me sarebbe perduto. Poi però quando definiamo il mio compenso “il piatto piange”. Perché? Nulla da stupirsi. Il titolare non è incoerente. Magari la sua considerazione nei miei confronti è sincera. Tuttavia la definizione del mio compenso non si basa se non in modo residuale sulla sua stima nei miei confronti, ma sulla base del duplice meccanismo che ho appena descritto:
1) “Quanti potenziali commessi esistono che possono sostituire questo ragazzo?” 2) “Qual è stato il contributo delle mansioni svolte dal cassiere alla soddisfazione dei clienti e dunque agli utili del negozio?”
Perché signor ministro mi sono dilungato su questi assiomi fondamentali del mondo del lavoro? Perché volevo farle vedere il mondo del lavoro nella sua nudità, così come si presenta e come si è presentato “biologicamente” per millenni. Ciò che le ho detto può essere applicato senza eccezioni all’istruttore di robot come al sollevatore di blocchi di pietra della piramide di Cheope, alla prostituta della Pompei del 79 d.c. come al volontario di una ONG, al CEO di una multinazionale come al responsabile di una piazza di spaccio.
Adesso che abbiamo scattato questa fotografia allo “stato di natura”, andiamo a vedere come nel tempo le società più sviluppate abbiano costruito delle “sovrastrutture” per “bonificare la giungla”, man mano che mutavano le sensibilità, le tecnologie, gli equilibri politico/economici e demografici. Mi perdoni signor Ministro se sarò ipersintetico rispetto all’enorme complessità dell’argomento.
Il problema dello “stato di natura” è che mangi solo se hai forza nelle braccia o nel cervello. Se sei vecchio, o malato, o non abile non mangi. Nel corso dei secoli le società hanno adottato spontaneamente meccanismi protettivi o compensativi. I derelitti che non potevano lavorare venivano aiutati dalla liberalità dei potenti e dall’attività assistenziale svolta da organizzazioni religiose e mutualistiche, di cui esistono tracce fin dall’epoca classica: uniamo le forze, chi di noi non ce la farà sarà sostenuto dagli altri. Questa funzione per esempio in Europa è stata svolta nel medioevo dalle corporazioni. Con l’avvento della rivoluzione industriale le corporazioni vengono travolte dall’espansione del moderno sistema manifatturiero. La tecnologia cambia il modo di produrre e di organizzare il lavoro, ma non cambia l’esigenza del lavoratore di difendersi dallo “stato di natura”. Così in Inghilterra nel diciottesimo secolo fiorisce il modello delle società di mutuo soccorso, le friendly societies, costituite da lavoratori che, versando contributi periodici, ricevevano un sussidio in caso di malattia. Il modello mutualistico e cooperativo dilaga nel resto dell’Europa crescendo di pari passo con lo svilupparsi dell’economia industriale capitalistica. Nell’ ‘800 il concetto di classe operaia viene elaborato sui libri per poi diventare inesorabilmente cultura e consapevolezza, nelle campagne e nelle fabbriche. I lavoratori diventano un attore politico sempre più rilevante e costruiscono gradualmente un sistema sempre più ricco e articolato di protezioni rispetto allo “stato di natura”: orari di lavoro, condizioni di lavoro, livello dei salari, diritto di sciopero, tutele contrattuali rispetto al licenziamento e alle discriminazioni. Questo schema mutualistico e cooperativo non è solo appannaggio di contadini e operai. Anche i capitalisti (che oggi chiamiamo imprenditori) e le professioni uniscono le forze (in realtà dal medioevo non avevano mai smesso) per difendere i propri interessi e aumentare la propria forza negoziale. In questo coacervo di protezioni incrociate prende forma un mercato del lavoro sempre più regolamentato e inquadrato. Le forze “ancestrali” di lavoratori e datori di lavoro (gli animal spirits secondo la celebre definizione di Keynes) vengono imbrigliate dentro un sistema di regole sempre più stringente e pervasivo. Soprattutto il lavoro diventa il cuore delle ideologie che segnano le rivoluzioni del Novecento. Parlare di politica nel Novecento significa parlare di lavoro e di diritto del lavoro. I lavoratori diventano un soggetto politico prima ancora che sindacale. Un industriale e un sindacalista che negli anni ’60 discutono di una innovazione in fabbrica danno luogo ad un confronto che trascende gli aspetti organizzativi aziendali e diventa prima di tutto un confronto politico tra due visioni della società, della persona si potrebbe dire addirittura.
Il lavoro, e lei lo sa bene signor Ministro, è al centro della prima frase della costituzione italiana. Questo riferimento altissimo non si è manifestato solo in una dimensione simbolica. E’ diventato una promessa concreta dello stato nei confronti di ogni cittadino: io mi impegno a risolvere i tuoi problemi di lavoro, non avere paura dello “stato di natura”, sarò io a proteggerti. Una promessa che lo stato ha provato ad onorare a lungo senza badare a spese (purtroppo per i nostri figli) nei tanti modi che conosciamo: un bando di concorso in più, uno sgravio fiscale per la categoria x, un onere di legge in più per non togliere il lavoro alla categoria y, una barriera doganale per non mettere sotto pressione l’azienda automobilistica z, un pensionamento anticipato ai 50 anni, milioni di ore di cassa integrazione. L’elenco potrebbe continuare per ore.
Il punto più alto dell’infrastruttura che protegge gli uomini dallo “stato di natura” nel mondo del lavoro viene raggiunto nel periodo che intercorre tra il dopoguerra e gli anni ‘80, quando nella maggior parte delle economie sviluppate si consolida dal punto di vista legale, organizzativo e culturale il modello del cosiddetto standard employment. Si tratta del contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, il “contratto standard”, “il posto” come lo abbiamo ribattezzato nell’espressione popolare in Italia. “Il posto” è stato una grande conquista per i lavoratori del mondo occidentale. Nei diversi stati ha avuto applicazioni diverse in termini di protezioni normative (si pensi al nostro “mitico” articolo 18), ma l’impianto di base del contratto full time e a tempo indeterminato si è imposto come standard internazionale. Si immagini signor Ministro quale enorme innovazione sia stato in settori come per esempio la cantieristica, l’edilizia e l’agricoltura, dove storicamente si è sempre lavorato “a giornata”.
Certamente in tutte le economie occidentali nella seconda parte del novecento è rimasta una percentuale significativa di contratti non full time e non a tempo indeterminato, ma nonostante questo si è innescato molto rapidamente un cambio di paradigma: il lavoro “vero” è quello full time, garantito e a tempo indeterminato. Tutto il resto è un “lavoro di serie B”, precario, soggetto alla spada di Damocle dell’incertezza, per estensione un lavoro “ingiusto”, non compiutamente e debitamente protetto, oggetto di meccanismi più o meno espliciti di sfruttamento. Se non è full time e a tempo indeterminato salvo eccezioni non è un buon lavoro. E’ incredibile come questo paradigma si sia impadronito profondissimamente del nostro modo di concepire il lavoro, tanto che oggi abbiamo la sensazione che il contratto standard sia sempre esistito quando invece è una creatura relativamente giovane, figlia di un determinato contesto politico, culturale ed economico/tecnologico. Di più, il “contratto standard” è diventato, per le generazioni nate nel dopoguerra, la pietra angolare del proprio progetto di vita: ottengo il posto e con il posto riesco a sposarmi, a mettere su famiglia, a fare il mutuo per la casa, a pianificare un percorso di risparmi per il futuro dei figli e una vecchiaia serena. Insomma il “contratto standard” ci è entrato nelle vene, ha impregnato la nostra mentalità, non solo il nostro approccio al lavoro, ma si potrebbe dire il nostro...
Indice dei contenuti
- Cover
- Indice
- Frontespizio
- - Introduzione;
- - Capitolo 1: I fondamentali ovvero le 5 regole “eterne” del lavoro nella storia dell’uomo;
- - Capitolo 2: Travolti da un insolito destino ovvero quali fenomeni economici, politici, sociali e tecnologici ci hanno portato dove siamo;
- - Capitolo 3: Il mercato del lavoro oggi;
- - Capitolo 4: Il ritorno di Darwin ovvero come muoversi nel mercato del lavoro;
- - Capitolo 5: Il lavoro nella nostra testa ovvero riconoscere la nostra mentalità per cambiarla;
- - Capitolo 6: Vita da lupi ovvero i modelli a cui guardare se il lavoro non è un diritto;
- - Capitolo 7: Come allevare lupi ovvero proposte concrete per il ministro del lavoro;
- - Capitolo 8: Conclusioni