Il metodo della libertà
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Scritti sulla democrazia, il fascismo, la rivoluzione

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Il metodo della libertà

Scritti sulla democrazia, il fascismo, la rivoluzione

Informazioni su questo libro

In questo poderoso volume a cura di Christian Raimo proponiamo parte di un'antologia che Antonio Gramsci pubblicò negli anni Settanta dal titolo Scritti sul fascismo che riconferma la rinfrancante difficoltà ad avere a che fare col pensiero gramsciano. Si tratta di testi scritti durante gli anni dell'avvento del fascismo, dalla fine della prima guerra mondiale fino a prima della sua carcerazione del 1927, quando il regime si era affermato. A conclusione della raccolta un'inedita postfazione a firma di Guido Liguori.Antonio Gramsci è uno degli autori italiani oggi più popolari e meno popolari. È tradotto, studiato, ammirato, celebrato nel mondo, ma il suo pensiero non ha mai ottenuto centralità nel dibattito politico e culturale italiano. Il ritratto che viene fuori da questa raccolta è quello di una militanza politica e intellettuale che ha davanti un mostro informe da combattere: un fascismo plastico, un regime illiberale che si sta costruendo man mano in forme impensate e ogni volta difficili da interpretare e quindi da contrastare. La grandiosità delle parole di Gramsci è qui proprio questa: saper elaborare il senso della nascita e dello sviluppo del fascismo in presa diretta, inventare categorie, riuscire a riconoscere le ragioni profonde per cui la storia prende certi percorsi e non altri, e provare ogni volta a escogitare le ragioni e le forme della lotta.

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1924

Il fallimento del sindacalismo fascista

La conferenza dei capi dell’industria italiana e dei principali dirigenti del sindacalismo fascista, tenuta il 19 dicembre scorso a Roma, sotto gli auspici e alla presenza del presidente del consiglio Mussolini, ha dato formale riconoscimento al fallimento del programma e dei metodi del fascismo in campo sindacale. Tutti ricordano i tentativi disperati del fascismo, prima e dopo l’avvento al potere, di creare un movimento sindacale al proprio servizio. Tutti ricordano egualmente come questi tentativi, pur avendo dato risultati relativamente positivi fra i lavoratori delle campagne, fallirono completamente fra gli operai. È stato facile per i fascisti, date le condizioni di vita e di lavoro dei contadini poveri e dei braccianti, dispersi nei villaggi e uniti soltanto da deboli vincoli sindacali, distruggere le organizzazioni socialiste dei lavoratori agricoli e costringere con il terrore e il boicottaggio economico le masse lavoratrici della campagna a entrare nelle corporazioni fasciste.
Le cose hanno preso una piega del tutto diversa con gli operai industriali, eccezion fatta tuttavia dei ferrovieri, esposti alle misure coercitive dello Stato, sulla testa dei quali è sempre sospesa la minaccia del licenziamento, e dei lavoratori portuali che avevano già una organizzazione di carattere fondamentalmente corporativo, che dipendeva, nella sua azione, dalla situazione del traffico marittimo, dal movimento dei porti italiani che offrono gradi ineguali di prosperità, in rapporto diretto con il bilancio delle esportazioni e delle importazioni e i considerevoli acquisti periodici di grano, carbone e caffè.
Nelle grandi città industriali i fascisti sono soltanto riusciti a raccogliere gruppi sparsi, sempre costituiti da disoccupati e da elementi criminali, ai quali la tessera di adesione al fascio assicura l’impunità per gli atti di sabotaggio, i furti e gli atti di violenza contro i capi officina. Era dunque necessaria per la politica fascista la conquista delle masse proletarie.
Il governo fascista può mantenersi al potere soltanto rendendo la vita impossibile a tutte le organizzazioni non fasciste. Mussolini ha fondato il suo potere sugli strati profondi di quella piccola borghesia che, non avendo nessuna funzione nella produzione e ignorando, di conseguenza, gli antagonismi e le contraddizioni che scaturiscono dal regime capitalistico, credevano fermamente che la lotta di classe fosse un’invenzione diabolica dei socialisti e dei comunisti. Tutta la concezione «gerarchica» del fascismo discende da questo spirito piccolo-borghese. Di qui il concetto di una società moderna costituita da una serie di piccole corporazioni organizzate sotto il controllo dell’élite fascista, nella quale si trovano concentrati tutti i pregiudizi e tutte le velleità utopistiche dell’ideologia piccolo-borghese. Di qui la necessità di creare un sindacalismo «integrale», che è una sintesi riveduta del sindacalismo cristiano democratico, in cui l’idea della nazione, elevata a divinità, si sostituisce all’idea religiosa.
Questo bel programma fu ripudiato dagli industriali, che si sono rifiutati di dare la loro adesione alle corporazioni nazionali fasciste, in breve a sottomettersi al controllo dei Rossoni e compagnia. I fascisti, in risposta al rifiuto degli industriali, si sono abbandonati qualche mese fa a una propaganda demagogica in grande stile, che si è spinta fino a incitare gli operai metallurgici e tessili a preparare uno sciopero generale. Questa campagna contro gli industriali ha raggiunto il suo punto culminante dopo la visita di Mussolini alla Fiat di Torino, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma. I sei, settemila operai della Fiat, riuniti in un cortile della fabbrica per ascoltare Mussolini, fecero al capo del fascismo un’accoglienza nettamente ostile. I fascisti accusarono allora gli industriali torinesi di coltivare l’antifascismo nelle masse, di preferire i negoziati con i sindacati riformisti, di licenziare gli operai fascisti, di impedire alle corporazioni nazionali di svilupparsi ecc. Giunsero perfino ad aggredire il capo della Fiat, il senatore Giovanni Agnelli, in un caffè di Torino.
La situazione è divenuta molto seria sia per gli industriali che per il governo. Il comitato sindacale del partito comunista è intervenuto nella lotta per invitare le masse operaie a partecipare alla lotta contro gli industriali, anche se essa era stata scatenata per iniziativa dei fascisti, e ad allargare il movimento. Ma l’azione fu bruscamente interrotta per ordine dei dirigenti fascisti, e a questo è seguita la conferenza del 19 dicembre. Nel discorso pronunciato a questa conferenza Mussolini ha riconosciuto l’impossibilità di raccogliere in un solo sindacato operai e padroni. Il «sindacalismo integrale», secondo Mussolini, può soltanto applicarsi nel campo dell’agricoltura. I fascisti devono rispettare l’indipendenza delle organizzazioni industriali sforzandosi di impedire i conflitti di classe. Il senso di questo discorso è chiaro. I fascisti rinunciano non solo a una parvenza di lotta contro gli industriali, ma anche al tentativo di conciliare, sotto il loro arbitrato e controllo, gli interessi di classe; si propongono soltanto come compito di organizzare gli operai… per consegnarli piedi e mani legati ai capitalisti.
È il principio della fine del sindacalismo fascista. Subito dopo la conferenza numerosi proprietari fondiari hanno elevato fiere proteste contro il diverso trattamento che il fascismo fa all’industria e all’agricoltura. Hanno denunciato le violenze commesse dalle organizzazioni sindacali fasciste a danno dei proprietari per costringerli a rispettare i contratti di lavoro, dichiarati, ovviamente, da questi ultimi come assurdi e contrari agli interessi della nazione; hanno imposto la ricostruzione della Confederazione dell’agricoltura, assorbita dalla corporazione fascista.
A Parma i conflitti tra fascisti e agrari hanno già provocato tutta una serie di incidenti. A Reggio Emilia il deputato Corgini, ex sottosegretario agli interni del governo Mussolini, è stato espulso dai fascisti. È evidente quindi il successo della tattica adottata dal nostro partito per smascherare davanti alle masse i dirigenti fascisti che non sono avari di gesti enfatici contro gli industriali. I fascisti hanno ancora certo la soddisfazione di vedere migliaia di operai assistere alle loro riunioni, ma si è riusciti a metterli con il piede al muro, a obbligarli a rimangiarsi le loro rivendicazioni, a screditarli anche agli occhi degli elementi più arretrati delle masse lavoratrici. Se questa tattica si generalizza e si estende alle campagne, sarà affrettata sia la disgregazione del fascismo sia la riorganizzazione delle forze rivoluzionarie.
Questa tattica, è vero, è avversata dai riformisti e dai massimalisti istallatisi alla direzione delle centrali dei sindacati legali, padroni d’altronde anche degli unici giornali proletari che si pubblicano ancora in Italia. Socialisti e massimalisti dimostrano così ancora una volta di non voler realmente combattere il fascismo. Certo essi correrebbero un grosso rischio se pretendessero di affrontare il fascismo per contestargli, nel seno delle sue stesse organizzazioni, il controllo e la direzione delle masse. Ma è una ragione per rinunciare? D’altra parte è certo che larghe masse non solo di operai agricoli ma anche di operai di fabbrica, non avendo nessun altro mezzo per lottare contro la borghesia, si lascerebbero trascinare dalla demagogia fascista sperando così di aver ragione dei padroni. L’intransigenza dei riformisti e dei massimalisti non si volge in realtà contro il fascismo, ma contro la parte più povera e arretrata del proletariato. Per colmo questa intransigenza manca di logica e ammette fin troppe concessioni pratiche ai detentori fascisti del potere.

Italia e Jugoslavia

Il trattato d’amicizia concluso tra l’Italia e la Jugoslavia, che liquida la questione di Fiume e apre una nuova era nei rapporti tra i due paesi, è stato determinato principalmente da tre cause:
1) L’avvicinarsi della campagna elettorale in Italia. Il governo fascista intende sottrarre una delle sue carte principali all’opposizione, la quale nei circoli borghesi non manca di sottolineare il fiasco completo della politica estera fascista, il cui unico risultato è l’isolamento dell’Italia.
2) La formazione del governo Venizelos in Grecia. Il governo Mussolini si è convinto di non poter prendere due piccioni con una fava. Venizelos è l’uomo politico che, dopo il trattato di Versailles, si è maggiormente opposto ai piani espansionistici dell’imperialismo italiano. Nel suo conflitto con la Jugoslavia l’Italia aveva contro di sé i trattati. Nel suo conflitto con la Grecia l’Italia ha i trattati dalla sua parte. L’intesa stabilitasi tra i governi di Roma e di Belgrado attesta la loro intenzione di voler rispettare lo statu quo vigente. A tutte queste cause si aggiunge la politica della Francia nei confronti della Piccola Intesa. Se, come lasciavano credere le apparenze alcune settimane fa, il conflitto per Fiume si fosse aggravato, la Francia affiancandosi alla Piccola Intesa avrebbe costituito un pericolo per l’Italia.
3) Il nuovo piano di politica estera che fino al 1922 era personale di Mussolini, diventa quello del governo italiano. A questo piano si collegano le trattative ispano italiane, la politica di avvicinamento ai Soviet, il conflitto tra l’Italia (lepidamente sostenuta dalla Spagna) e l’Inghilterra e la Francia a proposito di Tangeri. Il preludio di questa nuova politica è stata l’occupazione di Corfù, una reazione alquanto esagerata all’uccisione del generale Tellini.
La convinzione personale di Mussolini è sempre stata che l’Italia, anziché ipnotizzarsi su Fiume e la Dalmazia, compromettendo la sua sicurezza nell’Adriatico, deve acquistare questa sicurezza attraverso concessioni alla Jugoslavia, le quali le lascerebbero inoltre le mani libere nell’Oriente mediterraneo. (A questo riguardo si è avvicinato più alla politica del Corriere della sera, della Stampa e della tendenza Nitti che a quella della grande maggioranza dei fascisti e soprattutto dei nazionalisti, ultimi venuti al fascismo.)
La questione dalmata era di fatto liquidata fin dal giorno in cui il trionfo dei partiti reazionari in Jugoslavia e la repressione del movimento contadino nei latifondi dei grandi proprietari italiani della regione avevano dato a questi ultimi la certezza che i loro diritti non sarebbero stati sacrificati ai contadini croati.
La situazione in Dalmazia è abbastanza analoga a quella della Galizia e dei paesi baltici. I proprietari fondiari e la massa dei contadini appartengono a nazionalità diverse. Il primo discorso della Corona pronunciato a Belgrado dopo il ritorno della dinastia annunciò l’espropriazione dei latifondisti dalmati, la liberazione dei contadini dal giogo feudale e la spartizione delle terre. Tutto è oggi cambiato. L’anno scorso le truppe italiane d’occupazione si sono ritirate da certe zone del paese senza che nulla di spiacevole accadesse ai proprietari. La campagna stampa cominciata contro di loro dagli agrari è cessata; il trattato italo iugoslavo concluso recentemente ha cambiato la situazione.
Il trattato italo jugoslavo è diretto contro gli interessi britannici o contro gli interessi francesi? A questa questione posta oggi da una parte della stampa risponderanno i fatti. Un esame obiettivo della situazione e la conoscenza delle opinioni sostenute da Mussolini nel corso della sua carriera di giornalista fascista ci autorizzano a credere che la politica italiana diventerà sempre più anglofoba, pur mantenendo la parvenza di un equilibrio tra la Francia e la Gran Bretagna. Bisogna anche tener conto del fatto che il partito fascista, massa piccolo-borghese nazionalista, influenza la politica governativa. I fascisti vorrebbero instaurare una politica di completa indipendenza di fronte alle grandi potenze che pretendono di dominare il mondo. La debolezza politica dell’Italia costringe a compromessi tra le dichiarazioni di cui è prodiga la propaganda interna e l’azione pratica. Perciò la politica estera fascista continuerà a fondarsi sul bluff e a essere incline alle avventure.

Il problema di Milano

Bisogna porre con grande precisione e con grande franchezza agli operai di Milano il problema… di Milano. Perché a Milano, grande città industriale, con un proletariato che è il più numeroso fra i centri industriali italiani, che da solo rappresenta più di un decimo degli operai di fabbrica di tutta Italia, perché a Milano non è sorta una grande organizzazione rivoluzionaria, mentre il movimento è sempre stato rivoluzionario? Perché a Milano non ci sono stati mai più di tremila organizzati nel partito socialista? Perché a Milano, anche quando il movimento era al suo massimo di altezza, comandavano effettivamente i riformisti? Perché a Milano tutte le associazioni operaie, sindacali, cooperative, mutue, sono sempre state nelle mani dei riformisti o semi riformisti, anche quando le masse erano spinte nelle strade dal più entusiastico slancio rivoluzionario?
Bisogna porre nettamente e francamente il problema delle masse, e chiamarle a risolverlo con i loro propri mezzi, con la loro volontà, con i loro sacrifici. Il problema è vitale, è il più importante problema della rivoluzione italiana. È possibile pensare a una rivoluzione italiana se la schiacciante maggioranza del proletariato milanese non è prima stata nettamente conquistata a una concezione precisa e tagliente di ciò che sarà la dittatura proletaria, dei sacrifici e degli sforzi inauditi che essa domanderà alle masse lavoratrici? A Milano sono i maggiori centri vitali del capitalismo italiano: il capitalismo italiano può essere solo decapitato a Milano.
Per la rivoluzione italiana esiste già un problema pieno di incognite, quello di Roma, della capitale politica e amministrativa, dove non esiste un proletariato industriale numeroso che possa avere il sopravvento sulla numerosa borghesia: i fascisti hanno mostrato una delle soluzioni che il problema di Roma può avere. Ma essa sarebbe utopistica per la rivoluzione proletaria senza una netta vittoria a Milano, se a Milano non si crea una situazione tale per cui decine e decine di migliaia di operai devoti, entusiasti e che abbiano idee molto chiare e fini molto precisi possano essere armati e solidamente inquadrati. Il problema di Milano non è quindi una questione locale: esso è un problema nazionale e in un certo senso anche internazionale. Gli operai di Milano devono persuadersi di ciò e dalla comprensione dei doveri formidabili che incombono su di loro, devono trarre tutta l’energia e tutto l’entusiasmo che sono necessari per condurre a termine il compito necessario.
Non sarebbe difficile rintracciare le cause remote e vicine per cui a Milano si è creata l’attuale situazione, nella quale, è inutile nasconderlo, sono i riformisti ad avere l’effettivo controllo delle masse. Poche grandi fabbriche, numero infinito di piccole e piccolissime officine, grande quantità di piccoli borghesi addetti al commercio, grande numero di impiegati, tradizione democratica fortissima nei vecchi operai ecc., ecc. Ma a noi basta ricordare lo slancio rivoluzionario dimostrato sempre dalle masse operaie milanesi per giungere a queste conclusioni:
1) la situazione attuale si è creata per gli errori del partito socialista negli anni dopo la guerra;
2) è possibile, con un lavoro assiduo, paziente, di ogni giorno, di ogni ora, con la più devota abnegazione dei migliori operai, mutare la situazione.
Il partito socialista non si è preoccupato dell’importanza enorme che Milano avrebbe avuto nella rivoluzione e non ha mai cercato di creare una grande organizzazione politica. Negli anni 1919-20, per essere all’altezza dei suoi compiti di centro organizzativo dell’economia nazionale, Milano avrebbe dovuto avere una sezione socialista di almeno trenta, quarantamila soci: cosa possibilissima in una città che conta circa trecentomila lavoratori, quando la grande maggioranza segue il partito che dice di volere la rivoluzione. Invece a Milano sembrava che gli operai venissero appositamente tenuti lontani dall’organizzazione di partito. I circoli rionali non avevano che una molto scarsa importanza e d’altronde accoglievano solo gli inscritti al partito. Nella sezione gli elementi operai non avevano la possibilità di far sentire la loro voce. La tribuna era sempre occupata dai grandi assi della demagogia riformista e massimalista, che parlavano ore e ore sui grandi problemi della politica internazionale o… comunale; non una discussione seria sui problemi più intimamente operai, come i consigli di fabbrica, le cellule d’officina, il controllo operaio, nella trattazione dei quali anche il più semplice operaio avrebbe avuto una competenza e dei punti di vista da prospettare. Chi lavorava erano i riformisti: lo scheletro intero dell’organizzazione operaia milanese era costituito dai riformisti. Sapientemente scaglionati in tutti i punti strategici più importanti, sapendo lavorare silenziosamente e metodicamente, sapendo piegarsi e scomparire quando il turbine rivoluzionario diventava più violento, i riformisti saldarono fortissime catene entro le quali oggi la classe operaia milanese circola senza neppure accorgersene. Era tipico di Milano e estremamente significativo dell’assenza di una organizzazione rivoluzionaria, il fatto che quando il movimento di piazza raggiungeva il suo massimo, quando da tutti gli angoli della città brulicava la massa fin nei suoi elementi più miseri e più apatici, gli anarchici prendevano il sopravvento nella direzione; quando il movimento era medio e le grosse parole bastavano, allora i massimalisti erano i leoni; quando invece c’era stagnazione e solo le forze più attive organizzate erano viventi, allora la direzione era dei riformisti. Il regime fascista ha ridotto ai minimi termini il movimento di classe: i riformisti trionfano su tutta la linea.
Cosa significa tutto ciò? Che noi, gli operai rivoluzionari lavoriamo molto male. Solo per la nostra incapacità, solo per il nostro torpore, i riformisti sono forti e pare rappresentino le masse. Bisogna quindi imparare a lavorare, bisogna prospettarsi il problema in ogni fabbrica, in ogni casa, in ogni rione, del come lavorare per acquistarsi la simpatia delle grandi masse, della parte più povera della classe operaia che è anche la più numerosa e che darà le più folte e fedeli schiere di soldati alla rivoluzione.
E bisogna discutere e far discutere. Le nostre colonne hanno anche e specialmente questo scopo.

Il partito popolare

Il travaglio al quale la preparazione politica elettorale sottopone il partito popolare è degno di essere seguito con un po’ di serietà e esaminato con attenzione superiore a quella che gli prestano non soltanto gli organi del fascismo, ma anche quelli delle altre correnti politiche italiane. Si è presa l’abitudine di considerare le frazioni in cui il partito popolare si divide in un modo molto meccanico, all’infuori di ogni esame delle forze reali a cui queste correnti fanno capo. E invece quello del partito popolare è proprio il caso in cui le espressioni destra, sinistra e centro non significano nulla per sé, ma acquistano un significato solo in relazione alla struttura dei gruppi sociali che nell’organismo unitario del partito si sono per un certo tempo confusi. Il problema che noi riteniamo si debba porre non è quello della prevalenza della destra o della sinistra, ma quello di vedere se la preparazione politica delle elezioni potrà offrire l’occasione a questi diversi gruppi sociali di trovare ognuno la propria definizione e la propria strada.
Il fascismo considera un suo grande successo l’aver ottenuto il distacco dal tronco unitario del partito di un gruppo di «estrema destra». Si può discutere però se esso abbia ragione. Il «gruppo di estrema destra» è il gruppo dei vecchi cattolici reazionari: aristocrazia nera, proprietari di terre, già legati non tanto al rispetto della Costituzione dello Stato italiano quanto alla conservazione dell’ordine sociale esistente. Che si tratti di gruppi costituzionali, nel senso stretto della parola, lo dimostra il fatto che essi furono l’anima dell’opposizione clericale allo Stato italiano nei primi decenni della sua vita e che allo Stato italiano si ricollegarono solo quando parve e fu necessario sostenerlo per evitare la riscossa degli operai e dei contadini contro di esso. Ma Giolitti, il tipico uomo di Stato conservatore italiano, aveva risolto il problema di legare a sé questi gruppi in modo ben più brillante di quello che ha fatto oggi il fascismo. La sua soluzione permetteva ai cattolici reazionari di mantenere le aderenze di massa che a essi offriva l’apparato democratico della Chiesa, di sfruttare questo apparato nel periodo elettorale per la lotta contro i partiti di classe e di trasformare le forze così raccolte in sostegno permanente dello Stato. Il «patto Gentiloni» fu la schematizzazione evidente di questo sistema.
Fino a che l’estrema destra reazionaria rimaneva nel seno del partito popolare era sempre aperta la via a una...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Prefazione di Christian Raimo
  6. 1916
  7. 1917
  8. 1918
  9. 1919
  10. 1920
  11. 1921
  12. 1922
  13. 1923
  14. 1924
  15. 1925
  16. 1926
  17. Postfazione di Guido Liguori