Capitolo 1
Prima della destra
Non si può parlare di donne a destra prescindendo dall’enorme portato storico, culturale e sociale di tutto quello che è avvenuto da quelle parti prima del 1946, ossia prima della fondazione del Movimento Sociale Italiano. Otto lettere che ancora oggi dividono l’Italia in due, come la lama di un rasoio: fascismo. Un concetto, nel senso più ampio del termine, assolutamente “maschio”. Il fascismo è il corpo di Mussolini ostentato nella mietitura del grano, la mascella prominente sagomata nel bronzo delle effigi dell’impero, i giovani irregimentati in battaglioni che marciano verso orizzonti di presunta gloria, la guerra, le armi, i fasci, la mitologia gladiatoria, il pugnale tra i denti, la trincea. Attraverso la nebbia degli anni e della storiografia repubblicana il fascismo appare un fenomeno politico esclusivamente maschile e machista. Nel canovaccio del Ventennio, le donne vengono raffigurate come comparse che satellitano attorno a un mondo fatto esclusivamente a misura d’uomo. Ma proviamo a uscire dal tinello dell’“angelo del focolare” partendo da una immagine. Milano, 29 aprile 1945. Dalla pensilina della pompa di benzina standard Esso, all’angolo tra piazzale Loreto e corso Buenos Aires, penzolano, come carcasse appese ai ganci nelle macellerie, cinque corpi esanimi. Sono i cadaveri di Benito Mussolini, Achille Starace, Nicola Bombacci, Alessandro Pavolini e Claretta Petacci. Quest’ultima, amante del Duce. Una delle poche donne del fascismo che la storia ricorda, insieme a Donna Rachele, la moglie di Mussolini. Due donne agli antipodi, non solo per questioni personali, ma interpreti di una medesima tragedia e attrici del loro tempo. Dietro due canoni così diversi si nascondono tutte le contraddizioni femminili durante il regime. La vulgata, come dicevamo, racconta di donne periferiche, confinate all’interno delle mura domestiche nel più tradizionale ruolo muliebre, afone nel grande coro della oleografia del regime. Ma è una narrazione e come tale ha dei punti di caduta. «Le donne incontrano nel fascismo quello che sostanzialmente fu volano di modernità – spiega lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco –, nella transizione tra l’Italia rurale e quella dell’irruzione delle masse per la prima volta, in un’Italia sostanzialmente cattolica e quindi in un’Italia che aveva dei riflessi condizionati, le donne furono costrette a uscire di casa. Questo fu l’elemento fondamentale. Ovviamente non dobbiamo giudicare con i nostri occhi quel preciso momento storico, ma lo dobbiamo contestualizzare in forza di obiettività e di analisi e il nostro riferimento deve essere libero. Allora sappiamo perfettamente che l’obbligo fondamentale di modernità portò a questo trauma. Poi nella Repubblica Sociale prese il sopravvento la vera identità del fascismo, che era sostanzialmente una diramazione del socialismo, e ci furono dei riflessi che rispondevano ai codici anche estetici, ai codici di mobilitazione dell’arte, da Fiume fino ad arrivare alla Carta del Carnaro, agli altri tentativi di teorizzazione sociale – sembra inaudito dirlo oggi – arrivavano echi di femminismo e di vocazioni libertarie».
Quindi l’irruzione della civiltà di massa, l’ingresso della vita pubblica e politica in quella privata, l’invadenza di un sistema che vuole “irreggimentare” tutto e tutti, di fatto scuotono l’organizzazione sociale di un’Italia che non ha ancora messo piede nella modernità. Il fascismo, da questo punto di vista, costituisce una spinta propulsiva verso un ruolo differente della donna, che ora deve anche “uscire di casa”.
«Il fascismo italiano, come peraltro tutti i regimi totalitari dell’epoca a cominciare dal comunismo sovietico, ha organizzato le donne, le ha fatte uscire di casa – ribadisce la giornalista, scrittrice ed ex parlamentare Flavia Perina –, ha creato realtà associative, penso alle massaie rurali o allo Zenotdel, il dipartimento femminile russo che propagandava l’iscrizione al partito, che magari adesso ci fanno un po’ ridere ma che all’epoca furono il motore dell’ingresso delle donne nello spazio pubblico, in precedenza impensabile se non per le intellettuali e le nobili».
Le donne vengono dunque mobilitate e in una certa misura arruolate, ma tutto ciò non si traduce in una politica attiva in favore delle istanze femminili, per usare le parole della politica contemporanea. La richiesta di “Suffragio universale a scrutinio di Lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne”, avanzata da Mussolini nel programma di piazza San Sepolcro del 1919 non verrà mai realizzata e neppure durante la Repubblica Sociale, con il suo ritorno alle origini socialiste e rivoluzionarie, il tema fu messo sul tavolo. Eppure, ridurre il fascismo alla sola, sbandierata, virilità è un errore. Dietro la facciata nera del Ventennio si nasconde un sottile filo rosa che inizia nella Fiume di Gabriele D’Annunzio e nelle avanguardie culturali primonovecentesche.
«D’Annunzio era un mito mondiale già prima della Grande Guerra: come poeta, scrittore, drammaturgo, seduttore, amante, dandy, sperperatore, eversore di costumi e mode – scrive lo storico Giordano Bruno Guerri –. Dopo la guerra, era anche un eroe riconosciuto persino dai nemici, umiliati dalle sue imprese beffarde, propagandistiche e coraggiose, la beffa di Buccari, il volo su Vienna... Molti si chiedevano cosa avrebbe fatto, scoppiata la pace, il poeta guerriero ormai cinquantacinquenne. Lui, semplicemente, conquistò una città, come un condottiero rinascimentale, tenendola per sedici mesi, primo – e ultimo – poeta al comando di uno Stato nella storia dell’umanità. Fiume, oggi Rijeka, faceva parte del dissolto Impero austro-ungarico, e benché avesse una maggioranza di popolazione italiana, i trattati di pace l’avevano assegnata alla nascente Jugoslavia. Il 12 settembre 1919 il Vate, ormai chiamato anche “il Comandante”, la occupò alla testa di 2000 “legionari”, perlopiù granatieri che furono dichiarati disertori dallo Stato italiano, ma che in seguito riceveranno onori e medaglie […]. Una massa disorganica, ribollente di sognatori, libertari e idealisti – provenienti da esperienze svariate e stimolati da furori ideologici talvolta di segno opposto – accorse a Fiume vedendovi l’atto spregiudicato capace di disintegrare l’intero sistema di valori della vecchia Europa […]. Per il Vate la causa fiumana simboleggiava la sublimazione della lotta contro una realtà meschina e perpetuava la passione dell’ardimento e della ribellione. Sembrava possibile elevare al potere la fantasia creatrice, modellare senza inibizioni una propria immagine di società ideale in cui i rapporti tra gli uomini fossero svincolati dal formalismo per essere guidati dalla spontaneità e dalla libertà, a partire dall’abbigliamento e dall’aspetto: «Alcuni avevano la barba e si rapavano a zero la testa in modo da somigliare al Comandante», scrisse un osservatore straniero, «altri si erano lasciati crescere enormi ciuffi di capelli, lunghi mezzo piede, che ondeggiavano dinanzi alla fronte, e indossavano, in equilibrio, esattamente dietro la testa, un fez nero. Mantelli svolazzanti e sovrabbondanti e cravatte nere erano universali e tutti – comprese alcune donne – avevano con sé il gladio».
Nel delirio della città occupata di Fiume, in una festa permanente della rivoluzione, c’è quindi spazio anche per le donne. E non solo per quelle che vanno in giro con il gladio. La Carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume, è modernissima e impone l’assoluta parità tra i sessi: «Art. 2 – La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta, che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra, per quanto è possibile, i poteri dello Stato, onde assicurare l’armonica convivenza degli elementi che la compongono».
«La Carta del Carnaro era la Costituzione che avrebbe garantito il governo democratico e rivoluzionario di Fiume – prosegue Guerri –. Il testo rivoluzionario, promulgato l’8 settembre 1920, esprime insieme la personalità politica di De Ambris e quella oracolare di D’Annunzio, teso a renderlo anche una creazione culturale. In entrambi c’era la volontà di farne un esperimento avveniristico, un esempio per futuri Stati svincolati sia dal liberalismo parlamentare sia dal presidenzialismo statunitense. Se un modello c’era, era quello della Serenissima e del cantonalismo svizzero, da cui si traeva l’ispirazione per una democrazia diretta e per la convivenza multietnica. Alla base della vita sociale c’era il cittadino, mentre si voleva annullare o diminuire «la centralità soverchiatrice» dello Stato, «cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre più vigorosa e ricca la vita comune». Lo Stato è «la volontà comune e lo sforzo comune del popolo verso un sempre più alto grado di materiale e spirituale valore». Sviluppando l’essenza del socialismo radicale europeo, la Carta dannunziana fa impallidire molti testi costituzionali vigenti oggi nel mondo, per l’apertura democratica e per l’avanzata spregiudicatezza di molti suoi assunti, che oggi definiremmo libertari. La parità dei sessi veniva stabilita come un dogma inderogabile, ogni cittadino era elettore ed eleggibile a partire dai venti anni».
Ma torniamo alla presenza femminile tra i legionari. «Margherita Besozzi, una delle attiviste più instancabili e libere della Città di Vita, sodale di Gabriele D’Annunzio a Fiume, scriveva: “Sono giovane. Fumo molte sigarette. Me ne frego della crociata contro il lusso, e porto sottovesti di seta e calze di filo. Che pago da me… Amo tutto ciò che è bello. Amo quindi prima di tutto l’amore. Poi me stessa. Poi la patria”. Consapevole di rappresentare un nuovo modello femminile, rilevava: “Donne, è l’ora del vostro risveglio! […] La donna di Fiume non è altro che la madre della donna moderna. Distruggiamo tutto questo passato. Libertà. Spregiudicatezza. Coraggio”. Lei era cugina di Guido Keller – scrive la giornalista Ilaria Rocchi –, asso dell’aviazione della Grande Guerra. Incontrò per la prima volta il Vate proprio a Fiume e gli anni della relazione coincisero con quelli in cui si giocò il destino politico dell’uomo. Fu un po’ la madre delle donne moderne e delle donne di Fiume. La sua emancipazione andava ben oltre la conquista dei diritti (sotto D’Annunzio arrivò il voto e la possibilità di essere elette, mentre già in epoca austro-ungarica era stato concesso il divorzio), ossia puntava all’autonomia totale nella gestione del corpo, dei sentimenti, della sessualità». Una donna assolutamente dannunziana, ma anche e soprattutto moderna e avveniristica. Ma anche unica. Perché la città di vita di Fiume ha catalizzato attorno a sé personalità esuberanti e istrioniche che getteranno le basi di movimenti e sommovimenti, che vedranno la luce mezzo secolo dopo e che, inevitabilmente, si inabisseranno fino a scomparire durante il Ventennio fascista che, se da un lato saccheggerà la liturgia del fiumanesimo – dai discorsi dal balcone al saluto romano, passando per “eja, eja, alalà” –, dall’altro dimenticherà la spinte libertarie e democratiche dell’esperienza dannunziana. Ma tra le poche donne che parteciparono al fascismo sansepolcrista delle origini alcune venivano direttamente da Fiume. «L’impresa fiumana è destinata a mutare parzialmente la fisionomia dell’adesione delle donne al movimento fascista», scrive Marina Maugeri, intellettuale, attivista d’area rautiana della sezione missina dell’Aurelio, nonché animatrice e cofondatrice con Annalisa Terranova e Isabella Rauti del laboratorio culturale Centro Studi futura, nel libro Gli angeli e la rivoluzione. «Le gesta dannunziane infiammano gli animi femminili già sensibili al richiamo patriottico, estendono il consenso a settori più vasti e talora disomogenei fra di loro. A Fiume accorrono infermiere volontarie che hanno prestato l’opera durante la Grande Guerra, come Luisa Zeni, ma vi sono anche poetesse e scrittrici che subiscono il fascino del poeta. Alcune arrivano nella città liberata a capo dei gruppi femminili armati, indossando, come Maria Nascimbene, “sergente volontario delle fiamme nere”, la camicia e il pugnale degli arditi. L’emozione per l’impresa attraversa l’intera Penisola, coincidendo con la nascita di gruppi femminili irredentisti che sorgono nelle principali città e soprattutto al Nord. Anche un certo numero di dame dell’aristocrazia e della borghesia, dedite sino ad allora alle opere di beneficenza e all’assistenzialismo, sono attratte dal fascino eroico del comandante poeta. Fra loro è Elisa Majer Rizzioli, un’infermiera volontaria della Croce Rossa che fonda insieme alla sansepolcrista Ines Norsa Tedeschi e Laura Mottura l’Associazione Nazionale delle Sorelle dei legionari di Fiume e di Dalmazia a Milano. Poco dopo, il 12 marzo 1920, un’altra legionaria istituisce a Monza il primo fascio femminile d’Italia».
Ma già nel Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, movimento che nasce nel nome della totale misoginia, sono impegnate centinaia di donne tra il 1910 e il 1940. Il primo manifesto di Marinetti parla chiaro: «Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna». Lo stesso autore torna sul tema, con qualche precisazione in seguito alle critiche ricevute, nella prefazione a Mafarka il futurista: «Non discuto già del valore animale della donna, ma dell’importanza sentimentale che le si attribuisce. Io voglio combattere l’ingordigia del cuore, l’abbandono delle labbra semiaperte a bere la nostalgia dei crepuscoli, […] io voglio vincere la tirannia dell’amore, l’ossessione della donna unica, il gran chiaro di luna romantico che bagna la facciata del Bordello!».
Eppure, il movimento, in realtà, è permeabile alle artiste donne e Valentine De Saint-Point – scrittrice, poetessa e ballerina francese – il 25 marzo del 1912 risponde direttamente al fondatore con il Manifesto della donna futurista, che costituisce un originalissimo e unico controcanto alle posizioni di Marinetti:
«L’Umanità è mediocre. La maggioranza delle donne non è superiore né inferiore alla maggioranza degli uomini. Esse sono uguali. Tutte e due meritano lo stesso disprezzo. Il complesso dell’umanità non fu mai altro che il terreno di coltura dal quale balzarono i genii e gli eroi dei due sessi […]. È ASSURDO DIVIDERE L’UMANITÀ IN DONNE E UOMINI; essa è composta soltanto di FEMMINILITÀ e di MASCOLINITÀ. Ogni superuomo, ogni eroe, per quanto sia epico, ogni genio per quanto sia possente, è l’espressione prodigiosa di una razza e di un’epoca solo perché è composto, ad un tempo, di elementi femminili e di elementi maschili di femminilità e di mascolinità: cioè un essere completo. Un individuo esclusivamente virile non è altro che un bruto; un individuo esclusivamente femminile non è altro che una femmina […]. Ecco perché il Futurismo, con tutte le sue esagerazioni, ha ragione. Per ridare una certa virilità alle nostre razze intorpidite nella femminilità bisogna trascinarle alla virilità, fino alla brutalità. Ma bisogna imporre a tutti, agli uomini e alle donne ugualmente deboli, un dogma nuovo di energia, per arrivare ad un periodo di umanità superiore. Ogni donna deve possedere non soltanto delle virtù femminili, ma delle qualità virili; altrimenti è una femmina. E l’uomo che ha soltanto la forza maschia, senza l’intuizione, non è che un bruto. Ma nel periodo di femminilità in cui viviamo, solo l’esagerazione contraria è salutare. ED È IL BRUTO CHE SI DEVE PROPORRE A MODELLO […]. Ecco perché nessuna rivoluzione deve rimanerle estranea; ecco perché invece di disprezzare la donna, bisogna rivolgersi a lei. È la conquista più feconda che si possa fare; è la più entusiasta, che, alla sua volta, moltiplicherà le reclute. Ma si lasci da canto il Femminismo. Il Femminismo è un errore politico. Il Femminismo è un errore cerebrale della donna, un errore che il suo istinto riconoscerà. NON BISOGNA DARE ALLE DONNE NESSUNO DEI DIRITTI RECLAMATI DAL FEMMINISMO. L’ACCORDAR LORO QUESTI DIRITTI NON PRODURREBBE ALCUNO DEI DISORDINI AUGURATI DAI FUTURISTI, MA DETERMINEREBBE, ANZI, UN ECCESSO D’ORDINE. L’attribuire dei doveri alla donna equivale a farle perdere tutta la sua potenza feconda. I ragionamenti e le deduzioni del Femminismo non distruggeranno la sua fatalità primordiale; non posson far altro che falsarla e costringerla a manifestarsi attraverso deviazioni che conducono ai peggiori errori. […] CONCLUDIAMO:
La donna, che colle sue lagrime e il suo sentimentalismo ritiene l’uomo ai suoi piedi, è inferiore alla prostituta che spinge il suo maschio per vanagloria a conservare col revolver in pugno la sua spavalda dominazione sui bassifondi della città. Questa femmina coltiva almeno una energia che potrebbe servire migliori cause. DONNE, PER TROPPO TEMPO SVIATE FRA LE MORALI E I PREGIUDIZI, RITORNATE AL VOSTRO ISTINTO SUBLIME: ALLA VIOLENZA E ALLA CRUDELTÀ. Per la fatale decima del sangue, mentre gli uomini guerreggiano e lottano, f...