Il blu non ti dona
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Il blu non ti dona

Romanzo marinaresco

  1. 160 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il blu non ti dona

Romanzo marinaresco

Informazioni su questo libro

Dall'autrice di Inventario di alcune cose perdute, vincitore del Premio Strega Europeo 2020

"Il blu non ti dona", dice a Jenny la nonna. E anche il nonno trova bizzarro che una ragazzina speri di imbarcarsi un giorno: "Le donne sulle navi portano sfortuna". Ma la nipote non si lascia dissuadere, sogna le acque verdazzurre e i cavallucci marini, isole all'orizzonte e una camicia blu da marinaio al posto della sua giacca a vento rossa. Un'infanzia sulla costa baltica della ddr, tra teli a fiori e boe rosse, gemme d'ambra e megafoni che gracchiano dalla torre di salvataggio, si dispiega così in racconti e visioni. Jenny moltiplica e incrocia le linee della Storia e le linee di confine sulle mappe di un atlante: è allo stesso tempo Serioša, Lucy, Claude, Wolfgang. Il blu non ti dona è "un'autobiografia inventata" nella quale i ricordi si impregnano di immaginazione e si mescolano con "le memorie di una gioventù altrui". Come sempre ama fare nei suoi libri, Judith Schalansky sovrappone alla vita reale una moltitudine di ritagli e sfumature e crea un romanzo nel quale le fatemorgane sono isole ben visibili al di là delle onde.

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Informazioni

Editore
nottetempo
Anno
2021
Print ISBN
9788874529377
eBook ISBN
9788874529391
Argomento
Literatura

Capitolo 1

I suoi nonni vivevano al mare. Non si stancavano mai di sottolineare che loro abitavano dove gli altri andavano in vacanza. La nonna lo disse anche quella mattina, mentre versava ancora un po’ di caffè al nonno nella veranda. Lui la fermò con un gesto della mano. Lì accanto sonnecchiava Jenny, dondolandosi leggermente sulla sedia e osservando la mensola sotto la finestra. C’erano i tesori della nonna allineati con cura: una bambola di legno ungherese, un vaso con penne di pavone dall’occhio blu, una collana di corallo rosso fiammante arrotolata come un serpente dentro un portagioie aperto. Un po’ più in là c’era un riccio di mare. Era vuoto, e solo un reticolo di pori sbalzati che gli girava tutt’attorno rivelava dov’erano una volta gli aghi. Con il passare del tempo erano caduti, un mucchio di inutili spilli neri.
Giorno dopo giorno, nei suoi giri pomeridiani per la casa, la nonna li aveva raccolti dalla mensola insieme ai fiori appassiti e ai ramoscelli secchi. A un certo punto il riccio di mare era rimasto spoglio, un resto fossilizzato. Arrivava dalla Iugoslavia. Là, anni addietro, prima ancora che Jenny venisse al mondo, la nonna aveva assistito i bambini affetti da gravi malattie delle alte vie respiratorie che facevano le cure termali. Era stata l’unica volta che aveva preso un aereo. Come testimonianza custodiva in un cassetto una cartolina in bianco e nero. L’immagine ritraeva un aeroplano davanti a un edificio piatto di nuova costruzione e alcune signore in uniforme con gli occhiali da sole che salutavano dalla scala passeggeri, sembrava una delegazione il giorno di un anniversario importante.
Spesso Jenny aveva cercato di capire se fossero in partenza o di ritorno a casa. La nonna aveva raccontato che, in Iugoslavia, nuotando in mare si potevano vedere i cavallucci marini, piccole schiere di strisce danzanti in un’acqua verdazzurra, trasparenti come gelatina alla frutta. Il cavalluccio marino era l’animale araldico di Zinnowitz – un esemplare grazioso. Sorrideva giallo sullo sfondo blu notte, sui guidoni che svolazzavano nella rotonda del lungomare, sulle magliette esposte nella vetrina di un chiosco, sulla porta del municipio dove i villeggianti dovevano pagare la tassa di soggiorno. Ma in mare Jenny non ne aveva mai visto uno, anche se, da quando la nonna ne aveva parlato, li cercava spesso con lo sguardo.
“Ebbene sì, abitiamo dove gli altri vanno in vacanza,” ripeté il nonno, quindi mise da parte la Ostsee-Zeitung, il sottile quotidiano locale, e guardò fuori dalla finestra come se da lì si vedesse il mare.
L’appartamento dei nonni era situato al primo piano di una villa slanciata. Jenny allungò il collo per vedere fuori. Dabbasso la vicina aprì il cancello del giardino e uscì sulla strada tutta buche e dossi. Indossava un grembiule punteggiato di fiori viola che le cadeva dalle spalle quasi non toccasse il corpo magro che vi era sotto. Il suo cane le saltò addosso abbaiando. In cielo qualche gabbiano lanciava grida stridule, ma dell’acqua non si vedeva né si udiva la benché minima traccia. La linea di battigia distava appena un chilometro, proprio come il canneto dell’Achterwasser, un’insenatura del Peenestrom, il braccio di mare che divideva l’isola dalla terraferma.
Mappa della zona
L’Achterwasser iniziava all’improvviso, senza la vicinanza di una duna né di un bosco di pini silvestri. La laguna, ampia e anonima, si trovava alla fine di una strada acciottolata nella parte bassa del paese. Una volta, in primavera, Jenny si era fermata con il nonno sul pontile accanto ai pescatori e aveva fissato le lenze immobili. Per un lungo istante erano rimasti tutti in silenzio. Strano che gli adulti, tra loro, se ne stiano in silenzio, aveva pensato. Guardando l’acqua aveva stentato a credere che sotto quella superficie liscia ci fosse qualche forma di vita. Non si muoveva una foglia. Perfino le canne palustri stavano ritte sulla sponda fangosa come bastoni conficcati lì da qualcuno. Infine il nonno aveva rotto il silenzio facendo qualche osservazione in dialetto basso-tedesco. Sui pesci, il tempo e il vento, anche se non soffiava neppure un filo d’aria. Uno di quegli uomini burberi aveva risposto a monosillabi girando la testa di scatto, con un movimento che ricordava il galleggiante quando abbocca un pesce. Indossava lo stesso berretto di molti altri uomini sull’isola. Il suo era un modello in velluto scuro a coste, come quello che portava anche il nonno sul ciuffo pettinato all’indietro. Con la visiera nera sembrava quasi un berretto da capitano. Così tanti capitani, e neanche l’ombra di una nave. Jenny aveva guardato la piccola armata di barche a remi ormeggiate un po’ più a nord, in un bacino delimitato da picchetti, erano tutte mezze piene d’acqua. Al di là, una lingua di terra si estendeva sulla laguna. Era la penisola di Gnitz, dove avevano trovato il petrolio. Le pompe lavoravano tutto l’anno, annuivano giorno e notte.
Il nonno aveva sfilato la mano destra dalla giacca di pelle e aveva indicato l’acqua salmastra. “Là c’è la terraferma,” le aveva detto. Dal canneto sull’altra sponda si levava il campanile monco di Wolgast, la cui punta era stata distrutta da un incendio molto tempo prima. Non era lontano.
Jenny si annoiava sull’Achterwasser. La laguna non era diversa dai laghi che popolavano l’isola o dal bacino artificiale accanto alla stazione di Wolgast: c’era sempre un’altra sponda e si poteva vederla a occhio nudo. Bastava una lunga passeggiata per girare intorno a tutti i laghi interni dell’isola. Spesso si era arrovellata sul perché quelle masse d’acqua si chiamassero See, al maschile. Per lei erano delle fosse piene d’acqua. Il femminile die See invece indicava solo il mare aperto, dove l’orizzonte giungeva fino al cielo. La parola singolare die See, priva di forme plurali, non lasciava dubbi sul fatto che fosse una cosa unica, e Jenny si figurava questo grande oceano che collegava le coste di tutte le isole e di tutti i paesi arrivando fino alla Iugoslavia, dove i cavallucci marini che un tempo popolavano le coste baltiche dovevano essere migrati, o meglio giunti a nuoto, secoli prima.
Il nonno diede il segnale e lei scivolò giù dalla sedia.
“Ve la siete messa la crema solare?” domandò la nonna mentre loro due indossavano i sandali in corridoio.
“Sì,” si affrettarono a gridare in coro. Ma non servì a nulla. La nonna stava già cospargendo di crema bianca il viso di Jenny. “Per sicurezza,” disse preoccupata.
Finalmente uscirono. La nonna rimase a casa, era lei a occuparsi delle faccende domestiche.
Per non attraversare il paese gremito di villeggianti presero il sentiero che tagliava attraverso il bosco. Lì venivano loro incontro solo persone che il nonno salutava. Toccava fugacemente con l’indice la fascia del suo berretto da capitano, che non toglieva neanche con quella calura. Nella mano sinistra portava una borsa di rafia con dentro gli asciugamani. Jenny teneva stretto a sé il telo frangivento. Era appena più alta del fascio di tubi di plastica grigi tenuti insieme da un pezzo di stoffa a fiori. I suoi occhi sbucavano come profondi bottoni di cuoio da sotto la linea stondata della frangetta che la mamma accorciava ogni mese. Bambina esigente, stava volentieri al centro dell’attenzione, sempre in testa, una brava camminatrice, come diceva il nonno.
Subito cominciò a fare domande. Su quanto fossero alte quel giorno le onde. Sulla temperatura dell’acqua. Sulla visibilità. Jenny si chiedeva se con il mare agitato le condizioni di visibilità fossero buone o cattive, se quando l’acqua era calda le onde fossero più alte di quando era fredda e se in caso di alte temperature si riuscisse a vedere più lontano. Tra queste possibilità doveva pur esserci un nesso. Di certo una cosa era conseguenza dell’altra, probabile che due risposte fossero collegate tra loro, che l’una rendesse l’altra un pochino più possibile.
“Scommetto che il mare oggi è forza quattro,” disse il nonno guardandola con aria di sfida. “La visibilità è ottima,” proseguì, e Jenny fece un cenno di assenso. “E” – s’interruppe per un momento ma poi, prima ancora che lei fosse giunta a una conclusione, disse, come chi sta puntando tutto su una carta: “E la temperatura dell’acqua è di diciotto gradi centigradi”.
Amava indovinare, fare pronostici, supposizioni. D’inverno giocava al totocalcio e d’estate ai dadi, nelle mezze stagioni giocava a skat con un gruppetto di amici e a filetto con la nonna. Per lui il gioco era un calcolo, un’equazione con le variabili, una stima di probabilità. Insegnava matematica nell’unica scuola del posto. Qualche settimana prima aveva consegnato le pagelle. Jenny si immaginava la scena: tutti gli occhi puntati su di lui in un’aula arroventata, nessuno fiatava, e lui prendeva da una pila un quaderno dopo l’altro leggendo i nomi ad alta voce, i bambini si alzavano a uno a uno – prima i più bravi, poi i peggiori – e, quando i quaderni erano ormai finiti, il nonno annunciava la media della classe e mandava tutti in vacanza con un indovinello da risolvere.
Il telo frangivento affondava sempre di più nella spalla sinistra di Jenny. Ma, come si era prefissata, cambiò spalla solo una volta arrivata al castagno. Da lì il tragitto era breve. Presto raggiunsero i pini, che il nonno chiamava Windflüchter, alberi che fuggono dal vento. In effetti erano storti e incurvati dal vento di mare e ormai guardavano tutti in un’unica direzione. Non si curavano della simmetria delle altre aghifoglie e non erano adatti come alberi di Natale. Un fitto strato di piccoli aghi attutiva i passi. A Jenny tornò in mente lo spesso tappeto nella hall dell’Ottobre Rosso, l’enorme albergo della Wismut che si trovava all’altra estremità del paese: un casermone le cui innumerevoli finestre fissavano il mare quasi fossero occhi ciechi e inespressivi.
Il fatto che la facciata non fosse rossa ma azzurro chiaro come una piscina per Jenny rappresentava un mistero, insieme ai laghi sull’isola e al cavalluccio marino sullo stemma. Inoltre nell’Ottobre Rosso, dove di tanto in tanto andavano a fare due passi, regnava un’atmosfera strana: il foyer, quasi sempre vuoto, era arredato con poltrone di velluto blu che sembravano parlare fra loro e l’aria era carica di profumo. Per Jenny l’Ottobre Rosso era un controsenso, illogico quanto le spiegazioni inconsistenti degli adulti quando pretendevano che i loro ordini venissero eseguiti senza discutere. Ogni perché era seguito da un perché sì, e il fatto che non ci fosse una ragione apparente per il nome Ottobre Rosso non faceva che dimostrare il potere di tutti i perché sì. Quel perché sì era l’arma segreta degli adulti. Anche quando Jenny aveva chiesto alla mamma perché il papà dormisse in salotto lei aveva risposto in quel modo. Soltanto il nonno non diceva mai perché sì.
Fotografia dell’albergo Ottobre Rosse
Gli aghi si diradarono e al di là brillava la sabbia fine del Mar Baltico, di cui i nonni andavano fieri come se tanti anni prima fossero stati loro a portarla là con le carriole e ad ammucchiarla un po’ alla volta.
Jenny si sfilò i sandali, legò insieme i laccetti e li lasciò penzolare tra il pollice e l’indice. Senza dire una parola il nonno afferrò il telo frangivento e seguì il sentiero che scavalcava la duna. Lei gli andava dietro a fatica, lentamente, gli occhi rivolti alle dita nude dei piedi che a ogni passo affondavano un po’ di più nella sabbia. Si udivano gli schiamazzi della gente e il mugghio del mare. Ora il nonno avrebbe verificato le sue ipotesi. Aspettò ancora un momento, infine alzò la testa e guardò insù.
Il campo azzurro si estendeva davanti a lei. Si volse da una parte e dall’altra per afferrare in tutta la sua grandezza quel panorama a tre strisce. In basso la sabbia, sopra due sfumature di azzurro, il più scuro al centro. Corone di spuma saltavano come barchette di carta che scuffiassero di continuo. Strizzò gli occhi e scrutò la striscia più ampia per scorgere se, da qualche parte, le onde finivano e l’acqua si appiattiva. Avvistava sempre nuovi punti luminosi, potevano essere un’onda lontana ma anche solo un riflesso del sole.
“Sono qui,” gridò il nonno, e le fece un cenno con la mano. Si era già spogliato, un corpo abbronzato in una folla variopinta di persone, palloni, asciugamani. La spiaggia era gremita. Tutta la Repubblica era in vacanza. La gente del posto ora condivideva il mare con i villeggianti. Il nonno posizionò il frangivento a fiori avendo cura che ci fosse un angolino d’ombra per il sacchetto delle cibarie. Là Jenny lasciò cadere i sandali e cominciò a spogliarsi.
In spiaggia erano tutti nudi. Gli unici a rimanere vestiti erano un pugno di inibiti vacanzieri sassoni e i bambini dell’Istituto cattolico di Sant’Ottone. Costrui­vano castelli di sabbia dietro il cartello, in una zona delimitata della spiaggia, e si cambiavano sotto gli asciugamani. Quando ci infilavano dentro i loro costumi bagnati, le buste di plastica frusciavano.
Il nonno scrutò oltre il frangivento e saggiò la visibilità. Ci aveva preso e sembrava soddisfatto: il tempo era sereno e l’orizzonte un bordo nitidissimo nel campo visivo. A sinistra troneggiava l’isola di Oie con il faro. Quel giorno pareva così vicina da poterla raggiungere a nuoto, ma certe volte veniva inghiottita dalla linea grigia tra acqua e cielo. Quando la Oie si vedeva, la visibilità era buona. Quando non si vedeva, era cattiva.
“Buona visibilità oggi,” disse il nonno indicandola trionfante. L’isoletta era chiusa ai visitatori. Le imbarcazioni dei pescatori e dei velisti non facevano sosta al faro. La Oie esisteva solo in lontananza. Un segno per le navi e per le condizioni di visibilità del nonno. In realtà non era chiaro se la Oie esistesse per davvero. Il nonno non aveva forse raccontato dell’esistenza delle fatemorgane, quelle oasi o isole che apparivano nell’arsura tremolante e si dissolvevano quando ti avvicinavi? Magari anche la Oie era solo una fatamorgana e sarebbe scomparsa semmai qualcuno le si fosse avvicinato. Jenny avrebbe voluto scoprirlo, però i nonni non possedevano una barca. Nemmeno una di quelle piccole barche a remi che si vedevano sull’Achterwasser. Non conosceva nessuno con la barca. Soltanto i coniugi Anger, amici dei nonni, avevano una iolla. Una volta era andata a vedere la loro piccola barca a vela insieme al nonno. La signora Anger stava sistemando le provviste in cabina. Il signor Anger armeggiava con la vela, un telo bianco che Jenny avrebbe tanto voluto toccare. Era rimasta sul pontile con il nonno e aveva provato a memorizzare i nodi. Sapeva che i nodi erano importanti. Che ogni cima, ogni barca aveva il suo nodo, e che doveva essercene uno persino per ogni condizione di visibilità e di mare. Si sarebbe imbarcata volentieri con gli Anger. Anche solo per navigare nella noiosa laguna dell’Achterwasser. Ma prima ancora che il signor Anger avesse mollato gli ormeggi il nonno l’aveva riportata a casa; la nonna li aspettava per il caffè.
Nella sua famiglia non ci si muoveva se non a piedi. Suo padre non era uno di quelli che guidavano una mietitrebbia della Cooperativa di Produzione Agricola, e sua madre non guidava né la gru, né il trattore. I genitori di Jenny, entrambi insegnanti di scuola a Greifswald, non avevano la macchina. Al lavoro ci andavano con l’autobus. A scuola lei era rimasta zitta mentre gli altri bambini elencavano i veicoli dei genitori. Come in un gioco di carte con le macchine, bisognava battere l’avversario a colpi di combinazioni di lettere e numeri. Mandy Sanders aveva nominato l’RS09, altri bambini del gruppo avevano risposto con il W50 o lo ZT303. Quando qualcuno nominava il Kasimir calava il silenzio. Il Kasimir in realtà si chiamava K700 e aveva pneumatici gemellati alti come uomini.
Quando un Kasimir sfrecciava lungo la strada del paese, le Trabant, le Wartburg e le Lada sulla carreggiata opposta accostavano e lo lasciavano passare. Jenny una volta aveva sentito dire che il Kasimir era così potente da poter trainare un aeroplano.
“Il Kasimir è così potente che può trainare un aeroplano,” aveva detto allora rompendo il silenzio.
Fotografia di un Kasimir
La sua famiglia non aveva mezzi di trasporto. Loro aspettavano l’autobus. Prendevan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nota dell’editore
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Indice delle illustrazioni