Joseph Pulitzer
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Joseph Pulitzer

L'uomo che ha cambiato il giornalismo

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Joseph Pulitzer

L'uomo che ha cambiato il giornalismo

Informazioni su questo libro

Pubblicato nel 1914, il libro di Alleyne Ireland è una vera riscoperta che arriva per la prima volta in Italia e che, nell'anno del centenario dell'assegnazione del primo Premio Pulitzer, permette di conoscere da vicino il genio visionario dell'uomo che ha cambiato il giornalismo.Joseph Pulitzer, giornalista ed editore ungherese naturalizzato statunitense, emigrò negli Stati Uniti nel 1864. Dopo aver combattuto con le truppe unioniste nella Guerra civile, fu corrispondente della "Westliche Post" e ne divenne in breve direttore e proprietario. Nel 1883 comprò il "New York World", che raggiunse rapidamente un'altissima diffusione. In pochi anni la sua figura venne ad avere una straordinaria influenza sulla politica americana e sul mondo della carta stampata, diventando un paladino della libera stampa e di un modo di intendere il giornalismo come servizio pubblico. Con la stessa velocità del suo successo, però, una vita frenetica e lo stress per i molti attacchi ricevuti da nemici e detrattori minarono le sue condizioni di salute. Pulitzer divenne cieco e, a partire dai primi anni del Novecento, fu costretto a passare buona parte dell'anno sul suo yacht lontano dal mondo e circondato da solerti segretari che si occupavano di lui. Non per questo smise di dedicarsi al giornale grazie al lavoro certosino dei suoi uomini che lo seguivano in ogni momento della giornata. Alleyne Ireland fu uno di loro e nel libro ripercorre il suo rapporto con questo incredibile e carismatico personaggio. Ireland racconta questo capo bizzoso, ma allo stesso tempo dotato di infinita gentilezza, malato, ma sempre concentrato sul lavoro, apparentemente chiuso nel suo mondo, ma capace come pochi altri di capire la complessità; quello che esce dal libro è il ritratto unico di un uomo straordinario.

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In navigazione nel Mediterraneo

In teoria, un mese nel Mediterraneo a bordo di uno dei più bei panfili in circolazione, con puntate in Corsica, all’Elba, a Nizza, Cannes, Napoli, Genova, Siracusa e al Pireo, dovrebbe promettere una piacevole e suggestiva raccolta di descrizioni dei luoghi visitati, una sorta di diario nel quale i punti di vista della Baedeker e del tassista locale si mescolano, per fare arrivare l’aroma del viaggio alle narici dei cugini d’acqua dolce.
Ciò che di questa fragranza di lussuoso vagabondare manca al mio racconto, dovrà essere compensato dal particolare interesse suscitato da una crociera che violava ogni tradizione degli annali della navigazione, creando precedenti che, con ogni probabilità, finché il ferro galleggerà sull’acqua, non si ripeteranno mai più.
Avvolgere ogni suo movimento nel mistero faceva parte dello schema di vita nautica del signor Pulitzer. Uno dei risultati era che, quando eravamo sul panfilo, non sapevamo mai dove stessimo andando fino a che non vi arrivavamo. La rotta seguita non tradiva alcunché delle intenzioni del signor Pulitzer, perché potevamo andare a dormire la sera con l’imbarcazione inequivocabilmente diretta a Napoli, e svegliarci il mattino a tre miglia a sud del faro di Genova.
Stravaganze del signor Pulitzer a parte, le nostre erratiche manovre erano influenzate dalla necessità di sfruttare al meglio i venti per avere sempre bel tempo, da una parte perché J.P., per quanto reggesse in modo eccellente il mare, odiava il dondolio prodotto dalle onde al traverso che interferiva con le sue passeggiate in coperta; e dall’altra perché alcuni dei segretari, non appena la chiglia iniziava a muoversi, soffrivano di mal di mare.
Il signor Pulitzer non era uomo incline ad accettare scuse, ma era arrivato a rendersi conto che né il senso del dovere, né la speranza di una ricompensa, né la paura o il coraggio, potevano trasformare un uomo che soffriva di mal di mare in una piacevole compagnia. Così, a meno che non ci fosse una ragione importante per cui dovevamo raggiungere un porto, puntavamo sempre in direzione opposta a qualsiasi vento più forte di una leggera brezza, seguendo il tempo atmosferico fino a trovarlo buono a destinazione.
Non appena lasciammo Mentone, il signor Pulitzer avviò il processo di istruzione inteso a rendermi idoneo al suo servizio.
«Quando eravate a New York», chiese, «quali giornali leggevate?»
«Il “Sun” e il “Times” la mattina e l’“Evening Sun” e l’ “Evening Post” la sera», risposi.
«Per Dio! Non leggevate il “World”?»
«Solo l’editoriale.»
«Perché no? Che cos’ha che non va?»
Gli spiegai che non ero interessato ai crimini e alle catastrofi, ai quali il «World» dedicava tanto spazio, che volevo più notizie dall’estero di quante trovasse modo di pubblicarne il suo giornale, e che mi infastidivano i titoli a caratteri cubitali perché mi costringevano a conoscere cose che non volevo sapere.
«Continuate», disse lui, «il vostro punto di vista non ha alcuna importanza, ma è divertente.»
«Be’», proseguii, «penso che il “World” sia stato descritto in modo eccellente qualche anno fa, da “Life”. C’era una poesia intitolata Elenco (rivisto) dei giornali newyorkesi, nella quale a ognuno dei grandi fogli cittadini erano dedicati alcuni versi. Credo di riuscire a ricordare quelli che parlavano della vostra testata, se vi interessa ascoltarli, perché ho ritagliato la poesia e l’ho conservata tra i miei articoli.»
«Certo, andate avanti.»
Così recitai:
«Una doppia personalità trapela dalle sue pagine,
a volte è ignobile d’indole, a volte patriottico e saggio;
nei fatti mescola verità a scempiaggine,
ma ai suoi editoriali dobbiamo rendere omaggio.
Un oculato consiglio qui, fandonie senza senso là,
se a pagina sei è Jekyll, a pagina uno è Hyde, si sa;
moderato e avventato in egual misura,
il “World” offre buone opinioni, ma anche spazzatura.»
«Arguta», disse il signor Pulitzer, «ma sono sciocchezze, a parte quando parla degli editoriali. Avete il ritaglio con voi? Mi piacerebbe sentire che cosa ha da dire questo brillante giovanotto degli altri giornali.»
Andai in cabina, presi la poesia e gliela declamai per intero: spiritose caratterizzazioni dell’«Evening Post», del «Sun», del «Journal», del «Tribune», del «Times» e dell’«Herald». Quando ebbi terminato il signor Pulitzer commentò: «L’uomo che ha scritto questi versi ha i suoi pregiudizi, ma è intelligente. Sono felice che me li abbiate letti; leggetemi sempre cose di questo tipo, brillanti e satiriche. Ora vi insegnerò una cosa sui giornali, perché voglio che capiate il mio punto di vista. Non importa che siate d’accordo, per essermi in qualche modo utile, però, dovrete comprenderlo. Prima di cominciare, vorrei che mi diceste quali sono le vostre idee riguardo alla conduzione di un quotidiano rivolto al pubblico americano».
Avanzai la scusa di non aver mai pensato molto alla questione, e di avere pochi elementi a farmi da guida, a parte le mie personali preferenze e il ricordo di occasionali conversazioni, avvenute qua e là in qualche club o nel fumatoio di una carrozza Pullman. Ma lui insistette, e così mi lanciai in un discorso sulle funzioni, i doveri e le responsabilità di un quotidiano americano, come immaginavo li intendesse il lettore statunitense medio.
Dissi che il dovere principale di un caporedattore era quello di consegnare ai propri lettori un giornale interessante e che, come un pescatore metteva l’esca all’amo non secondo ciò che piaceva a lui, ma secondo ciò che piaceva al pesce, così lo stile del giornale avrebbe dovuto essere adattato a quello che il caporedattore giudicava essere l’appetito del pubblico.
Le colonne di cronaca avrebbero dovuto avere un fondo di verità, ma dato che un incendio da un milione di dollari era più eccitante di uno da mezzo milione, e che mille morti in un terremoto erano più eccitanti di cento, nel controllare le cifre dell’ispettore assicurativo o nel contare i morti non c’era bisogno di essere troppo scrupolosi. Ciò che voleva il pubblico era una buona «storia» e, per dargliela, nessuno si sarebbe sognato di censurare una generosità aritmetica chiamata a soddisfare le ben note richieste dei lettori.
Per quanto riguardava la politica da seguire, ritenevo che qualunque giornale potesse ottenere il maggiore sostegno alle proprie idee pubblicando la verità e nient’altro che la verità, pur usando un po’ di discrezione nel pubblicare tutta la verità. Aggiunsi che gli editoriali potevano essere considerati un elemento di costume, più che una guida. Le persone non guardavano più alle loro colonne per formarsi un’opinione. Si formavano un giudizio da una grande quantità di fatti – veri, quasi veri o nemmeno lontanamente vicini al vero – e poi compravano un giornale allo scopo di ottenere un’adeguata rassicurazione. Non avevo dubbi che, a un quotidiano gestito per assecondare i miei gusti personali – una combinazione della pagina editoriale del «World» e le notizie e il layout dell’«Evening Post» –, sarebbe mancata l’influenza che solo una larga diffusione può conferire, e che sarebbe finito in bancarotta con i suoi azionisti.
Questo sfogo vagamente cinico attirò un travolgente fiume di proteste da parte del signor Pulitzer.
«Per Dio!», esclamò, «non avrei mai creduto che qualcuno potesse mostrare una tale completa ignoranza del carattere degli americani, dell’alto senso del dovere che in generale anima il giornalismo americano, delle basi di integrità sulle quali quasi tutti i giornali di successo degli Stati Uniti sono stati fondati. Voi non sapete quanto mi costi cercare di mantenere il “World” a uno standard di accuratezza elevato: il denaro, il tempo, il pensiero, le lodi, il biasimo, la costante vigilanza. Non dico che il “World” non faccia mai errori, nelle sue colonne di cronaca; magari potessi. Quello che dico è che i giornali che negli Stati Uniti alterano le notizie, che pubblicano ciò che sanno essere falso, non arrivano a una mezza dozzina. Ma se pensassi di non aver fatto di meglio, mi vergognerei di possederne uno. Non è sufficiente astenersi dal pubblicare notizie false, non è abbastanza fare attenzione a evitare gli errori che possano nascere dall’ignoranza, la trascuratezza, la stupidità di uno o più dei molti uomini che maneggiano le notizie prima che vengano pubblicate. Bisogna fare molto di più; bisogna fare in modo che tutti coloro che hanno un qualche rapporto con la testata – redattori, reporter, corrispondenti, revisori, correttori di bozze – credano che l’accuratezza sia per un giornale ciò che la virtù è per una donna. Quando andrete a New York, chiedete a chiunque della redazione di mostrarvi le mie istruzioni, le lettere che scrivo loro giorno dopo giorno, i cablogrammi; e vedrete che accuratezza, accuratezza, accuratezza è la prima cosa che pretendo da loro, la più importante e quella che ribadisco di continuo.
«Il “World” non è certo l’unico giornale a fare sforzi straordinari per essere accurato; al contrario, credo che quasi tutti i giornali d’America cerchino di esserlo. Vi dirò di più. Non c’è testata di una qualche importanza, pubblicata in francese, tedesco o inglese, stampata in Europa o in America, che io non abbia studiato per settimane o mesi e alcune le ho addirittura lette regolarmente per un quarto di secolo. Dopo anni di esperienza, dopo aver fatto fare centinaia di confronti, a campione, delle diverse versioni dello stesso evento posso affermare questo, signor Ireland: la stampa americana ha nel suo complesso uno standard di accuratezza più elevato della stampa europea. E vi dirò di più. Vi dirò che, riga per riga, i giornali americani raggiungono realmente uno standard di accuratezza più elevato dei giornali europei; e vi dirò ancora di più: che, anche se in Europa ci sono alcune testate, per lo più inglesi, accurate quanto le migliori d’America, non ci sono giornali in America così abitualmente e vergognosamente pieni di false notizie quanto i peggiori tra gli europei.»
Il signor Pulitzer si interruppe per chiedermi se ci fosse un bicchiere d’acqua sul tavolino (eravamo nella sua biblioteca) e, dopo che glielo ebbi passato e lui lo ebbe bevuto quasi tutto in una sorsata, riprese la lezione. La riproduco con grande dovizia di dettagli perché fu il discorso più lungo che mi fece e perché in seguito mi chiese di trascriverlo a memoria per poi leggerglielo, e perché fu una delle poche occasioni, nel corso del nostro rapporto, in cui sono oltre ogni dubbio convinto che parlasse con assoluta franchezza, senza che le sue parole fossero influenzate da considerazioni esterne.
«In realtà», continuò, «le critiche che sentite sulla stampa americana, sono basate su un’avversione per i nostri titoli e per il rilievo che diamo al crimine, alla corruzione negli uffici e agli argomenti sensazionali in generale; l’accusa di inaccuratezza fatta alla stampa viene aggiunta per farla sembrare peggio. Non credo che una sola persona su mille, tra quelle che attaccano la stampa americana per la sua approssimazione, si sia mai presa il disturbo di investigare i fatti. Ora, riguardo al sensazionalismo: un giornale dovrebbe essere scrupolosamente accurato, dovrebbe essere onesto, evitare tutto ciò che è volgare o allusivo, tutto ciò che potrebbe offendere il buon gusto o abbassare la levatura morale dei suoi lettori; ma, entro questi limiti, è dovere dei giornali pubblicare le notizie.
«Quando parlo di buon gusto e grande levatura morale, non intendo il genere di buon gusto che si sente offeso da ogni riferimento alle cose spiacevoli della vita, non intendo il genere di moralità che rifiuta di riconoscere l’esistenza dell’immoralità (quel genere di moralità ipocrita ha contribuito al rallentamento del progresso etico dell’umanità più di tutta la gente immorale messa insieme), ciò che intendo è il genere di buon gusto che pretende che la franchezza vada di pari passo con la decenza, il genere di levatura morale che, di fronte al vizio, si fa trovare preparata e reattiva. Alcune persone cercano di farvi credere che un giornale non dovrebbe dedicare spazio a lunghi e drammatici resoconti di omicidi, disastri ferroviari, incendi, linciaggi, corruzione politica, appropriazioni indebite, frodi, bustarelle, divorzi, quello che volete. Io vi dico che hanno torto, e credo che, se ci pensassero bene, lo riconoscerebbero. Gli Stati Uniti sono una democrazia, e c’è un solo modo di far camminare una democrazia sulle proprie gambe, in materia di condotta individuale, sociale, municipale, statale, nazionale, e cioè tenendo informato il pubblico su ciò che accade.
«Non c’è crimine, stratagemma, trucco, truffa, vizio che non prosperi nella segretezza, ma portate queste cose allo scoperto, descrivetele, attaccatele, ridicolizzatele sulla stampa e, prima o poi, l’opinione pubblica le toglierà di mezzo. La divulgazione può non essere l’unico rimedio necessario, ma è quello senza il quale tutte le altre azioni falliranno. Per essere davvero al servizio del pubblico, un giornale deve avere una grande diffusione; innanzitutto perché le sue notizie e osservazioni devono raggiungere il maggior numero possibile di persone, e, in secondo luogo, perché diffusione significa pubblicità, pubblicità significa denaro e denaro significa indipendenza. Se scoprissi che qualcuno al “World” ha soppresso una notizia perché uno dei nostri inserzionisti si è opposto alla sua pubblicazione, lo licenzierei immediatamente; non mi interesserebbe di chi si tratta. Quello di cui ha bisogno un giornale nelle proprie notizie, nei propri titoli e nei propri editoriali è concisione, umorismo, capacità descrittiva, satira, originalità, un bello stile letterario, una sintesi intelligente e accuratezza, accuratezza, accuratezza!»
Il signor Pulitzer fece questo discorso con il calore derivante da una fede incrollabile, parlando, come faceva sempre quando era eccitato, con vigore, enfasi e un ampio gesticolare. Quando ebbe terminato e chiese un altro bicchiere d’acqua, non trovai niente da dire. Dichiararmi d’accordo con lui sarebbe stato altrettanto irriguardoso che dissentire.
Dopotutto, dovevo ricordare che aveva preso in mano il «World» quando la sua tiratura era meno di quindicimila copie al giorno; che ne era stato per trent’anni – e lo era ancora – lo spirito dominante e l’autorità definitiva su ogni questione che aveva a che fare con la politica, lo stile e i contenuti; che aveva visto la distribuzione mattutina del giornale salire ben al di sopra delle trecentocinquantamila copie al giorno; che a volte aveva preso posizione con coraggio contro il clamore popolare, come quando aveva tenuto viva per mesi una pungente polemica contro l’intervento americano nella disputa per la frontiera venezuelana; e a volte era incorso nell’ostilità di potenti e danarosi interessi, come quando aveva costretto l’amministrazione di Cleveland a vendere al pubblico, all’asta, cinquanta milioni di dollari in obbligazioni che la stessa amministrazione aveva deciso di cedere privatamente a un grande istituto bancario a un prezzo molto più basso di quello di mercato.
Prima di abbandonare l’argomento giornali, potrei descrivere il metodo con il quale il signor Pulitzer seguiva le notizie e, anche a distanza, riusciva a mantenere una supervisione critica sul «World».
Per questo era stata elaborata una raffinata organizzazione. Spiegherò come funzionava quando ci trovavamo sul panfilo, ma il sistema era attivo in ogni momento, che fossimo in navigazione oppure a Cap Martin, Bar Harbor, Wiesbaden o altrove, cambiando solo piccoli dettagli per andare incontro alle condizioni del luogo.
Al Pulitzer Building, in Park Row a New York, venivano raccolte ogni giorno alcune copie di tutti i giornali del mattino, incluso il «World», e di alcuni di quelli della sera che venivano quotidianamente spedite al signor Pulitzer, secondo le istruzioni ricevute per cablogramma riguardo al luogo in cui ci saremmo trovati. Oltre a ciò, un collaboratore del «World» che aveva una lunga esperienza in merito alle esigenze del signor Pulitzer tagliava, da tutti i giornali newyorkesi e da un numero di altre testate di ogni parte degli Stati Uniti, gli articoli di cui il signor Pulitzer doveva venire a conoscenza, per argomento, tenore o stile. Questi ritagli venivano spediti a centinaia con quasi ogni piroscafo veloce che faceva rotta per l’Europa. Affinché potessimo leggerli con il minor dispendio di tempo possibile, le parti importanti di ognuno venivano evidenziate.
Per quanto riguardava il «World», veniva spedita copia di ogni uscita, con i nomi degli autori scritti di traverso su ogni editoriale, ogni articolo di cronaca importante o ogni pezzo speciale.
Mentre ci spostavamo di porto in porto, ricevevamo le principali testate francesi, tedesche, austriache e italiane, e la sede di Londra del «World» ci riforniva regolarmente di quotidiani e settimanali inglesi.
Ogni qualvolta andavamo a prendere un lotto di giornali americani, ognuno dei segretari ne riceveva una parte e si metteva subito a leggere. Dopo molti consigli del signor Pulitzer e consultazioni con i membri dello staff dotati di più esperienza, adottai il mio metodo, che immagino non differisse in modo sostanziale da quello seguito dagli altri.
Leggevo per primo il «World», esaminando le «grosse» storie con abbastanza attenzione e concentrazione da farmi un’idea chiara dei fatti. Poi leggevo gli articoli degli altri giornali sullo stesso argomento, prendendo nota delle differenze sostanziali nei vari resoconti. Il compito si risolveva in pratica nel padroneggiare nei dettagli cinque o sei notizie – ad esempio una situazione politica, un omicidio, un disastro ferroviario, un incendio, uno s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La regola della verità di Marco Imarisio
  3. Prefazione all’edizione del 1914
  4. Prefazione all’edizione del 1920
  5. L’improba selezione
  6. L’incontro con Joseph Pulitzer
  7. La vita a Cap Martin
  8. In navigazione nel Mediterraneo
  9. Imparando a conoscere il signor Pulitzer
  10. Wiesbaden e un viaggio nell’Atlantico
  11. Bar Harbor e l’ultima crociera
  12. Cronologia