I sovranisti
eBook - ePub

I sovranisti

Dall'Austria all'Ungheria, dalla Polonia all'Italia, nuovi nazionalismi al potere in Europa

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

I sovranisti

Dall'Austria all'Ungheria, dalla Polonia all'Italia, nuovi nazionalismi al potere in Europa

Informazioni su questo libro

Dall'Ungheria di Orbàn all'Austria di Kurz, dalla Polonia di Kaczynski all'Italia di Salvini, Bernard Guetta ha attraversato l'Europa in mano ai sovranisti. Chi sono e che cosa vogliono queste nuove forze politiche? Nazionaliste, xenofobe e conservatrici, tutte sono nate dalla fine della socialdemocrazia e della democrazia cristiana, le due forze che hanno dominato in Europa dal 1945. Si oppongono al liberalismo, economico e politico, e vorrebbero cancellare l'illuminismo, letto come l'origine dei mali della modernità. Come succede in altre parti del mondo, gli elettori europei puntano più sulla forza che sulla trattativa, aprendo una nuova epoca storica. Se insieme sembrano formare un'unica ombra minacciosa, i poteri sovranisti che Guetta ha incontrato sono profondamente diversi, figli di storie nazionali distinte e di realtà che non sempre si parlano tra loro.Con questo libro Bernard Guetta ci consegna un'indagine sul campo e lancia un avvertimento: ricostruiamo un consenso, troviamo un nuovo compromesso tra gli europei prima che l'Unione si disgreghi e che l'oscurantismo la inghiotta.Con questo libro comincia il viaggio attorno al mondo di Bernard Guetta.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a I sovranisti di Bernard Guetta, Anna Bissanti in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Politica e relazioni internazionali e Politica europea. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Ungheria

«Ma è chiarissimo!» mi aveva risposto con un pizzico di irritazione, quanto meno di stupore. Gli avevo appena chiesto come spiegasse il successo di Viktor Orbán, il suo mito eletto capo del governo per tre volte dal 2010, e Lánczi Tamás – in ungherese il cognome precede il nome – si era dunque lanciato in un affresco dell’Ungheria dopo la caduta del Muro.
«Quando si è consumato il fallimento del comunismo» ha detto, «la gente pensava che tutto sarebbe diventato straordinario, ma l’ideologia del mondo libero ha partorito un disastro». Giovane (ha quarant’anni) e politologo di formazione, Lánczi Tamás è redattore capo di «Figyeló´», organo settimanale dell’orbanismo, ed ecco che si lancia in una discussione di un’ora contro i liberali e il liberalismo, quei quattro gatti, quei rognosi, quei pendagli da forca, responsabili della «privatizzazione forzata di tutta l’economia, settori strategici inclusi», del «milione e mezzo di disoccupati» che ne sono derivati o della «semi-scomparsa» del settore agroalimentare, eccellenza dell’Ungheria socialista.
«Il gas è stato privatizzato in soli tre giorni» prosegue, «e a vantaggio di chi? Di Francia e Germania! A vantaggio di altre società pubbliche che, però, erano straniere! Gli ungheresi a quel punto hanno identificato le privatizzazioni con la povertà e con la perdita della dignità nazionale. Hanno pensato di essere stati derubati, che i traditori fossero liberali e sono i liberali i più criticati per il modo in cui è avvenuta la transizione».
Mi propone un caffè. Americano? Italiano? Lo chiedo lungo, ma non americano, francese. Sorride ma, nel ronzio di sottofondo della macchina del caffè a capsule, ho pensato che quei “liberali”, mangiatori di uomini e nemici del popolo, li avevo conosciuti quasi tutti a metà degli anni Settanta, quando erano dissidenti, insolenti, coraggiosi, molto più giovani di quanto non sia Lánczi Tamás oggi, e di sinistra, anticomunisti e di sinistra, figli degli anni Sessanta proprio come me. Il giorno prima, uno di loro, Magyar Bálint, diventato uno dei più aggressivi antagonisti di Orbán dopo essere stato ministro liberale dell’Istruzione, mi aveva detto: «Abbiamo cominciato denunciando il divario tra l’ideale comunista e la realtà. In seguito, ci siamo resi conto che la realtà affondava le sue radici nell’ideale e alla fine siamo diventati liberali» all’anglosassone, nel vero senso della parola, intendeva dire, liberali tanto in politica quanto in economia.
Il caffè alla francese è perfetto, e lo stagista che me lo porta è pettinato con cura, come il suo capo. La moquette attutisce il rumore dei passi. I mobili sono di fattura scandinava. Tutto è armonia in questo giornale, fin troppo in ordine per essere una redazione. Nessuno qui sembra averci rimesso nella transizione verso il capitalismo, ma il mio ospite attacca con un elogio del comunismo, un elogio in filigrana, probabilmente avventato ma pur sempre un elogio, in sintesi, della quiete comunista che avrebbe preceduto l’inferno liberale.
È strano anche che all’inizio della nostra intervista, quando parlava dell’«ideologia del mondo libero», ne abbia parlato come l’avrebbe fatto un magnate della stampa comunista quarant’anni fa. È ancor più sorprendente che l’orbanismo si consideri la vera rottura con il comunismo, con le sue reti, la sua cultura e il male che incarnava. Mi trovo davanti il direttore di un settimanale conservatore che, questa settimana, denuncia gli “studi di genere”, a quanto pare promossi dai liberali con la stessa perversione che userebbero per fare dell’Ungheria una società multiculturale, aprendo le frontiere all’immigrazione, e quest’uomo mi dice che…
«Dopo quarant’anni di comunismo – quattro decenni di cui tutti conoscevano le regole, durante i quali le cose erano chiare e la gente poteva sì dire di essere povera, ma di godere di una certa stabilità – ecco che all’improvviso tutto è nuovo, sconvolgente, inquietante. Ci sono la droga, la criminalità, la miseria assoluta, la disoccupazione. Le persone aspirano a un ritorno alla stabilità e i liberali rispondono che sta a loro trovare la strada e che non possono aspettarsi tutto dallo Stato».
Lo interrompo. Non avrei dovuto, perché non sono lì per discutere quello che mi viene detto, ma per ascoltare e vedere, tentare di comprendere le ragioni altrui e sondare questo nuovo mondo che, forse, diventerà il mondo. Era la realtà, gli ho chiesto, oppure quello che provavano i più deboli, a causa della disoccupazione? Lánczi Tamás, indignato che io possa aver formulato quella domanda, ribatte: «Ma no, era la realtà! Negli anni Novanta l’inflazione era al 30 per cento e l’unica risposta dei liberali era: “arrangiatevi!” Erano arroganti, corrotti e, in nome dell’economia di mercato, hanno privatizzato le aziende ungheresi al 30 per cento del loro valore. Per colpa loro, l’Ungheria ha perso i due terzi della sua ricchezza!».
Potevo ribattere che, una volta scomparso il Comecon, il mercato comune del blocco sovietico, le aziende ungheresi avevano perso davvero molto del loro valore e che la criminalità e la droga c’erano anche prima dell’inferno liberale, ma stavolta riesco a stare zitto e Lánczi Tamás passa subito all’altro grande peccato del liberali, quel “relativismo etico” che vorrebbero importare dall’Occidente perché lo condividono.
Dopo la caduta del Muro, mi spiega, l’Ungheria poteva scegliere fra tre modelli: quello scandinavo, quello anglosassone e quello tedesco “alla Kohl”. Ebbene, i liberali non hanno imposto né la democrazia cristiana tedesca né la socialdemocrazia scandinava, bensì il liberalismo anglosassone proprio quando «la società era molto conservatrice sotto il comunismo, e lo è ancora oggi». Tra i liberali e il primo primo ministro del postcomunismo, Antall József, conservatore prudente e moderato, ci sono stati, racconta, grandi diverbi sul ruolo da dare al cristianesimo e sui nuovi simboli dello Stato ungherese, su ciò che occorreva aggiungervi dei grandi momenti della sua Storia passata.
Credo di aver capito, gli ho detto: c’erano quelli che volevano integrarsi nel secolo presente e quelli che volevano riallacciarsi al passato della Storia nazionale, ma la sua smorfia mi dice che non è così. «I liberali» mi corregge, «volevano farci assimilare il modello occidentale, ma gli ungheresi si sono accorti che avrebbero perso la loro sovranità e in molti sentivano che i valori occidentali non erano più quelli di prima.»
Ed eccoci al punto. Per i sostenitori di Orbán, l’Europa occidentale è entrata in decadenza voltando le spalle alla sua fede cristiana, legalizzando il matrimonio tra omosessuali e aprendo le frontiere all’immigrazione musulmana. Nelle parole di Lánczi Tamás, suona così: «Noi, noi ungheresi, pensiamo che la nostra società si basi sulla famiglia, l’identità nazionale e la cultura cristiana. Per noi, uomini e donne sono uguali, cosa che non sono nell’islam, e ci accorgiamo che a ovest, da voi, questa uguaglianza è rimessa in discussione dall’affermarsi della cultura musulmana e dal multiculturalismo che ne consegue».
Davvero? Pensa davvero che in Europa occidentale le donne siano meno uguali agli uomini di quanto non fossero quando la religione era più presente? Un’altra smorfia mi dice che, in ogni caso, questa è la tendenza, per colpa dell’islam naturalmente, e prosegue: «La nostra Costituzione definisce il matrimonio come l’unione di un uomo e di una donna e noi non vogliamo che questo cambi». Sul finire della frase, la voce si fa più decisa. Pronuncia le sillabe ben scandite, quasi staccate, tutto molto chiaro, netto, definitivo. Nei Paesi occidentali non si ha un’idea precisa di quanto il matrimonio gay abbia scioccato e inorridito Paesi come l’Ungheria, dove si arriva quasi, e sto esagerando ma non troppo, a sospettare che “Bruxelles” voglia far sposare tutte le ungheresi anziane a rifugiati afgani.
L’Ungheria di Orbán difende le sue origini, le sue buone usanze e la sua identità nazionale contro i maomettani e «le lobby gay di Bruxelles e di Strasburgo», del parlamento e della Commissione. Sì… Ovvio… Annoto tutto, ma… Non riesco a fare a meno di dirgli che, comunque, nessuno degli Stati membri vuole imporre il matrimonio gay, e quand’anche fosse, nessun trattato gliene conferirebbe il potere, non più che alle istituzioni europee! «E invece sì!» mi risponde, «c’è la Corte di Giustizia europea che potrebbe imporlo in tutta l’Unione, nel nome del “principio di uguaglianza”.»
E continua: «Noi non vogliamo vivere come voi! Non vogliamo lasciare a Bruxelles il diritto di legiferare al posto nostro!» Cedo. Faccio quello che mi ero ripromesso di non fare. Forse, gli dico, ma con queste diatribe contro l’Unione finirete con il distruggerla. Il vostro primo ministro caldeggia la formazione di un esercito europeo, ma né lui né lei avete intenzione di sentir parlare di una politica estera comune senza la quale non ci sarà una Difesa comune.
Lánczi Tamás ha la risposta pronta: «Qual è il nesso tra il matrimonio gay e la politica estera comune? Tra la politica estera comune» si è riscaldato, «e il matrimonio gay, l’apertura delle frontiere e l’immigrazione?». Lapidaria, la sua domanda sottintende che le politiche comuni devono essere strettamente limitate all’essenziale e che l’Unione politica non dev’essere una uniformazione. E se rispondessi che nessuno propone di ritornare sulla questione della diversità delle identità europee, che è una fantasia, che sarebbe impossibile, vista la situazione, e che un’Europa federale sarebbe invece arricchita dalle sue differenze?
Sarebbe fatica sprecata. Di sicuro, non avrei la meglio ma, senza far trasparire la mia prostrazione, finisco di annotare le sue frasi mentre lui mi ringrazia calorosamente di averlo ascoltato «invece di darmi del fascista xenofobo come fanno tanti suoi colleghi occidentali». Ne è così sorpreso e felice da accettare di intercedere con suo padre, rettore dell’Università di Budapest, filosofo e anche lui strenuo difensore di Viktor Orbán che, di norma, non riceve la stampa. Lánczi padre, András, mi avrebbe ricevuto all’ora di pranzo cinque giorni dopo, e io nel frattempo mi dirigo all’appuntamento con un giovane franco-ungherese, trasferitosi a Budapest perché ammira Viktor Orbán, e anima il Visegrad Post, sito dedicato all’Europa centrale e crocevia delle destre più a destra in Europa.
Questo trentenne mi sorprende piacevolmente o «delude in positivo», come dicono a Ginevra.
Non soltanto non ha il cranio rasato che mi aspettavo, non soltanto la sua barba fitta e i folti e lunghi capelli evocano al contrario i ritratti dei grandi personaggi ungheresi di un tempo, ma Almássy Ferenc è un uomo riflessivo, cortese, posato. Diventato lettore di Nietzsche e di Bakunin navigando in internet, da autodidatta aveva scoperto l’ingiustizia nei cantieri delle grandi imprese edili francesi dove aveva fatto carriera dopo i suoi studi in ingegneria. Lo sfruttamento dei clandestini, racconta, la violazione delle disposizioni di sicurezza e il disprezzo per l’ambiente gli avevano dato un tale disgusto del capitalismo da farne un «anarchico di destra che odia le élite, un antiliberale stregato dall’eredità comune del nostro patrimonio culturale che ci conferisce» spiega, «il dovere di preservarlo e di trasmetterlo».
A priori, non dovrebbe andar matto per un giornalista passato per «L’Observateur», «Le Monde» e France Inter ma «il suo modo di rivolgermi domande e ascoltare è interessante» dichiara. Figlio di proletari, ha ventinove anni e l’autorità del prof che sa imporsi. Siamo due mondi diversi uno di fronte all’altro, due generazioni, due culture, due versanti politici opposti ma per niente pronti a prenderci di mira, perché io apprendo da lui tanto quanto lui apprende da me.
La prima cosa che gli piace di Orbán è che abbia «rimesso al centro delle nostre società le loro radici e la loro cultura cristiana, perché preferisco ancora un buddista o un musulmano credente a un ateo. L’ateismo» spiega, «è una porta aperta a tutti i totalitarismi e alla loro volontà di cambiare l’uomo con la forza. Come il fascismo e il comunismo, il liberalismo è figlio della modernità», prosegue. «È un figlio dell’Illuminismo.» Mi domando di cosa sia figlio il jihadismo, se non di una professione religiosa, ma annoto le sue parole senza dire niente e mi accontento di chiedere: che cosa c’era di meglio prima dell’Illuminismo?
«L’anima» mi risponde. «La differenza è nell’anima, perché oggi viviamo in una società materialista mentre l’importante, l’essenziale, è quello che contribuisce alla salvezza dell’anima.» Il discorso si fa un po’ confuso. In ogni caso, io perdo la bussola, al punto che mi sembra meglio passare ad altro. E qual è la seconda ragione per la quale apprezza Orbán? «Il primo ministro difende un’idea di identità che precede il nazionalismo, che non si fonda sull’odio per l’altro, bensì sulla coesistenza con altre nazionalità, quelle dell’impero», l’impero austro-ungarico naturalmente.
Chino sul quaderno, mi rallegro dentro di me perché le due domande che avevo in mente servivano per sapere se erano davvero i Lumi a essere messi in discussione e se fosse soltanto un caso che la carta politica formata dalle estreme destre al potere ricalcasse le frontiere dell’impero. Eh no, non è un caso! Eh sì, è un desiderio di Ancien Régime, non il fascismo ma, più o meno spaventoso non so, un ritorno ai tempi antichi, quelli che avevano preceduto l’Encyclopédie.
Ha nostalgia dell’impero?
Ride. «In un certo senso sì, ma è come la Jugoslavia. Era meglio prima, quando esisteva, ma ormai il passato è passato, ed è inutile correre appresso a quello che non c’è più.»
«In fondo» dice, «dopo la fine dell’impero non c’è stato niente di eccezionale, mentre dopo il compromesso del ’67… Le è chiaro? Sto parlando del compromesso del 1867…». Lo rassicuro, mi era chiaro. So che era il compromesso con cui gli austriaci e gli ungheresi erano pervenuti a una condizione di parità, a discapito delle altre nazionalità dell’impero. «Dopo il ’67» prosegue, «l’Ungheria è diventata incredibilmente ricca, e non succedeva dai tempi del re Mátyás… Sa di cosa sto parlando?» Ahimè, qui no. Me ne vergogno molto, ma ho dovuto confessare la mia ignoranza: Mátyás Hunyadi, Mattia Corvino, umanista e mecenate della seconda metà del XV secolo, apogeo dell’Ungheria indipendente, è stato il più grande sovrano della Storia ungherese.
«Abbiamo tratto grandi vantaggi dall’impero» riprende. «Molti centro-europei credono che, se non fosse stato dissolto, né il nazismo né il comunismo si sarebbero affermati, e il punto è che qui, a Budapest, ho sentito esponenti della Lega dirmi che si sentivano più vicini all’Ungheria che alla Francia o al sud dell’Italia, e un amico di Cracovia mi ha detto, alcuni giorni fa, di sentirsi a casa in Ungheria e, poco tempo fa, ci siamo trovati in Transilvania seduti a uno stesso tavolo, a parlare in sei lingue diverse, e ci capivamo.»
Oggi romena, la Transilvania è stata ungherese fino alla sconfitta dell’Ungheria nella Prima guerra mondiale, dell’Ungheria austro-ungarica. Le sei lingue, mi sono detto, dovevano essere tedesco, romeno, ungherese, ceco, polacco e… italiano, certo, perché la Lombardia e Milano, culla della Lega, la Lega Nord diventata poi quella di Matteo Salvini, avevano fatto parte dell’impero fino al 1859, ma attorno a quel tavolo, gli chiedo, che cosa avevate in comune?
Se dovessi riassumere la sua risposta in una parola sola è “antioccidentalismo”, quello su cui mi ero preparato in vista di questa inchiesta.
«Siamo uguali e ci sentiamo tutti più vicini gli uni agli altri che all’Europa occidentale, a quella superiorità occidentale, a quell’Occidente faro dell’umanità di cui siamo stufi come dei cinesi o degli africani» dice, per poi aggiungere di getto: «Noi, noi centroeuropei, amiamo la stabilità che voi, a ovest, non fate altro che smerdare con il vostro universalismo che scompagina tutto per imporre la sua verità».
Un gancio destro dopo l’altro, mi sento piuttosto rintronato eppure ancora pieno di domande da rivolgergli, ma la prima consigliera di Viktor Orbán mi aspetta in parlamento, ingresso sud, secondo piano. Come fare? Propongo a Almássy Ferenc di rivederci verso le 15, e accetta, benché debba terminare un articolo sull’“identità ungherese” per una rivista turca, perché l’Ungheria di Orbán apprezza molto la Turchia di Erdoğan.
Zsuzsa è un’altra storia.
Conosco Hegedűs Zsuzsa dagli anni Settanta, quando era venuta a completare gli studi di sociologia a Parigi. Tanto brillante quanto bella, già molto sicura di sé, era diventata ben presto un personaggio di spicco dell’intellighenzia parigina, legata non soltanto ad Alain Touraine, suo direttore all’École des Hautes Études in scienze sociali, ma anche a Serge Moscovici e Edgar Morin. Era stata la prima moglie di uno dei miei amici più cari, Kis János, padre della dissidenza ungherese. Orbán o no, voglio molto bene a Zsuzsa (si pronuncia “Juja”), ma a questo punto, dopo Lánczi e Almássy, parto lancia in resta: «Zsuzsa, dimmi che sei passata a destra, non sei l’unica, ma per favore smetti di raccontarmi che sei diventata il braccio destro di Orbán perché sei di sinistra».
Come accade spesso con lei, la risposta va per le lunghe, piena di digressioni con le quali non ho nulla a che vedere e di allusioni a persone che non so neanche più se conosco. Con grande inquietudine dei suoi segretari, un ministro fa anticamera e Zsuzsa mi racconta la sua verità.
All’inizio della transizione, era vicina a ex dissidenti diventati liberali. Era il suo ambiente, erano i suoi amici, la sua generazione, ma quando da sociologa si è resa conto di quanta miseria avesse provocato l’uscita dall’economia amministrata, soprattutto nelle campagne, ha iniziato a caldeggiare la concretizzazione di programmi sociali. Tranne poche eccezioni, dice, né i liberali né l’ex giovane guardia comunista, dei comunisti riformatori diventati socialisti, hanno voluto darle retta. Ha finito con l’allontanarsi da loro, da quella che si definisce “la sinistra” a Budapest, ed è la diaspora ad averla avvicinata a Orbán.
Nel 1920, alla fine della Prima guerra mondiale, il Trattato del Trianon non aveva tolto all’Ungheria soltanto la Transilvania. Nel complesso, l’aveva amputata di un terzo della sua popolazione e di più di due terzi del suo territorio. Si tratta di una piaga ancora aperta, mal cicatrizzata e nella quale ficca il dito di continuo Viktor Orbán che, a partire dal 2010, ha fatto adottare una legge che dà la possibilità agli ungheresi dispersi nei Paesi limitrofi di chiedere un passaporto ungherese. Ai suoi occhi, da una parte c’è l’Ungheria, dall’altra la “nazione ungherese”, dieci milioni di persone all’interno delle frontiere ridisegnate dal Trattato del Trianon, che salgono a quindici in quella che era stata l’Ungheria prima del 1920.
Orbán si accanisce a tenere vivo il ricordo di una grandezza perduta, del re Mátyás e della prosperità dopo il compromesso del 1867. Gioca con il fuoco alimentando il revanscismo, ma non per questo è l’Hitler dei Sudeti. Per il momento, in ogni caso, non vuole entrare in guerra per recuperare i territori perduti, ma riaffermare una nazione frammentata di cui coccola i figli strappati alla madrepatria. In Ungheria, e non soltanto per i suoi sostenitori, ciò fa del primo ministro un padre della nazione. Nel suo “estero vicino”, come dice il Cremlino per parlare dei territori perduti dell’impero russo, Viktor Orbán è estremamente popolare perché non si può essere indifferenti all’uomo che si ricorda della crudeltà del 1920 e vuole riportarvi nella famiglia ungherese. Il vantaggio politico che ne avrebbe ricavato era così sicuro che aveva cominciato a difendere questa idea nel 2005, ben prima di tornare al potere e che uno dei dirigenti socialisti parlasse di un pericolo di “invasione romena” in un discorso percepito come sprezzante sia verso la Romania sia verso gli ungheresi della Transilvania.
«Ti rendi conto?» mi chiede Zsuzsa. «Era identico a Le Pen!». Ne era rimasta così scioccata da prendere pubblicamente le difese di Orbán. Si erano presto incontrati, fiutandosi a vicenda. Orbán era interessato che Zsuzsa fosse dalla sua parte. «Ha adottato i miei programmi sociali» mi racconta. «Non erano i suoi programmi, ma idee vaghe» mi diranno gli oppositori, ma il fatto è che adesso la scuola dell’infanzia è obbligatoria a partire dai tre anni, che è un fattore di integrazione della minoranza tzigana...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prologo
  5. Ungheria
  6. Polonia
  7. Austria
  8. Italia
  9. Epilogo
  10. Ringraziamenti