Nazione incompiuta
I mesi successivi alle elezioni del novembre 2015 furono un periodo di profonda incertezza. Secondo il dettato costituzionale, è il parlamento a eleggere il presidente della Birmania, il quale è incaricato di nominare i componenti del governo, compresi i rappresentanti dei quattordici Stati e regioni. L’NLD aveva una maggioranza tale da non dover temere i seggi riservati all’esercito, che erano un quarto del totale. Almeno in teoria, erano nella posizione di scegliere il prossimo capo dello Stato senza contare né sui voti dell’esercito né su quelli di altri partiti. Era una situazione che quasi nessuno aveva previsto.
Gli ex generali del governo Thein Sein erano mortificati. Alcuni davano la colpa della sconfitta ai riformisti che orbitavano attorno al presidente, che avevano reso possibile la ricomparsa di Aung San Suu Kyi da quella che nel 2010 consideravano una posizione di debolezza. Molti si mostravano più severi nei confronti di Shwe Mann, colpevole di avere stretto un’alleanza pericolosa con la leader dell’NLD. Soe Thane era riuscito ad accaparrarsi un seggio da indipendente, in rappresentanza di un remoto collegio elettorale sui monti Kayah, al confine con la Thailandia. Ci aveva provato anche Aung Min, perdendo.
E adesso? Nessuno lo sapeva. In ventiquattr’ore la dirigenza dell’USDP ammise la sconfitta. Ma la vecchia guardia avrebbe davvero permesso ad Aung San Suu Kyi di diventare presidente? Nel 1990, quando l’NLD aveva ottenuto un risultato simile, l’esercito aveva prima tergiversato e poi sostanzialmente ignorato i risultati. Per i successivi vent’anni aveva considerato l’NLD il suo più acerrimo nemico.
Il 4 dicembre 2015 Aung San Suu Kyi andò a trovare l’ex generale supremo Than Shwe nella sua nuova residenza di Nay-pyitaw. Come progettato, Than Shwe era passato da dittatore a pacioso pensionato. Era sparito dalle scene da cinque anni. I media non diedero notizia dell’incontro e non venne trasmesso nessun comunicato stampa ufficiale. Tuttavia, quella sera, il nipote ventiquattrenne di Than Shwe pubblicò sul suo profilo Facebook la foto di una banconota da 5000 kyat (circa cinque dollari) firmata (in momenti diversi) da Aung San Suu Kyi, Thein Sein e suo nonno, insieme a un breve resoconto di quello che era successo. L’incontro era durato più di due ore. Alla fine, stando al nipote, Than Shwe aveva detto: «La verità è che diventerà la futura leader del Paese».1 Nessuno conosceva di preciso il senso di quelle parole, ma sembrava che il vecchio generale desse la sua benedizione a un governo guidato da Aung San Suu Kyi. Com’era stato possibile? Stando alla costituzione, la presidenza le era preclusa perché i suoi figli erano cittadini stranieri. In quel periodo incontrò anche il capo dell’esercito, Min Aung Hlaing, che disse chiaro e tondo che la clausola non sarebbe stata modificata. Per bocciare gli emendamenti alla costituzione bastava un quarto dei voti in parlamento, il che dava all’esercito un sostanziale diritto di veto.
Rassegnata a non rivestire il ruolo di presidente, Aung San Suu Kyi si rivolse a un vecchio amico di scuola, Htin Kyaw. Alto più di un metro e ottanta, l’elegante Htin Kyaw, figlio di un celebre poeta, era un burocrate in pensione che aveva studiato informatica a Londra all’inizio degli anni Settanta. Non aspirava affatto ad alte cariche e Aung San Suu Kyi gli garantì che la sua presidenza sarebbe durata soltanto pochi mesi, giusto il tempo perché lei persuadesse l’esercito a emendare la costituzione. Intanto, la leader dell’NLD non dava adito a dubbi su chi avrebbe poi detenuto il potere; a Fergal Keane della BBC disse che avrebbe preso «tutte le decisioni» e che sarebbe stata «una rosa con qualsiasi altro nome»2.
In effetti avrebbe preso tutte le decisioni per conto di quella che divenne una presidenza di rappresentanza. Ma avrebbe anche dovuto fare i conti con il comandante in capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing. Dieci anni più giovane di lei e nato nell’estremo sud del Paese, nella cittadina costiera di Tavoy, Min Aung Hlaing era cresciuto in una famiglia di ceto medio di Rangoon, dove suo padre era ingegnere civile per il governo. Frequentò una delle migliori scuole birmane, per poi studiare legge all’università di Rangoon. Ma poco più che ventenne decise di intraprendere la strada militare, lasciando l’università per iscriversi alla Defense Academy; una volta diventato ufficiale, ebbe una carriera molto rapida.
Nel 2009 era maggior generale ed esponente di una nuova leva di ufficiali, decisamente più istruiti. Quello stesso anno guidò il vittorioso blitz dell’esercito contro i ribelli kokang. Nel 2010 diventò il primo capo delle forze armate sotto la nuova costituzione. Per qualche anno restò dietro le quinte; il presidente Thein Sein e molti dei nuovi ministri erano molto più in alto di lui nella gerarchia militare. Poi cominciò a concedere conferenze stampa e interviste, anche ai media di opposizione e persino al «Washington Post». Aveva sia una pagina Facebook che un account Twitter, dove più volte al giorno pubblicava notizie sui suoi viaggi nel Paese e i suoi frequenti spostamenti all’estero.
Si considerava il guardiano dell’ordine costituzionale. Era anche molto chiaro sul fatto di voler trasformare l’esercito dalla forza antisommossa, perlopiù di terra, che era stata fin dal principio, in quelle che definiva «forze armate standard», con unità moderne di terra, mare e aria, a difesa dei confini del Paese. Occhialuto e sorridente, era un uomo cordiale, quasi dimesso con gli ospiti, con modi che sembravano attenuare le sue ferree convinzioni. Era un fervente nazionalista, con una chiara visione della storia birmana e una chiara fede nel fatto che l’esercito doveva svolgere un ruolo storico nella costruzione della nazione. Adesso avrebbe dovuto lavorare con la figlia del fondatore dell’esercito, Aung San Suu Kyi.
Fu un inizio travagliato. Per l’NLD, era incontestabile il desiderio del popolo che fosse Aung San Suu Kyi a prendere il potere e la riluttanza del comandante in capo nel concedere un emendamento alla costituzione era intesa come un segno di cattiva fede. Dal punto di vista dell’esercito, permettere alla loro nemica storica (secondo loro spalleggiata dagli occidentali) di assumere il timone del governo era un rischio enorme e un enorme compromesso. Pensavano di dover essere ringraziati perché consentivano all’NLD di scegliere il presidente che volevano, purché non fosse Aung San Suu Kyi, e non criticati per voler ostacolare ulteriori cambiamenti alla costituzione.
Ma se è vero che gli ex generali erano sul punto di uscire di scena, alcuni esponenti dell’NLD avevano qualche difficoltà a credere che il potere sarebbe passato subito nelle loro mani. Un neoeletto parlamentare dell’NLD mi disse che non sapevano cosa aspettarsi, «avevamo anche paura che quel primo giorno in parlamento ci arrestassero». Un alto funzionario del partito, un medico, mi fece riflettere sul fatto che almeno un quarto dei suoi compagni, ex prigionieri politici, forse soffriva di sindrome da stress post-traumatico. Non si era preparati a sufficienza a quel momento, mancavano i progetti politici da realizzare e le strategie su come gestire un futuro governo.
Il governo britannico, da parte sua, era felice alla prospettiva di essere finalmente in una posizione di vantaggio. Per decenni Londra aveva assunto contro la vecchia giunta la posizione più severa, facendo da capofila alle sanzioni dell’Unione europea e soprattutto mostrando solidarietà ad Aung San Suu Kyi. Erano stati tiepidi persino con il governo di Thein Sein, nella speranza che un giorno sarebbe stata Aung San Suu Kyi ad assumere la carica di presidente.
Gli inglesi si assegnavano un ruolo da mentore. Nel 2012 temevano che Aung San Suu Kyi non si stesse procurando uno staff abbastanza numeroso e così, in occasione della sua visita al Foreign Office di Londra, prima di farle incontrare il ministro degli Esteri William Hague, la portarono di proposito in uffici che brulicavano di impiegati, «in modo che potesse vedere che [il ministro] non lavorava da solo»3.
Adesso il governo britannico non lesinava offerte di aiuto. Correvano addirittura voci sul fatto che i nuovi ministri dell’NLD sarebbero andati a Londra «a scopi formativi». Un giovane diplomatico inglese fu nominato assistente di Aung San Suu Kyi, e Jonathan Powell, ex capo dello staff di Tony Blair, diventò consigliere per il processo di pace.
Il 30 marzo Thein Sein passò il testimone a Htin Kyaw. Era il culmine della transizione democratica in Birmania: il primo passaggio pacifico di poteri a un governo eletto dal 1960. Thein Sein si trasferì in una casa di campagna. A proposito della residenza presidenziale, disse che gli anni trascorsi lì erano stati «il periodo più duro della mia vita» e che moglie e figlie, che avevano patito i costanti attacchi mediatici all’ex capo dello Stato, la chiamavano «la casa che scotta»4.
Nella settimana che seguì, il parlamento a maggioranza NLD approvò una legge per creare una carica tutta nuova, tagliata su misura per Aung San Suu Kyi, cioè quella di consigliere di Stato. Carica che le avrebbe consentito sia di dirigere il governo che di manovrare l’NLD in parlamento. Alle obiezioni di incostituzionalità sollevate dall’esercito, il partito si limitò a fare spallucce. In parlamento il settore degli ufficiali si alzò in piedi durante la votazione, in segno di protesta. Ironia della sorte, uno dei militari presenti in aula accusò l’NLD di «prepotenza»5. Shwe Mann, considerato un voltagabbana da molti generali ed ex generali, fu nominato presidente di una commissione parlamentare speciale, nonostante non avesse ottenuto un seggio alle elezioni. Le obiezioni dell’esercito furono ancora una volta ignorate.
Aung San Suu Kyi assunse anche varie deleghe ministeriali, diventando in un primo tempo ministro degli Affari esteri, dell’Istruzione, dell’Energia elettrica e dell’Energia. Gli altri componenti del suo governo di ventuno ministri erano tutti uomini. Era il governo più vecchio della storia birmana, con un’età media più alta di quella di Aung San Suu Kyi, allora settantunenne. Molti ministri erano fedelissimi dell’NLD, uomini solerti e in buona fede ma con una scarsa esperienza nella gestione del potere. Alcuni erano ex generali già stati in parlamento, nella corrente di Shwe Mann anziché sotto Thein Sein. Altri ancora erano burocrati in pensione. Presto si scoprì che il nuovo ministro delle Finanze, Kyaw Win, aveva comprato un falso titolo di dottorato su un sito pachistano6. I media reagirono con un certo clamore, ma l’incarico non gli venne tolto.
Allo stesso tempo, Aung San Suu Kyi smantellò l’ecosistema di consiglieri e incubatori di idee che avevano circondato Thein Sein, procurando costantemente nuove idee a lui e ai suoi ministri. Fra questi si annoverava anche il Myanmar Peace Center. I circa cento membri dello staff, giovani che erano perlopiù arrivati dall’estero, vennero licenziati. Negli ultimi anni l’antipatia verso Thein Sein era stata profonda, e l’NLD considerava quelle istituzioni sempre più schierate. Era un pregiudizio infelice: anche se molte persone al vertice erano evidentemente allineate con Thein Sein, la grande maggioranza dello staff, specie i più giovani, erano convinti sostenitori del cambiamento democratico e venivano dagli strati più liberali della società birmana. Avrebbero collaborato molto volentieri con un governo a guida di Aung San Suu Kyi.
Più difficile da comprendere era la completa assenza di contatti con le centinaia di associazioni della società civile, attivisti ed esuli che non aspettavano altro che quel momento ed erano impazienti di dare il proprio aiuto. Un giovane impiegato del Myanmar Peace Center mi disse che molti suoi amici erano stati combattuti: alcuni avevano accettato di lavorare per il Peace Center, mentre altri avevano rifiutato, preferendo aspettare che l’NLD salisse al potere. Adesso non c’erano più opportunità.
In quei mesi Aung San Suu Kyi parlava in continuazione dell’importanza di una «riconciliazione nazionale». Per lei significava soprattutto una riconciliazione tra NLD ed esercito. Il suo obiettivo precipuo era la modifica della costituzione. Per realizzarlo aveva bisogno dell’appoggio del comandante in capo. Fin dal suo debutto politico nel 1988, Aung San Suu Kyi aveva enfatizzato il suo amore per l’esercito, che oltretutto era una creazione del padre, e il desiderio di renderlo più forte e più rispettato che mai. Per questo motivo voleva che l’esercito avesse obblighi nei confronti di un presidente eletto, un presidente che inizialmente doveva essere lei.
In diverse interviste, il comandante in capo aveva dichiarato che l’esercito avrebbe acconsentito a un cambiamento costituzionale, ma solo dopo avere sedato la miriade di conflitti presenti nel Paese. Raggiunta la pace, le forze armate avrebbero via via perso il compito di salvaguardare la nazione. E dunque il primo punto in agenda per Aung San Suu Kyi divenne la pace.
Nel febbraio 1947 suo padre, il generale Aung San, aveva partecipato a una conferenza speciale nella piccola cittadina montana di Panglong, indetta dai principi ereditari dei monti orientali, i sawbwa shan, per discutere del futuro post-coloniale della Birmania. Prima di cedere il potere ad Aung San, gli inglesi volevano che principi e altri rappresentanti delle «regioni di frontiera» approvassero un piano per gli anni a seguire. Dopo un paio di giorni di discussioni e compromessi, si raggiunse un accordo: sarebbe nata una nuova «Unione birmana», che avrebbe compreso sia la regione delle pianure che quella dei monti, e la Birmania superiore avrebbe continuato a godere dell’autonomia che aveva sotto gli inglesi, nonché dei pieni diritti di cittadinanza nella nuova repubblica. La storia avrebbe preso una piega diversa: di lì a pochi mesi il Paese precipitò nella guerra civile. Ma per alcuni il sogno di Pa...