Pillole, pillole, pillole
Come si inventa una malattia? Non stiamo scherzando, e questa non è una domanda assurda, perché nel mondo di Big Pharma si tratta invece di una consuetudine: la malattia si crea perché si ha un farmaco da vendere. E così, dopo averla creata, si lancia sul mercato la medicina che servirebbe a curarla.
Di punto in bianco, sindrome delle gambe senza riposo, flatulenza, timidezza, scarso desiderio sessuale, stipsi e persino calvizie sono entrate a far parte della lista delle malattie da curare. Trasformare un disturbo in malattia, abbassare le soglie di allarme, suggerire farmaci per indicazioni non approvate ufficialmente sono alcune delle tecniche usate dall’industria. Nessun espediente è escluso per far lievitare i profitti.
Gli olandesi di Gezonde scepsis (“Sano scetticismo”) hanno provato a svelare come si inventa una nuova malattia, ricorrendo alle stesse operazioni usate dall’industria farmaceutica: il disagio viene trasformato in patologia e in parallelo si lavora per far arrivare in farmacia la miracolosa pillola che aiuta a stare meglio.
Supportata dal ministero della Salute olandese, Gezonde scepsis è un’organizzazione che vuole fare luce sull’influenza del marketing delle multinazionali farmaceutiche e promuovere una medicina efficiente ed economica. In un report pubblicato nel 2010 dal titolo «Public information as a marketing tool – Promotion of diseases and medicines», questa organizzazione descrive i metodi usati dall’industria per informare il pubblico su malattie e condizioni di salute.
Tutti malati di flatulenza
Ecco come, in collaborazione con il canale televisivo dei consumatori Tros Radar, gli “scettici olandesi” raccontano genesi e sviluppo del loro stratagemma e come la malattia inesistente fino al giorno prima, di colpo causa problemi insopportabili che devono essere assolutamente eliminati. L’idea è arguta: organizzare una campagna fittizia sul tema della flatulenza seguendo i canoni tradizionali del marketing e vedere che cosa accade. Per cominciare, viene costituita una finta agenzia, la Company Consultancy, e creato un sito web. L’agenzia prende diversi contatti dichiarando di avere la commessa di un’importante casa farmaceutica per organizzare una campagna di informazione che prepari l’arrivo sul mercato di un nuovo farmaco. Si stringono accordi con una società di ricerche di mercato e lo studio finale dimostrerà che la flatulenza è un disturbo diffuso, causa di difficoltà fisiche e problemi sociali.
L’indagine costa 20.000 euro. Il database dell’agenzia viene utilizzato per inviare una e-mail con un questionario di diciannove domande. Il tasso di risposta è buono, il 72 per cento su 539 invii. Risultati? Si scopre che un olandese su quattro soffre di flatulenza e che per molti ciò è irritante. Le premesse per un bel lancio sono ottime.
Il piano prevede l’invio di un comunicato stampa per attirare l’attenzione sui disagi causati dal disturbo. Conoscendo il retroscena il testo è esilarante: «Una ricerca condotta da Tsn Nipo per conto di Company Consultancy ha messo in evidenza che un olandese su quattro soffre di flatulenza. Il disagio è causa di problemi fisici seccanti: l’88 per cento si lamenta di non riuscire a fare aria, il 39 soffre di crampi addominali almeno una volta al giorno e il 9 sente costantemente tensione addominale. Quelli che cercano di trattenersi lamentano i maggiori disturbi. Solo il 15 per cento si sente libero. La gente soffre anche psicologicamente. Il 70 per cento si vergogna, in maggior misura le donne. Anche chi ha un disturbo severo difficilmente ne parla. Il 76 per cento non ne ha mai parlato al proprio medico e il 58 dichiara che neppure intende parlarne in futuro. Il motivo è l’imbarazzo e l’impressione che il sintomo non possa essere alleviato. Più della metà delle persone sarebbe disponibile ad assumere un farmaco: un quarto di queste fanno aria più di venti volte al giorno».
A questo punto vengono contattate due riviste con buona diffusione, «Libelle» e «Quest». La seconda risponde che avrebbe messo in evidenza il tema in una nuova sezione del sito web. «Libelle» invece pubblica la notizia nella sezione «L’umanità e la mente» adattando il comunicato stampa.
Il passo successivo è contattare gli staff editoriali di diversi programmi per decidere come attirare l’attenzione sulla flatulenza quando sarà lanciata la nuova medicina. Sia da parte dei programmi di salute delle Tv commerciali sia da parte delle soap opera c’è la disponibilità ad affrontare il tema. Ovviamente a pagamento. Nella più popolare soap opera nazionale, per 50.000 euro si poteva inserire una scenetta in cui uno dei protagonisti va dal medico e nella sala d’attesa trova un manifesto con il sito che offre la soluzione. Un’opzione diversa è la discussione fra una donna e il marito che l’avrebbe convinta ad andare dal medico. Parlare per due minuti di flatulenza in una trasmissione di salute sarebbe costato 13.500 euro. Se i minuti fossero diventati quattro il prezzo sarebbe salito a 22.000 euro. Un altro programma di medicina era pronto a occuparsi del tema. Per una puntata dedicata bisognava spendere 50.000 euro. E ancora: per portarsi avanti con la pubblicità, è stato chiesto a cinque studi medici e a cinque farmacie di esporre il dépliant del farmaco. Tutti hanno accettato senza fare domande su contenuti o basi scientifiche.
Ogni pubblicazione rimandava al sito hetluchtop.nl (fuori l’aria) nel quale erano contenute informazioni sulla malattia, disturbi e consigli. Dalla homepage era possibile compilare un test di autovalutazione, vedere brevi filmati di storie di pazienti e un testo costruito per attirare l’interesse del lettore. Il sito è rimasto aperto una settimana e ha avuto 40.000 contatti.
A percorso ultimato il canale televisivo dei consumatori Tros Radar ha mandato in onda una trasmissione in cui si raccontava tutta l’operazione ordita da Gezonde Scepsis. Il gioco viene svelato dimostrando che non c’è più differenza fra vendere un farmaco o una lavatrice. Peccato che nel primo caso il tema sia la salute e i protagonisti coinvolti nell’acquisto siano medici e pazienti le cui scelte causano una spesa che ricade sulla collettività, mentre chi si fa convincere a cambiare la lavatrice ogni due anni lo fa spendendo di tasca propria. Effetti collaterali e aumento della spesa farmaceutica non sembrano aspetti sufficienti a indurre riflessioni e pentimenti. Quello che conta è colpire il bersaglio.
La realtà, come spesso accade, può superare la fantasia: di recente General Hospital, la più longeva soap opera statunitense, ha presentato una scena nella quale a uno dei personaggi viene diagnosticata una trombosi e una policitemia, una malattia del sangue in cui aumentano globuli rossi e piastrine. L’attrice si lamenta con il medico perché non le viene prescritto subito un farmaco che vinca il male, ma soltanto un anticoagulante che previene il rischio di trombosi. Il pretesto dell’accordo fra i produttori della soap e l’azienda farmaceutica IncyteCorporation, spiega la rivista «Jama», è promuovere uno strumento educativo per far crescere la consapevolezza sul tema delle neoplasie mieloproliferative nel “mese dedicato alle malattie rare”. In realtà pare piuttosto un’occasione per una pubblicità occulta dell’ultimo farmaco oncologico appena approvato dalla Federal Drug administration e non previsto come primo trattamento.
I consumi di farmaci devono aumentare, anche se ciò si scontra sempre di più con il taglio di risorse della sanità pubblica. Chiamatelo marketing della salute o disease mongering, la “mercificazione della malattia” è il tentativo di convincere persone sostanzialmente sane di essere malate. Il timido deve diventare disinibito, al calvo devono ricrescere i capelli, la prestazione sessuale dev’essere sempre al massimo. «I sani sono malati che non sanno di esserlo», scriveva nel 1923 Jules Romains nella sua commedia Knock o il trionfo della medicina.
L’obiettivo delle aziende farmaceutiche è allargare la platea dei consumatori trasformandoci tutti in pazienti. Nel 1976, Henry Gadsen, allora direttore della casa farmaceutica Merck, dichiarò alla rivista «Fortune»: «Il nostro sogno è produrre medicine per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere a chiunque». A distanza di più di 30 anni, il suo auspicio sembra essersi realizzato perché, in tutto questo tempo, ci hanno abituato a pensare che una pillola possa risolvere ogni problema o défaillance.
Virilità e timidezza
Quattordici milioni di americani sono affetti da bassi livelli di testosterone, il 38 per cento della popolazione maschile con più di 45 anni. Peccato che a dirlo sia una ricerca finanziata dalla Solvay Pharmaceuticals, la ditta che vende i farmaci per risolvere il problema. In questi anni, il mercato del testosterone è in costante crescita, a conferma dell’efficacia della strategia pubblicitaria.
Nel 2000 le prescrizioni erano sostanzialmente limitate ai non molti casi di ipogonadismo degli anziani (un funzionamento non ottimale del sistema endocrino che produce una scarsa secrezione degli ormoni sessuali fra cui il testosterone): meno di un milione di ricette all’anno. Nel 2015 sono salite a 6,5 milioni portando con sé una parallela crescita di rischio da farmaco: dal 2010 sono state segnalate 3900 reazioni avverse negli Stati Uniti. Il «New England Journal of Medicine» ha valutato l’efficacia del testosterone sull’invecchiamento maschile: livello di mobilità, funzione sessuale, percezione della propria abilità, capacità cognitive, densità ossea, tolleranza al glucosio, anemia e salute cardiovascolare. I partecipanti alla ricerca sono stati suddivisi in due gruppi: il primo è stato trattato con un gel da applicare sull’addome; il secondo con un gel placebo. Ne è emerso che chi seguiva la cura a base di testosterone riportava un modesto aumento della funzione sessuale che diminuiva verso la fine dello studio e che in ogni caso era inferiore rispetto ai risultati ottenibili con i prodotti della famiglia del Viagra. Nessun beneficio è stato riscontrato sulle altre funzioni. A causa degli effetti collaterali sull’apparato cardiovascolare, sul fegato e sui tumori ormonodipendenti, dalla ricerca sono stati esclusi i candidati più a rischio che sono proprio i clienti abituali di questo farmaco.
Nel 1917 l’Associazione psichiatrica americana aveva catalogato 59 disturbi psichiatrici. Nel 1952, con l’introduzione del Manuale diagnostico e statistico dei disordini mentali (il famoso Dsm), ritenuto la Bibbia della psichiatria, i disordini certificati erano saliti a 128. Nel 1968 erano 159, 227 nel 1980 e 283 nel 1987. Adesso sono 347. Compresa la timidezza, etichettata come fobia sociale. Nel 2007 lo storico esperto di psichiatria e psicologia Cristopher Lane ha indagato su come l’aiuto di psichiatri, giornalisti e industria farmaceutica, abbia trasformato la timidezza, una volta giudicata come una variazione normale del carattere in un disordine della personalità. Com’è successo, si interroga l’autore, che i timidi siano diventati un esercito con problemi di salute mentale? Il percorso è molto ben programmato. «Patologizzare la timidezza, l’eccentricità o la tristezza non fa un favore a nessuno, né a chi si vede appioppare etichette inutili e neppure a chi soffre di disturbi mentali più importanti e ha bisogno di tutte le risorse e la ricerca che possiamo assicurare.»
Ciononostante la timidezza diventa fobia sociale. Arrivano studi su larga scala, con l’inevitabile conclusione che la nuova condizione è un problema sommerso. In questo modo può essere etichettato come disordine del secolo e si può quindi lanciare una campagna per educare il pubblico. La confessione di una celebrità è una tecnica di marketing raffinata. La star americana del football Ricky Williams ha scelto il popolare show di Oprah Winfrey per rivelare il suo disagio. Cristopher Lane ironizza sulla vera timidezza del campione: non rivelare il compenso ricevuto dall’agenzia di pubbliche relazioni che agiva per conto di GlaxoSmithKline. L’impatto sul marketing di questa icona della mascolinità che ammette di avere un problema di salute mentale poi curato da un ansiolitico è stato all’altezza delle aspettative. Sfortunatamente i vantaggi portati da Williams alla casa farmaceutica hanno registrato un brusco arresto quando si venne a sapere che stava anche assumendo di nascosto altri farmaci vietati dalla Nfl, la National Football League. La sua immagine, ormai, non era più così spendibile.
Diabete, ipertensione e colesterolo
Le strategie per creare una domanda di farmaci sono infinite: quando le malattie sono reali bisogna aumentare il numero dei malati da trattare e per farlo si rivedono le soglie diagnostiche e gli obiettivi da raggiungere. Un esempio in cui chiunque può riconoscersi è l’ipertensione arteriosa. Nel 2003 le linee guida degli Usa – poi recepite in quasi tutto il mondo – hanno rivoluzionato la classificazione dei parametri che definiscono una persona ipertesa. Si istituisce una nuova fascia, la pre-ipertensione, in cui rientrano i soggetti con pressione arteriosa fra i 120/139 e 80/89 mmHg (millimetri di mercurio). Si anticipa così il trattamento rispetto agli standard usuali con l’obiettivo di ridurre la mortalità dovuta all’aumento della pressione. I risultati delle ricerche più recenti sono però controversi. L’organizzazione internazionale Cochrane (un ente no-profit punto di riferimento per una corretta informazione nell’ambito della salute) ha realizzato sul tema due studi secondi i quali mirare a un obiettivo inferiore a 140/90 mmHg non è vantaggioso neppure nel caso dei pazienti ipertesi diabetici. Per loro, al contrario, l’abbassamento della pressione sotto i 140/90 mmHg porta a un aumento del rischio di mortalità cardiovascolare. I farmaci antipertensivi utilizzati nel trattamento dell’ipertensione lieve, inoltre, non hanno affatto dimostrato di riuscire ad abbassare la mortalità.
Vogliamo parlare del diabete? Nel corso degli anni il valore della glicemia che porta alla diagnosi è calato da 140 mg/dl a 126 mg/dl e le linee guida dell’American Diabetes Association hanno definito una nuova condizione, l’alterata glicemia a digiuno, ovvero un pre-diabete che si diagnostica quando la glicemia supera 100 mg/dl.
Nel 2011 è stato proposto di utilizzare un nuovo parametro come criterio diagnostico, l’emoglobina glicata. La quantità di questa sostanza che si forma nel sangue dei diabetici è molto più elevata che nei soggetti sani o diabetici con un buon controllo ottenuto dalla terapia. Il dosaggio dell’emoglobina glicata è usato per valutare l’efficacia della terapia. Secondo questa nuova indicazione si formula la diagnosi di diabete e quindi si cominciano dieta e farmaci quando l’emoglobina glicata raggiunge il 6,5 per cento. Alcuni ritengono questa soglia troppo bassa. Un atteggiamento così severo serve però a evitare le più diffuse e pericolose complicanze del diabete: retinopatie, nefropatie, eventi cardiovascolari? Si direbbe proprio di no.
Già nel 2008 una ricerca aveva voluto verificare quale fosse il vantaggio e ha paragonato due gruppi di diabetici, con stesse caratteristiche, sottoponendone uno a un trattamento intensivo e l’altro a un trattamento standard. A sorpresa, nel gruppo che aveva ottenuto il valore più basso di emoglobina glicata si è registrato un eccesso di mortalità e non l’attesa diminuzione degli eventi cardiovascolari.
Due studi pubblicati nel 2015 e 2016 confermano che terapie più aggressive non dimostrano alcun vantaggio sulla mortalità generale e cardiovascolare, su scompensi e ictus non fatali. Inoltre la qualità di vita non cambia, ma si verificano più interruzioni della terapia da effetti avversi.
Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che ha lo scopo di promuovere ricerca e formazione in ambito sanitario, non esclude che possano esserci interessi diversi da quelli scientifici in chi suggerisce cambiamenti nei parametri e redige le linee guida cui i medici devono attenersi: «Consistenti evidenze scientifiche dimostrano che il processo di elaborazione delle indicazioni per la pratica clinica è ampiamente influenzato da varie tipologie di conflitti di interesse A quelli economici diretti, legati alle relazioni finanziarie con produttori di farmaci e altre tecnologie sanitarie, si affiancano anche gli indiretti, come avanzamenti di carriera, incremento dell’attività professionale e prestigio sociale, ideologie e attaccamento alle proprie convinzioni».
Intanto però lo scopo è stato ottenuto e le prescrizioni degli antidiabetici aumentano. Un articolo sul «Pensiero Scientifico Editore» dal titolo «Più salute più mercato? Cosa si nasconde dietro le nuove malattie» cita il rapporto OsMed 2009 sulle prescrizioni farmaceutiche in Italia, secondo il quale il consumo dei farmaci è cresciuto in media del 4 per cento all’anno a fronte di un aumento dei casi di diabete dello 0,6 per cento.
Stesso discorso se parliamo di colesterolo, perché dalle ultime indicazioni della Società europea di cardiologia del 2016 emerge che il livello di colesterolo Ldl, i cui alti valori sono correlati al rischio di infarto cardiaco, dovrebbe essere inferiore a 100 mg/dl per tutte le persone e non solo per quelle con problemi cardiovascolari. In Europa i valori del colesterolo Ldl negli adulti sani sono mediamente intorno a 130-150. Proporre una diminuzione così radicale significa dover trattare con le statine (il farmaco di uso più comune per abbassare il colesterolo) praticamente tutta la popolazione italiana perché una dieta ferrea non è sufficiente per rientrare nei nuovi parametri e poche persone la seguirebbero. Una curiosità: il colesterolo potrebbe essere stato eccessivamente colpevolizzato come causa di malattia cardiovascolare per distrarre l’attenzione da altri possibili corresponsabili. Nel 2016 «Jama Internal Medicine» rivela come l’industria dolciaria abbia manipolato la ricerca sulle malattie cardiovascolari, sminuendo il ruolo dello zucchero come fattore di rischio e accusando soltanto grassi e colestero...