Capolavori
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Capolavori

Allenare, allenarsi, guardare altrove

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Capolavori

Allenare, allenarsi, guardare altrove

Informazioni su questo libro

Quando si parla di capolavori, il primo pensiero va all'arte: pittura, scultura, architettura, cinema, musica o letteratura, ma difficilmente pensiamo allo sport. Non è così per Mauro Berruto, allenatore della nazionale italiana di pallavolo che ha vinto il bronzo ai Giochi Olimpici di Londra nel 2012. In queste pagine Diego Armando Maradona palleggia con Michelangelo, Jury Chechi sfida Yves Klein, Muhammad Ali e Kostantinos Kavafis recitano insieme poesie, perché atleti, artisti e poeti fanno parte della stessa squadra: uno spazio in cui ogni individuo può esprimere il proprio talento e costruire il proprio personale capolavoro. A metà fra racconto e biografia, Capolavori è una mappa per trasformare il potenziale in eccellenza. Un libro per chi sogna di vincere una medaglia, di dipingere un'opera d'arte, di raggiungere un budget, di conquistare una quota di mercato oppure, semplicemente, di poter dare il meglio di sé in ogni occasione.«Siamo arrivati in questo spogliatoio partendo dai posti più disparati, superando un'incredibile selezione e una concorrenza spietata. Non ci siamo scelti, ma c'è una cosa che ci tiene saldamente insieme: lo stesso desiderio.»

Domande frequenti

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Informazioni

SOMIGLIANZE

Partiamo da qui

Londra, 12 agosto 2012.
Sono le 5:30. Suona la sveglia.
Mi devo alzare, anche se non ho dormito per niente. Fra un’ora parte il pullman che mi porterà a giocare la partita più importante della mia carriera.
Quella che vale una medaglia olimpica.
Non sono stato un grande atleta che poi è diventato allenatore e mi piacerebbe poter dire: «Ero molto forte e talentuoso, poi ho avuto un brutto infortunio e ho dovuto incominciare ad allenare».
No.
Ero sano come un pesce e ho voluto incominciare ad allenare perché ero scarso e non avevo talento sufficiente per diventare un giocatore di qualità.
Non ho neanche il percorso di formazione che ci si aspetterebbe da chi fa il lavoro che faccio: mi sono laureato in filosofia all’università di Torino e la mia tesi, in antropologia culturale, è stata una ricerca sul campo in Madagascar.
Diventare allenatore è stato un giro lungo, partito dall’oratorio di un quartiere della mia città, Borgo San Paolo, Torino.
Un giro lungo che è passato attraverso cinque diversi campionati, dieci città e tre nazioni diverse, tre angoli del mondo cui devo tutto: l’Italia, la Grecia, la Finlandia.
Spengo la sveglia.
È presto, ma devo fare veloce, perché alle 6:30 parte il pullman, destinazione Earl’s Court.
Come ogni mattina dell’ultimo mese, ci siamo svegliati al villaggio olimpico, ma il nostro campo di gioco è l’Earl’s Court Exhibition Center, nel centro di Londra. Una di quelle architetture resistenti che sono state capaci di cambiare destinazione d’uso nel corso della storia. A fine Ottocento lì c’era la sede europea del Buffalo Bill’s Wild West Show, negli anni Trenta si trasformò in uno show center, nel 1973 vi si esibì David Bowie, suonando di fronte al pubblico più numeroso che avesse mai assistito, fino a quel momento, a un concerto rock al coperto: diciottomila persone che reagirono con veemenza al fatto che la visuale e l’acustica fossero pessime, costringendo Bowie a lasciare il palco, nel caos generale, per far calmare il pubblico.
L’Earl’s Court era stato poi ampliato nel 1992, con un nuovo gigantesco edificio inaugurato da una principessa, Lady Diana Spencer, cresciuta proprio in quel quartiere di Londra dove, a suo dire, aveva trascorso il periodo più felice della vita.
Assegnati a Londra i Giochi della XXX Olimpiade, arrivò la scelta del comitato organizzatore inglese: le gare di pallavolo si sarebbero disputate lì dentro.
Dopo cowboys, rockstars e principesse, l’Earl’s Court è oggi il teatro dei miei sogni, di quelli degli atleti della mia squadra e di milioni di tifosi italiani.
L’impianto è lontanissimo dal villaggio olimpico.
Normalmente lo spostamento richiede quasi un’ora, ma a peggiorare le cose c’è un fatto: il 12 agosto è l’ultimo giorno dei Giochi, quello in cui si corre la Maratona il cui tracciato si snoda nel centro di Londra, paralizzandolo, e la partita che vale la nostra medaglia olimpica è in programma alle 9:30.
La pallavolo è uno sport di forza esplosiva e non è facile essere performanti a quell’ora del mattino. Non è un capriccio, è biologia. Quell’orario così inusuale è l’ennesima circostanza inedita dei nostri Giochi Olimpici. Nulla è come ce lo aspettavamo. Siamo partiti dall’Italia certi di aver preparato tutto alla perfezione, ma ci siamo trovati ad affrontare una serie di condizioni completamente diverse. Nessuno dei miei giocatori, per esempio, ha mai giocato una partita così importante a quell’ora.
Tutto è nuovo e meravigliosamente inallenabile.
Anni a prepararsi, a curare mille dettagli, a prevedere ogni possibile situazione, poi arriva la partita più importante della tua carriera e nessuna delle cose che hai preparato e che fanno parte del tuo protocollo, sembra esserti utile.
O, forse, una sì.
Perché su quel pullman in partenza alle 6:30 del mattino, con la colazione nel sacchetto di carta come in una gita scolastica, inizio a realizzare che quello che sto vivendo è molto vicino a ciò che facevo venticinque anni prima, quando allenavo in un oratorio e dovevo calcolare bene i tempi dei viaggi, trovare la pizzeria giusta in cui mangiare per non arrivare né troppo presto né troppo tardi.
Questo pullman che mi sta portando al teatro dei miei sogni è un luogo che in fondo conosco. La mia carriera, dopo un giro lungo, sta riportandomi al suo inizio.
Arriviamo all’Earl’s Court con enorme anticipo. Sono le 7:30 e siamo già lì. Provate a fare un esercizio di immaginazione: siete un atleta che deve gareggiare per una medaglia olimpica e dovete restare chiusi in uno spogliatoio per più di un’ora, in attesa di scendere in campo per il riscaldamento. Riuscite a vedervi in uno stanzone bianco, a guardare il soffitto mentre il tempo non passa mai? Sentite bruciare un’enorme quantità di energie nervose che, ne siete consapevoli, presto saranno fondamentali? Riuscite a immaginare la rabbia perché nulla è come avevate pensato? Sentite l’insinuarsi in voi di dubbi, di incertezze sull’essere o sul sentirsi pronti?
Quante volte ci si sente così.
Prima di un esame a scuola, prima di un colloquio importante, prima di andare in scena, prima di un appuntamento che ci fa battere il cuore, prima della presentazione di un business plan. L’ora che aspettavamo è arrivata, ma siamo terrorizzati di esserci dimenticati qualcosa, pensiamo di essere pronti, ma non ci sentiamo pronti. Ripensiamo parola per parola a quel discorso che provato davanti allo specchio era perfetto, ma la realtà è completamente diversa da quello che ci aspettavamo.
Una vita intera di attenzioni maniacali ad alimentazione, orari, procedure, protocolli e poi ci si trova a mangiare un panino, alle 6:30 del mattino, seduti su un pullman che ti porta verso una medaglia olimpica.
La mia fortuna, allora, diventa quella di essere già stato su un pullman come quello e di riuscire a cogliere lo stato d’animo collettivo. Riunisco la squadra negli spogliatoi e faccio un discorso.
«Ragazzi, voglio raccontarvi una storia. È la storia di un atleta, non lo conoscete, è un saltatore in alto e ha il vostro stesso sogno: vincere una medaglia olimpica. Questo saltatore, insieme al suo staff, si è preparato in maniera meticolosa. Ha lavorato come un matto per quattro anni su ogni dettaglio per avere tutto sotto controllo. Ha persino studiato, in modo scientifico, le condizioni metereologiche di Londra, scoprendo che ogni 12 agosto degli ultimi cinquant’anni ci sono stati 24 gradi, un tasso di umidità del 70%, una brezza leggera di 4-5 nodi che soffia da sud-est, a favore di rincorsa. Per quattro anni, ogni singolo giorno, si è allenato ricreando esattamente quelle condizioni.
«È perfettamente pronto. Si sente imbattibile.
«Il 12 agosto 2012, il giorno della finale entra sulla pista dello stadio olimpico e…
«Piove!
«Fa freddo, tira vento forte, la pedana è scivolosa. Cosa fare? La medaglia sarà comunque assegnata quel giorno e la vincerà chi sarà più agile degli altri. Sì, agile. Un aggettivo che ha un significato legato alla fisicità, certo, ma che è anche un concetto intellettuale. Identifica chi è più veloce ad adattarsi, più rapido a sbarazzarsi delle zavorre, a cogliere prima degli altri alcuni dettagli, a orientare tutto ciò che sta facendo verso il proprio obiettivo senza dispersioni di energia. Insomma vincerà se saprà essere più leggero.»
Attorno a me, un silenzio perfetto.
«Non pensiate che tutto ciò che avete fatto da quando siete bambini, inseguendo quel sogno, sia stato inutile. Tutt’altro! Senza quelle cose, senza quella disciplina, quella volontà di sacrificio, quell’ossessione per i dettagli non sareste qui, oggi. Ci sarebbe qualcun altro seduto in questo spogliatoio, al vostro posto. Tuttavia, qui e ora, credo che dovremo capire in fretta quanto sia fondamentale sbarazzarsi di quello che abbiamo fatto. Perché quello che abbiamo fatto ci ha portato fin qui, ma l’ultimo chilometro lo dobbiamo correre da soli, senza protezione, godendo della bellezza di ciascuno di questi ultimi passi. Come se stessimo esplorando un meraviglioso continente dove nessun umano ha ancora messo piede.
«Voglio dirvi un’ultima cosa: sono orgoglioso di essere qui oggi, con ciascuno di voi, sotto questa pioggia».
Ancora silenzio, ma vedo occhi che si accendono.
Caccio i ragazzi dallo spogliatoio, chiedo loro di andare a fare colazione in un bar, fuori (immaginate la scena: atleti con il pass olimpico al collo che escono dal palazzetto per prendere un caffè, rincorsi dagli addetti alla sicurezza).
Ci diamo un nuovo appuntamento prima dell’inizio del riscaldamento. Al rientro quasi non parlo. Non dico nulla di tecnico o di tattico. Quel lavoro l’ho fatto la sera prima, in una sala riunioni, un posto dedicato alla ragione, alla logica. Qui invece siamo nel luogo delle emozioni, dove si mette in moto la parte destra del cervello.
Pochi istanti, poi dobbiamo entrare. Mi serve ancora un attimo, giusto il tempo di tirare fuori dalla borsa una maglia identica alle nostre che avevo fatto preparare qualche giorno prima dai magazzinieri, chiedendo loro un giuramento al silenzio. Sulle spalle c’è il numero 16 e un cognome: Bovolenta.
Bovo, cinque mesi prima, era scomparso giocando a pallavolo dopo aver indossato 197 volte la maglia azzurra, fino ai Giochi Olimpici precedenti, quelli di Pechino. Raccogliendo l’invito di Giuseppe Brusi, storico dirigente di pallavolo e mentore di Vigor Bovolenta, avevamo cambiato il nostro programma e aperto la stagione con una partita al Pala De Andrè di Ravenna, fra la nostra nazionale e “gli amici di Bovo”. Una partita disputata fra lacrime, ricordi, sorrisi, con un culmine di emozione, quando feci entrare in campo Alessandro, il figlio più grande di Bovo: nove anni, la stessa età di mio figlio Francesco. Con la lunghissima maglia del papà addosso era entrato a sostituire Giulio Sabbi sul 24-23, realizzando un ace prima di essere travolto dagli abbracci di tutti i giocatori in campo.
Appendo quella maglia vicino alle altre, nello spogliatoio dell’Earl’s Court. Sento il cuore battere fortissimo.
Bovo e io non eravamo mai stati dalla stessa parte della rete, anzi, ci eravamo incrociati più volte da avversari, spesso litigando, in particolare nell’ultima sua partita in serie A1: lui giocava a Forlì e io allenavo a Macerata, ci eravamo più volte mandati a quel paese, come succede a due persone che stanno facendo il loro mestiere con tutta la passione possibile.
Con un nodo in gola e nel cuore il dolore per non aver avuto il tempo di chiudere quell’episodio, ricordo a tutti l’importanza di non lasciarsi alle spalle cose che avremmo voluto fare e che, invece, non abbiamo fatto.
Ricordo a tutti che, in qualche modo, avremmo potuto contare su un giocatore in più, quella mattina. Bovo era senz’altro lì con noi, da qualche parte.
Chiudo cercando di strappare un sorriso: «Alla fine della partita fatevi belli, perché voglio essere il primo a scattarvi una foto sul podio».
Qui e ora.
Questa è la mia monoidea.
Il nostro cervello, talvolta, funziona in un modo curioso. A me, in quel momento, torna in mente la stessa leggerezza che ho evocato prima.
Mi vengono in mente le Lezioni americane di Italo Calvino. Mi vengono in mente le tante passeggiate al Foro Italico, architettura resistente anch’essa, pensata e realizzata per celebrare la pesantezza e l’orrore dell’apologia fascista e capace di trasformarsi in meravigliosa leggerezza, diventando nel 1960 il luogo dell’edizione dei Giochi Olimpici più straordinari di sempre: quelli di Cassius Clay e di Nino Benvenuti, del ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. SOMIGLIANZE
  5. CAPOLAVORI
  6. APPENDICE