La macchina dello storytelling
eBook - ePub

La macchina dello storytelling

Facebook e il potere di narrazione dell'era dei social media

  1. 196 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La macchina dello storytelling

Facebook e il potere di narrazione dell'era dei social media

Informazioni su questo libro

La promessa di Facebook è renderci lettori e autori delle nostre stesse storie, ma in realtà il social network di Mark Zuckerberg costruisce una catena di montaggio della "narrazione narrabile" che imprigiona vite, biografie e racconti possibili. Processando i metadati, i comportamenti e le interazioni di miliardi di utenti all'interno del giardino chiuso della piattaforma, l'algoritmo si impone come un narratore onnisciente e totalitario, una macchina di storytelling predittivo a beneficio degli unici lettori che contano davvero: gli inserzionisti pubblicitari. Il potere di narrazione di Facebook e del suo autore è il potere di un'ideologia della tecnologia e del mercato funzionale alla monetizzazione, all'espropriazione e all'ingabbiamento dell'organizzazione sociale, del lavoro e della vita delle persone: come direbbe Michel Foucault, è un processo di oggettivazione e assoggettamento, la comparsa di una nuova modalità di controllo nella quale ogni individuo riceve una gratificazione costante che lo imprigiona nel suo status così come configurato dalla piattaforma algoritmica.

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Informazioni

Editore
Bordeaux
Anno
2018
Print ISBN
9788899641603
eBook ISBN
9788899641719
Categoria
Social Theory
Capitolo secondo
L’algoritmo al potere (di narrazione)
Eric Meyer è un autore conosciuto, nell’ambito del web design. Eric Meyer on CSS e More Eric Meyer on CSS sono due libri che hanno formato più di una generazione di progettisti e sviluppatori di siti web. Ancora oggi, molte delle soluzioni di stile che vediamo nelle interfacce, nei menu di navigazione e nei layout di impaginazione delle pagine web si devono alle tecniche che per primo Meyer ha sperimentato e descritto nei suoi testi.
Come ogni rispettabile web geeks degli anni Novanta, Meyer cura da sempre un blog personale. Nati da un pugno di esperti della rete come “guide intergalattiche” ai percorsi ipertestuali offerti da un web che andava ampliandosi e moltiplicandosi di pagine e siti senza nessun algoritmo di Google a promettere ordine, catalogazione, indicizzazione e ricercabilità, i blog evolvettero in una forma di diario pubblico che accostava al web surfing il racconto della vita professionale e familiare del blogger, fino a comporre una blogosfera dove storie, opinioni, notizie, collegamenti, commenti, conversazioni, dimensione privata e dimensione pubblica hanno formato un framework di scritture frammentate ma ricche, profonde e distribuite, come nella natura ipertestuale del web. Come evidenzia Scott Rosenberg riportando quanto scritto sul Guardian da Nick Denton alcuni giorni dopo l’11 settembre 2001, è stato attraverso le testimonianze dirette sui blog personali dei cittadini di New York che la tragedia delle Torri Gemelle ha toccato persone che il racconto su altri mezzi tradizionali non avrebbe toccato con altrettanta crudezza e onestà1.
Nella vita di Eric Meyer, l’undici settembre è il 7 giugno 2014. In quell’anno ha perso Rebecca, la figlia di sei anni. Sul suo blog le diede il “benvenuta” nel 2008 a nome suo, della moglie Kat e della sorellina Carolyn. E sul suo sito, tra tutorial css, web design, codice html, conferenze per sviluppatori, ha raccontato la malattia di Rebecca: i primi segni del tumore al cervello nell’estate 2013, la diagnosi, le visite, le terapie, l’impegno di guardare al futuro nonostante tutto, i momenti di resa, le speranze, le disillusioni dopo la scoperta del secondo tumore, fino al 9 giugno 2014 quando ha pubblicato la foto di Rebecca annunciandone la morte ai suoi lettori, avvenuta due giorni prima. Con la stessa delicatezza e sensibilità, Meyer continua a raccontare Rebecca sul suo blog, anche oggi. Con la stessa delicatezza e sensibilità, ha scritto, condiviso e distribuito la sua storia anche su Facebook, come a partire dal 2007 avrebbero fatto molti di noi, al suo posto. Con Facebook, Eric Meyer è diventato un caso. Ma non per quello che l’autore ha scritto sul social network, bensì per quello che il social network ha scritto per lui.
A fine anno, intorno a Natale, Facebook accoglie l’utente con un banner celebrativo: l’invito a pubblicare un post che è l’aggregazione dinamica dei post (note, foto, video, commenti) che l’utente ha condiviso nei mesi precedenti. Il prodotto finale è un montaggio video a metà strada tra filmato e slideshow che raccoglie i momenti salienti di un anno trascorso insieme ad amici e fan (lettori? spettatori?) della community. I momenti salienti sono, come è ovvio, selezionati in base alle metriche di coinvolgimento dei post come decise dalla piattaforma: like, condivisioni, commenti. Il tono del messaggio e lo stile grafico del banner sono coerenti con tutta la poetica e l’iconografia dei social media, fatte di punti esclamativi, pollici all’insù, cuoricini, sorrisi, occhiolini. Quando la mattina del 24 dicembre 2014 Eric Meyer ha sbloccato il suo iPhone e tra tutte le app disponibili ha fatto tap sull’icona blu con la “F” bianca, si è trovato di fronte un’autobiografia scritta non da lui medesimo, ma dall’algoritmo di Facebook. Se fosse stato lui a scriverla, come aveva fatto negli ultimi due anni sul blog, non avrebbe incorniciato la foto di Rebecca tra figure di uomini e donne danzanti tra palloncini colorati. Se fosse stato per lui, in quel momento, non avrebbe scritto “ecco come è andato il mio anno!”
Non conta qui che Eric non abbia mai pubblicato quel filmato, conta piuttosto che il suo caso è una conferma eclatante che Facebook è uno scrittore di storie e il suo algoritmo è prima di tutto un narratore. Da sempre, il news feed di Facebook è concepito come un aggregatore: un editor automatizzato che seleziona cosa includere e cosa escludere nella bacheca dell’utente dai flussi di contenuto che provengono dagli amici, dai brand amati, dalle fonti di news seguite e quale forma privilegiare per i contenuti da includere (video, foto, testi, link). Ma l’algorithmic curation2 è solo la punta dell’iceberg. Con i contenuti e i dati generati consapevolmente o inconsapevolmente dagli utenti, un esercito sconfinato di piccoli autori operai ignari di esserlo, Facebook riscrive la nostra storia rendendola più “vera” di quella che noi, come Meyer, ci illudiamo di scrivere ogni giorno sulla piattaforma, una piattaforma che ci conosce meglio di quanto noi conosciamo noi stessi.
Del resto, come ricorda Jonathan Gottschall3, le autobiografie dovrebbero appartenere di diritto agli scaffali della narrativa finzionale, e Facebook, il modo in cui noi ci raccontiamo attraverso Facebook, ne sono una conferma lampante: a partire dalla scelta della foto del nostro profilo, fabbrichiamo il nostro “mito personale”, costruiamo un personaggio intorno al quale ruotano vicende di cui siamo protagonisti, testimoni, eroi, vittime. È un’elaborazione peraltro raffinatamente architettata, strategicamente composta ed egocentricamente scritta. Nel film di Pedro Almodóvar, Tutto sua mia madre (1999), catapultata all’improvviso di fronte al pubblico di una sala teatrale, la transessuale Agrado dice che costa molto essere autentici, perché una è tanto più autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di sé stessa. Il nostro istinto narrativo trova sul social network il palcoscenico ideale: non è la piattaforma a ispirarsi alla nostra vita, ma la nostra vita a ispirarsi a Facebook e alle richieste della sua architettura narrativa. I frammenti di informazioni che riprendiamo dalle varie aree del cervello in cui sono sparsi i pezzi del ricordo di un avvenimento per ricostruire un’esperienza passata4 sono i dati scritti, visivi, audiovisivi che il social network riceve nella sua mente narrante per cucire e incollare una ricostruzione coerente e plausibile di ciò che potremmo e vorremmo essere. Per dirla sempre con l’Agrado di Almodóvar: ciò che siamo. Invece di limitarci alla nostra vita ordinaria, fatta di orari, routine, uffici, scuole, impegni domestici e familiari comuni, i social ci mettono in condizione di raccontare una vita interessante come quelle delle finzioni narrative, romanzesche e televisive, una vita in cui siamo belli, intelligenti, creativi, divertenti, impegnati, provocatori ecc., davanti a un pubblico ricettivo perché messo nelle nostre stesse condizioni. Facebook ci offre insomma un meccanismo di “specchiamento intercorporeo” nel senso definito da Vittorio Gallese e Hannah Wojciehowski: l’intersoggettività dei rapporti sia reali che funzionali attiva un riflesso delle emozioni e delle sensazioni, che si producono nell’individuo che osserva come se vivesse l’esperienza diretta di quelle emozioni e sensazioni, tanto è vero che i meccanismi di specchiamento sono attivi anche quando si immagina solo di fare o percepire qualcosa5. Il confine allora tra reale e immaginario, tra offline e online, è molto più sfumato di quanto si possa pensare, perché lo stesso coinvolgimento corporeo di un individuo è prodotto dalle azioni, dai sentimenti, dalle sensazioni provate da altri, osservate e lette negli altri. L’engagement prodotto dai social per il tramite di azioni compiute su un dispositivo mobile non si esaurisce allora in un like, ma si riproduce in un continuum di specchiamenti che ci immergono in mondo finzionale reale quanto il reale: non si tratta più di sospensione dell’incredulità, ma di “simulazione incarnata” in base alla quale noi agiamo ed esperiamo eventi come se fossimo attori del mondo finzionale online, liberi di modellare la nostra presenza reale nella vita quotidiana. Stando alle ricerche sui neuroni spec...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Capitolo primo
  3. Capitolo secondo
  4. Capitolo terzo
  5. Bibliografia