NECESSITÀ, LIMITI E OPPORTUNITÀ DELLE POLITICHE EUROPEE NEL MEDITERRANEO ALLARGATO
Antonio Iodice – Andrea Margelletti
EUROPA - MEDITERRANEO: UN RAPPORTO AMBIGUO E AMBIVALENTE
L’intera gamma degli studiosi di geopolitica e geo-strategia, compresi gli accademici e gli analisti, non hanno potuto sottrarsi, nel tempo, all’annosa diatriba riguardante l’effettiva demarcazione territoriale e politico-culturale del continente europeo. Sotto il profilo della geografia fisica, sempre alla ricerca di convenzioni e paletti che possano aiutare i topografi, la questione è stata risolta in modo relativamente semplice, seppur non del tutto condiviso: lungo i versanti meridionale, occidentale e settentrionale i mari e gli oceani hanno agevolato gli sforzi dei ricercatori, ponendo una barriera naturale ben distinguibile e netta tra un continente e l’altro. Tuttavia, già guardando ad oriente, la diatriba si è resa più serrata ed ambigua, con l’individuazione degli Urali (catena montuosa in territorio russo) quale steccato che divide, soltanto nell’immaginazione di alcuni, l’immenso blocco eurasiatico.
Se si volge lo sguardo dalla geografia fisica alla geopolitica, il nodo gordiano del limes europeo diventa ancora più complesso. Di per sé, la cultura e la politica sono due campi dello scibile intangibili, non confinabili, allergici ai contenitori a tenuta stagna. In questo senso, i confini del continente europeo e del suo bagaglio storico, diplomatico e filosofico si dilatano e assumono tratti sempre più sfumati. Al di là della propaganda e della retorica a uso e consumo elettorale, è davvero difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra il comune sentire politico popolare di Polonia e Russia, oppure tra le tradizioni rurali del Marocco e della Spagna del Sud, oppure, infine, tra le consuetudini ancestrali del Meridione d’Italia e della Tunisia. Dunque, a ben vedere, sussiste una continuità variegata, ma indivisibile e indissolubile sia tra le società che dall’Europa orientale propendono verso Est, fino a Mosca, che tra le società del bacino del Mediterraneo, unite, prima che da alcune dominazioni imperiali comuni, da una geografia che ha favorito gli scambi economici e umani. Prima di pagare i tributi a un unico esattore, i popoli del Mediterraneo hanno commerciato in moneta romana, scritto in fenicio, greco e latino, condiviso e diffuso le reciproche scoperte scientifiche e tecnologiche, dalla matematica alla medicina fino all’astronomia.
Tuttavia, tali convergenze sociali e culturali non hanno mai trovato uno sbocco politico e istituzionale maturo, consapevole e condiviso sia da parte della Comunità europea che, successivamente, dalla sua erede, quell’Unione europea (Ue) nata con il Trattato di Maastricht. Infatti, non costituisce un reato affermare che le istituzioni comunitarie e unioniste europee, trascinate dal peso economico e diplomatico del motore franco-tedesco e dalle continue spinte entropiche britanniche, abbiano trascurato i vettori di sviluppo, le vulnerabilità e le opportunità insite nella regione mediterranea.
Questo peccato originale può essere parzialmente espiato mediante un mea culpa storico-strategico. Infatti, per i primi dieci anni della sua esistenza, l’europeismo ha avuto il compito storico di ricucire le ferite morali e politiche della Seconda guerra mondiale e, nel contempo, proteggere i sistemi democratici occidentali dalla minaccia autocratica e populista dell’Unione Sovietica e del socialismo reale. Allo stesso modo, nei decenni successivi, l’imperativo è stato sviluppare le forme di cooperazione economica continentale, riportare nella Casa Comune Europea quei paesi ingabbiati nella prigione di regimi militari, costruire le basi per una efficace integrazione sociale ed economica. Infine, dopo la caduta del Muro di Berlino, il dovere di Bruxelles si è esplicitato nel riabbracciare le sorelle orientali dopo la lunga cattività comunista, realizzare il sogno della riunificazione tedesca e veleggiare verso un irripetibile esperimento politico di progressiva cessione di sovranità nazionale in favore di un progetto di sviluppo armonico e coordinato comune.
Oltre alle succitate tendenze di sviluppo strutturali, tese alla progressiva integrazione degli Stati del continente in un unico corpo politico, economico e giuridico, le relazioni tra la Comunità/Unione europea e il Mediterraneo sono state influenzate anche dalla priorità assegnata al dossier di allargamento a Est, che ha inevitabilmente assegnato un maggior peso strategico a blocchi di paesi poco interessati alle dinamiche del Mare Nostrum. Come se non bastasse, occorre ricordare come qualsiasi tentativo di formulare una politica europea comune verso il Nord Africa e il Vicino Oriente è stato limitato dall’approccio degli stessi membri, per nulla inclini a delegare a Bruxelles il proprio arbitrio in politica estera nonché perseveranti nel trattare le loro ex-colonie come vassalli (Algeria, Marocco, Giordania) o alla stregua di Paria da isolare (Libia, Egitto, Siria).
La nascita e la progressiva, per quanto difficoltosa, affermazione di una strategia comune europea per il Mediterraneo è derivata da diversi fattori. Innanzitutto, la sedimentazione dei sistemi politici e delle élite di potere nazionali ha permesso alle ex-colonie del Nord Africa e del Vicino Oriente la formulazione di una politica estera più matura ed autonoma, sempre più svincolata dai rapporti simbiotici con le vecchie madrepatrie. Dal canto proprio, queste ultime hanno dovuto confrontarsi con la necessità di una razionalizzazione della spesa, con l’erosione delle risorse economiche e con la conseguente perdita della precedente influenza, incalzata dall’emersione o dal ritorno di soggetti politici globali decisi a diversificare i propri vettori diplomatici e finanziari (Cina, Russia, India, Stati Uniti, Monarchie del Golfo). Dunque, in un mondo sempre più aperto e competitivo, ai paesi europei non è restato che concertare i piani d’azione nel Mediterraneo per arginare l’ingresso di tali nuovi soggetti. Tuttavia, oltre a queste ragioni di chiara matrice economico-strategica, non si può omettere di citare lo sviluppo di una nuova, benché timida, consapevolezza politica europea secondo la quale i problemi, le criticità e le opportunità di una delle sub-regioni del continente erano inevitabilmente destinati a influenzare tutti i membri. Per questa ragione, anche i paesi del Nord Europa, seppur con forme e modalità di azione limitate o improntate al più marcato pragmatismo, hanno cominciato a considerare quanto accadeva nella sponda sud dell’Unione come un affare di rilevanza nazionale.
Per oggettività analitica, occorre sottolineare come tale consapevolezza non possa essere considerata un fenomeno politico-sociale spontaneo o frutto di una rivoluzione copernicana nel pensiero delle classi dirigenti nord-europee. Al contrario, essa rappresenta il risultato ultimo di un preciso e sottile calcolo politico i cui obbiettivi ultimi sono stati quelli di aprire le porte dei mercati mediterranei anche alle imprese del nord Europa e di affrontare insieme e in maniera condivisa le sfide di sicurezza che Africa e Medio Oriente offrivano al Vecchio continente. Tra queste, occorre menzionare le guerre civili e le crisi umanitarie nelle regioni del Sahel e dell’Africa sub-sahariana, alla base sia della proliferazione di minacce agli interessi commerciali europei sia dell’aumento del flusso migratorio verso la sponda nord del Mediterraneo, e la maturazione del terrorismo di matrice islamica, fenomeno in grado di attentare alla stabilità politica e all’incolumità dei cittadini europei tanto nei paesi di origine quanto in patria.
DALLA POLITICA GLOBALE PER IL MEDITERRANEO ALL’UNIONE PER IL MEDITERRANEO
Le incertezze, la gradualità e i tanti punti interrogativi della politica europea verso il Mediterraneo appaiono evidenti se si analizza il trend storico degli accordi stipulati tra le due sponde del Mare Nostrum. Tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, l’azione europea è risultata molto frastagliata e poco unitaria, caratterizzata dalla sigla di una miriade di accordi bilaterali poco coerenti e coordinati. Oggetto di tali trattati o memorandum sono state materie prettamente commerciali, come nel caso della Turchia (1962) o aiuti umanitari per quei paesi in evidenti difficoltà economiche e sociali, quali Libano (1968), Tunisia (1969) ed Egitto (1973).
La necessità di armonizzare questi accordi e renderli organici ai Trattati di Roma è sorta in concomitanza dell’integrazione dei paesi del Nord Europa (Danimarca, Irlanda e Regno Unito, 1973), i quali hanno esplicitamente richiesto una standardizzazione giuridica e politica dei rapporti tra Bruxelles e la sponda sud del Mediterraneo. Il risultato di questa opera di pressione è stata la formulazione della prima strategia comune europea per il Nord Africa e il Vicino Oriente, denominata Politica Globale per il Mediterraneo (PGM). Firmati con Israele nel 1975, Marocco, Algeria e Tunisia nel 1976 e Giordania, Libano, Egitto e Siria nel 1977, gli accordi PGM prevedevano tre capitoli principali. Il primo, riguardante la cooperazione commerciale, stabiliva tariffe favorevoli di accesso al mercato europeo per i prodotti agricoli, tessili e petroliferi raffinati provenienti dai paesi succitati. Il secondo capitolo ha avuto invece lo scopo di regolarizzare la cooperazione finanziaria ed economica, stabilendo il livello degli aiuti per lo sviluppo, le sovvenzioni per i progetti infrastrutturali e i prestiti della Banca europea per gli investimenti ad un tasso di interesse dell’1%. Infine, il terzo e ultimo capitolo si è focalizzato sulla cooperazione sociale, sancendo l’impegno europeo a migliorare il tenore di vita dei lavoratori immigrati (la maggior parte dei quali provenienti dal Nord Africa e dalla Turchia), a legalizzare il ricongiungimento familiare e a garantire la parità dei diritti sociali con i cittadini europei.
Per quanto embrionale e limitata dal contesto storico, dalle contingenze politiche e dalle priorità integrazioniste e espansionistiche1 della Comunità europea di allora, la PGM può essere considerata la Magna Carta Libertatum degli accordi euro-mediterranei, il testo base attorno al quale si è sviluppata l’architettura delle relazioni future.
Purtroppo, da quel punto in avanti, i trattati internazionali tra Bruxelles e i paesi del bacino del Mediterraneo si sono concentrati più sul miglioramento degli aspetti economici, finanziari e commerciali che sulla costruzione di un framework condiviso in materia di politica e di sicurezza. Una simile lacuna è apparsa evidente nella sottoscrizione dei documenti che hanno raccolto l’eredità della PGM, ossia la Rinnovata Politica Mediterranea (RPM, 1992-1995), il Partenariato Euro-Mediterraneo (PEM, 1995-2008), meglio conosciuto come “Processo di Barcellona” ed infine l’Unione per il Mediterraneo (UM, 2008-oggi).
La RPM può essere considerata un passaggio intermedio nella formulazione delle priorità politiche ed economiche tra le sponde del Mediterraneo, un momento di transizione determinato dal fatto che, in quegli anni, Bruxelles ha compiuto i passi decisivi per la prima definizione del suo assetto attuale ed è stata impegnata nella ratifica dei Trattati di Maastricht (1992). Tuttavia, la RPM ha avuto il grande merito di introdurre sul tavolo delle trattative temi più specifici, quali il sostegno ai programmi di adeguamento strutturale elaborati del Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, la promozione della creazione e dello sviluppo delle piccole e medie imprese (PMI), l’incoraggiamento all’applicazione di misure per la protezione dell’ambiente e, soprattutto, il rispetto dei diritti umani quale condizione irrinunciabile per la somministrazione di aiuti e prestiti ai governi. Quest’ultimo punto, in linea con i principi di cooperazione vigenti con i paesi dell’Africa sub-sahariana e sanciti nelle convenzioni di Yaoundé, Lomé e Cotonou, ha avuto esiti non proprio corrispondenti alle premesse. Infatti, ad eccezione di rari casi, le istituzioni comunitarie hanno continuato a commerciare e a fornire assistenza a quei paesi del Mediterraneo rei di abusi sulla popolazione civile e di pesanti restrizioni sui diritti civili e politici, quali Tunisia, Turchia, Algeria, Israele, Siria ed Egitto.
Gli stessi “vizi capitali” della RPM sono stati riscontrati nel Processo di Barcellona, un lungo progetto politico, economico e diplomatico che, istituendo il Partenariato Mediterraneo, avrebbe dovuto rilanciare definitivamente i rapporti tra l’Europa e i suoi vicini. Tuttavia, anche in questo caso, la parte più corposa degli accordi ha riguardato la dimensione economica, finanziaria e commerciale, risultata fortemente scollata dal dialogo politico e dall’elaborazione di strategie comuni in materia di sicurezza e difesa. Infatti, le sezioni dedicate a queste tematiche hanno gettato le basi per la creazione di una zona di libero scambio realizzabile tramite la progressiva eliminazione degli ostacoli doganali (tariffari e non tariffari) agli scambi commerciali dei prodotti manufatti e la liberalizzazione degli scambi nel settore primario e dei servizi.
Di contro, il testo degli accordi sottoscritti in materia politica ha incluso precise indicazioni di policy, ben più estese rispetto al passato e riguardanti il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali; l’applicazione dei principi dello Stato di diritto e della democrazia; la tutela e la salvaguardia della sovranità degli Stati, l’uguaglianza dei popoli e il loro diritto all’autodeterminazione; la lotta al terrorismo, alla criminalità e al traffico di droga e di esseri umani; la promozione della sicurezza regionale. Inoltre, il titolo dedicato alla cooperazione culturale e sociale ha posto l’accento sull’importanza del dialogo interculturale e interreligioso e sulla comprensione reciproca tra culture e, soprattutto, sul coinvolgimento della società civile nel partenariato e sul rafforzamento della cooperazione fra autorità regionali e locali. Tuttavia, come in passato, il dialogo politico è risultato estremamente più lento e farraginoso rispetto all’incremento di volume negli affari economici.
Sulla falsariga delle tendenze e dei limiti sinora evidenziati si è sviluppata, successivamente, l’Unione per il Mediterraneo, un’organizzazione intergovernativa la cui formazione è stata fortemente patrocinata dal governo francese nel tentativo di rivitalizzare i meccanismi del Processo di Barcellona, arenatisi sin dalla propria origine a causa dell’attenzione che Bruxelles ha riservato sia al processo di ratifica del Trattato di Lisbona (2007) sia a quello di allargamento ad est (2004-2007). La sottoscrizione dell’accordo di creazione della UM, avvenuto nel 2008 a margine del Summit di Parigi per il Mediterraneo, ha risentito molto del clima diplomatico e delle priorità di politica estera dell’Unione di quegli anni, ottenendo come risultato la nascita di un forum allargato, riunente oggi gli Stati membri dell’Unione europea e 15 paesi delle coste meridionali e orientali del Mediterraneo (Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Mauritania, Principato di Monaco, Montenegro, Marocco, Palestina, Siria, Turchia, Tunisia oltre alla Lega Araba), le cui funzioni politiche sono sempre state alquanto limitate e periferiche rispetto alla diplomazia bilaterale. Nonostante i numerosi progetti e le iniziative attuate nel quadro dell’Unione per il Mediterraneo in settori strategici quali lo sviluppo del business, gli affari sociali e civili, l’istruzione superiore e la ricerca, i trasporti e lo sviluppo urbano, l’acqua e l’ambiente, l’energia e l’azione per il clima, il forum ha rappresentato, paradossalmente, un strumento spuntato per le relazioni euro-mediterranee. A oggi, appare quasi impossibile negare che l’UM sia un contenitore vuoto, un’opportunità ricca di notevoli potenzialità, ma ridotta a mero comprimario rispetto ad altre agenzie unioniste.
Infatti, sebbene l’UM abbia una struttura, una linea di finanziamento e un’agenda fissa degli incontri tra i leader e gli esp...