Media e social media dalle Primavere Arabe allo Stato islamico
Alfredo Macchi
Il Nord Africa e il Medio Oriente, come li abbiamo conosciuti nell’ultimo secolo, non esistono più. Quest’area del pianeta, di vitale importanza strategica e geopolitica, sta cambiando volto a velocità sorprendente. Scompaiono confini che sembravano intoccabili e crollano regimi che parevano inamovibili. Il terremoto è iniziato con l’intervento americano in Iraq nel 2003, che ha posto fine alla lunga dittatura di Saddam Hussein, ma ha aperto il vaso di Pandora dello scontro religioso secolare tra musulmani sciiti e sunniti che in breve si è esteso a tutta la regione. Il collasso dei delicati equilibri mediorientali ha avuto poi una forte accelerazione alla fine del 2010, con quella serie di rivolte di piazza che sono state denominate “Primavere arabe”1
Già nei decenni precedenti in molti paesi dell’area c’erano state violente proteste popolari, represse però rapidamente e in silenzio. Stavolta però la scintilla si è propagata e in poche settimane ha incendiato l’intera area. Il Presidente tunisino Ben Ali è dovuto fuggire dal suo paese dopo ventitre anni di potere. Il padre padrone dell’Egitto Hosni Mubarak è finito in carcere dopo aver governato per quasi trent’anni. In Libia il colonnello Mu’ammar Gheddafi, che per quarantadue anni aveva dominato grazie ad attenti equilibri tra le varie tribù, è stato ucciso mentre il paese è sprofondato nel caos della guerra civile. Stessa sorte per lo Yemen, piombato nell’anarchia dopo gli scontri etnici e religiosi seguiti alla fuga dopo trentatre anni di potere del Presidente Saleh. E infine la Siria, dove la richiesta popolare di maggior libertà e democrazia si è trasformata in un confronto armato tra potenze regionali che ha devastato il paese e causato decine di migliaia di vittime.
In questo scenario di lotte di potere e conflitti tribali, all’interno di uno scontro all’ultimo sangue tra le due anime dell’Islam, sunnita e sciita, si fronteggiano l’Arabia Saudita e i suoi alleati da una parte e l’Iran con i suoi “fratelli” da un’altra. Tra rivolte, guerre e macerie è stata possibile l’ascesa dello Stato islamico, gruppo armato che nel giugno del 2014 ha annunciato la nascita di un nuovo Califfato su un territorio vasto come il Regno Unito o il Texas2.
Le cause di questo “effetto domino” sono molteplici e sono state analizzate da diversi autori: ci sono ragioni economiche, sociali e politiche. La crisi finanziaria mondiale, l’enorme numero di giovani istruiti e disoccupati, la corruzione dilagante e l’immobilismo in cui versavano molti di questi paesi, sono stati fattori che hanno avuto certamente un peso nell’animare le rivolte di piazza. Decisivo poi l’effetto “vicinato”: vedere quanto accadeva in Tunisia è stato di stimolo per gli egiziani, i libici, gli yemeniti e i siriani. E qui un ruolo sostanziale hanno avuto due rivoluzioni avvenute nel campo dei media: la proliferazione delle televisioni satellitari e l’esplosione dei social network. Tv e web, come vedremo, si sono rivelati eccezionali mezzi nella lotta per la libertà e la democrazia, ma nello stesso tempo strumenti sofisticati di manipolazione e restaurazione, fino a diventare vere e proprie armi di diffusione del terrore.
Il ruolo delle tv che arrivano dal cielo
Alla fine del XX secolo, in tutti i paesi dell’area nordafricana e mediorientale, spesso governati per decenni dagli stessi leader eredi del nazionalismo arabo post coloniale, l’informazione era strettamente controllata attraverso il monopolio delle televisioni di Stato e dei giornali ufficiali. Nessuna critica al governo, notizia di proteste o di attività dell’opposizione poteva trovare spazio.
Le cose sono cominciate a cambiare con l’arrivo delle prime tv satellitari in lingua araba d’informazione 24 ore su 24. Sull’esempio dell’americana Cnn e della britannica Bbc International, il primo novembre 1996 Hamad bin Khalifa Al Thani, emiro del Qatar, ha fondato a Doha Al Jazeera, la prima tv “all news” islamica. Nel 2003 l’Arabia Saudita ha lanciato a Dubai la gemella Al Arabiya3. Entrambe le emittenti possono essere viste in tutti i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente superando ogni frontiera grazie a una semplice parabola sul tetto di casa4. I singoli governi della regione possono fare ben poco per censurare le notizie trasmesse da fuori i loro confini5. Molti regimi hanno provato in ogni modo a chiudere o a ostacolare le trasmissioni satellitari di Al Jazeera e Al Arabiya ma con scarso successo. I giornalisti delle due emittenti sono stati spesso arrestati o espulsi. Pressioni sono state fatte sui proprietari dei satelliti che ritrasmettevano i loro segnali. Alla fine quasi tutti i paesi dell’area si sono dovuti piegare e in qualche caso hanno deciso di lanciare propri canali tv d’informazione.
Oggi si contano oltre settecento tv satellitari in lingua araba e una trentina di queste trasmette notizie 24 ore su 24 con le nuove tecnologie. Un’ondata di libertà via etere senza precedenti, che ha visto però la maggior parte di queste emittenti piegarsi nel tempo agli interessi dei loro proprietari e schierarsi nella grande guerra religiosa in corso tra musulmani6.
Il ruolo di questi canali d’informazione è stato di primo piano durante le Primavere arabe7. Al Jazeera è stata la prima tv a diffondere notizie e immagini dell’insurrezione tunisina. A poche ore dai fatti di Sidi Bouzid l’emittente ha trovato e trasmesso i video caricati sul web dai parenti di Mohamed Bouazizi. Quando i tunisini hanno potuto vedere quello che stava accadendo in casa propria si sono indignati e sono scesi in piazza nelle altre città. Quando la protesta si è estesa alla capitale il circo mediatico internazionale si è buttato sull’evento: i big dell’informazione mondiale, come France 24, Bbc e Cnn, hanno spedito i loro giornalisti in Tunisia e cominciato a seguire in diretta quanto stava accadendo. Microfoni e telecamere hanno dato ampio spazio ai manifestanti e alle loro ragioni. In particolare, secondo molti osservatori, Al Jazeera ha sposato senza esitazioni la causa della protesta. La tv qatariota ha enfatizzato gli incidenti e ha dato voce al popolo, che fino ad allora non ne aveva avuta.
In questo modo i media hanno paralizzato la risposta del regime. La polizia non sapeva più come agire di fronte alle macchine fotografiche, ai telefonini e alle telecamere. Qualsiasi azione repressiva sarebbe divenuta imbarazzante e controproducente. Più la gente manifestava, più veniva trasmessa nei telegiornali creando un effetto “evento” che ha spinto altri tunisini a scendere in piazza.
Lo stesso è accaduto pochi giorni dopo al Cairo in piazza Tharir, trasformata in un vero e proprio set di un reality show da Al Jazeera e Al Arabiya (quest’ultima con una linea editoriale più moderata e conservatrice) che hanno trasmesso quanto accadeva 24 ore su 24 allestendo schermi giganti attraverso i quali i dimostranti potevano vedersi in tempo reale. La polizia ha tentato più volte di distruggere le postazioni televisive e arrestare i giornalisti che però sono stati in molti casi protetti e nascosti dai manifestanti. Quando, dopo la protesta dei primi giorni indetta da gruppi laici e studenteschi, sono scesi in campo movimenti islamici ben organizzati, come la Fratellanza Musulmana e i partiti salafiti, in breve tempo hanno occupato la scena mediatica ed estromesso i primi dal gioco politico per poi vincere le successive elezioni. Questo anche grazie ai considerevoli finanziamenti arrivati dal Golfo Persico e all’appoggio delle tv satellitari di Doha e Dubai8.
Nelle rivolte di Libia e Siria il ruolo delle tv satellitari è stato ancora maggiore. All’inizio dell’insurrezione in Cirenaica non c’erano giornalisti stranieri. Al Jazeera e Al Arabiya hanno scelto così di trasmettere immagini e notizie inviate direttamente dagli attivisti dell’opposizione, che grazie ai loro telefonini riprendevano le manifestazioni e la repressione della polizia9.
Video e informazioni ritrasmesse (anche nella stessa Libia) spesso senza possibilità di verifica. E così milioni di telespettatori hanno appreso di “fosse comuni a Tripoli”, di “elicotteri che mitragliavano la folla” o di “diecimila morti nei primi tre giorni d’insurrezione”. Notizie false, forse diffuse ad arte, “bufale” come si dice nell’ambiente, che però hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica mondiale e influenzato la decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di dare il via libera alla Nato per bombardare le forze di Gheddafi10.
Lo stesso è accaduto con centinaia di video e foto provenienti dalla Siria realizzati dagli stessi oppositori, che hanno certo documentato la brutalità della repressione del regime, ma in alcun modo mostrato le atrocità commesse da alcuni gruppi ribelli e l’ascesa dei movimenti legati ad al Qaeda e all’Isis11.
Al Jazeera e Al Arabiya insomma hanno dato ampio spazio e sostegno alle “Primavere arabe” facendo un eccellente lavoro giornalistico laddove queste rivolte mettevano in discussione leader nazionalisti, come il tunisino Ben Ali, l’egiziano Mubarak, il libico Gheddafi e il siriano Al Assad. Gli editori delle due emittenti satellitari hanno visto probabilmente con favore un cambio di governo in paesi rimasti in qualche modo garanti della laicità delle istituzioni e della ...