Dario Pontuale
Nessuno ha mai visto
decadere l’atomo
di idrogeno
bordeaux eBook
© Bordeaux 2013
www.bordeauxedizioni.it
Impaginazione e realizzazione digitale/Plan.ed
www.plan-ed.it
isbn 978-88-97236-22-1
Ciò che è scritto è scritto.
Ciò che deve avvenire, è bene che avvenga;
e poi, chissà, può darsi che non accada,
dopo tutto.
Herman Melville, Moby Dick
Se puoi sognarlo, puoi farlo.
Walt Disney
L’importanza di un prologo decoroso
Ho sempre preso tutto molto seriamente, tranne la vita, o forse è il contrario.
Come inizio non sembra male, incipit buono, non ottimo; rispondente, o quasi, ai tre parametri indispensabili per una dignitosa apertura: sintesi, efficacia, originalità. Ho faticato per trovarne uno decente tanto quanto avere una storia interessante da raccontare. Non che abbia la vena del narratore, anzi, ma quanto accaduto necessita, se non altro, di una redazione, di una sorta di diario che ordini avvenimenti, persone, luoghi.
Dicevo che gli inizi sono decisivi, non soltanto nei libri: se attraenti conferiscono rispettabilità al testo, se accattivanti cautelano, almeno per qualche pagina, la pazienza del lettore. Quando capolavori, viceversa, garantiscono l’immortalità all’opera: «A lungo, mi sono coricato di buonora» del sibillino Proust; «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo» del profetico Tolstoj; oppure «Cantami o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei» dell’epico Omero. Con inizi del genere chi non avrebbe interesse nel proseguire? Nel saperne di più? Ecco spiegato lo sforzo per trovare un incipit decoroso da porgere ai lettori.
Occorre, in ogni caso, un ulteriore chiarimento. La vicenda di cui verrete a conoscenza è, per quanto assurda, reale. Non userò lo stratagemma manzoniano del ritrovamento di un antico manoscritto per addebitare ad altri mie responsabilità; al contrario queste righe serviranno per ordinare la serie di incredibili episodi succedutisi recentemente. Tenterò di seguire un ordine cronologico, tralasciando poco, in modo da capire se sia stato tutto uno strano scherzo del destino o invece un segno contorto del caso. Non prometto nulla di completo perché ogni cosa umana che si proponga di esserlo, proprio per questo, avrà sicuramente dei difetti.
Dicono che tutto, quasi tutto, si comprenda agendo o ritirandosi, a me si è mostrata una terza possibilità. A voi spetterà l’indulgenza, se vorrete, di attendere l’ultima riga prima di sbilanciarvi in un giudizio, non anche stabilire l’eventuale grado di follia che investirà queste pagine. Alla fine potrete pure chiamarlo libercolo.
C’è chi, per trovare la propria Odissea, erra vent’anni e chi, all’inverso, restando fermo si imbatte nella propria. L’avventura umana ha, nel suo immodesto carattere, l’esigenza di dover essere raccontata, che piaccia o meno.
Dimenticavo, mi chiamo Zeno Bizanti e sarò il vostro narratore, che piaccia o meno.
Capitolo primo
Ognuno è fabbro della sua sconfitta,
ognuno merita il suo destino.
Francesco De Gregori
Acquistai la mia prima casa il giorno successivo al licenziamento. È indiscutibilmente una prassi inusuale nel decorso canonico di un’esistenza, eppure così andarono le cose. Ogni fatto destinato a stravolgere la vita nasce dall’assoluta impossibilità di calcolarne l’effetto, rintracciarne la causa, e ciò rende ogni previsione parziale o completamente vana.
Quindici anni di onorata carriera, direbbe qualcuno, poi un licenziamento in tronco a causa di qualcosa andato storto laddove avevo scommesso personalmente. Le grandi aziende, si sa, mal digeriscono certe sviste soprattutto quando il portafogli ne risente pesantemente. Nessun rancore, comunque, nessuna rabbia; presi ogni cosa e me ne andai. Io e il mio egocentrismo ce ne andavamo senza neppure sbattere la porta. In verità detestavo quel lavoro, mi vergognavo, me ne vergogno tuttora. Pagato profumatamente, godevo di agevolazioni essendo uno dei migliori nel settore, producendo, però, qualcosa di ributtante. Tremendamente imbarazzante. Pur non sapendo cosa fosse la celebrità, alle volte, purtroppo, qualcuno riconoscendomi mi tormentava con euforici interrogatori. Ero assillato, ma una volta disoccupato la mia coscienza si rasserenò. Tardivamente avrei capito il motivo di tanta leggerezza.
Il giorno successivo al licenziamento lo trascorsi firmando il primo contratto immobiliare, spolpando, quasi interamente, un conto di decennale datazione. La spesa, come potrebbe sembrare, non fu una reazione stizzita al congedo, bensì un insieme di eventi concomitanti: un prezzo d’occasione e uno sfratto imminente. Potrebbe sembrare che abbia un carattere pigro, indolente, negligente, tutt’al più ho un’indole flemmatica, detesto affrettarmi e per esser sfrattato indugio fino agli ultimi giorni. Jerome Klapka Jerome aveva ragione: «La pigrizia è sempre stato il mio cavallo di battaglia, ma non mi faccio bello di questo, è un dono di natura. Ben pochi lo posseggono. C’è una gran quantità di pigri, ci sono lazzaroni a iosa, ma un ozioso genuino è una rarità». Verità sacrosanta.
Ho divagato. Per visitare gli immobili da acquistare, invece, non mi muovo affatto, delego, per cui non è pigrizia, al contrario, è totale fiducia nel prossimo, credito all’ennesima potenza. Un paio di settimane prima del licenziamento, un’amica, a conoscenza della mia caducità residenziale, telefonò dicendo d’aver adocchiato una casetta in vendita. Lasciò entusiasta in segreteria il recapito dell’agenzia descrivendo: «Due piani, un piccolo giardinetto» disse «con il tetto spiovente, le finestre verdi e le mura rosse». Pronunciò testualmente: «Finestre verdi e mura rosse». Ingenuamente non m’insospettii, appuntai il numero e riposi il foglietto in un angolo sperduto della scrivania.
Passarono giorni prima che trovassi il numero, convinto a chiamare. L’agente immobiliare non tardò a intuire il genere di persona finitagli tra le mani. Scoprendomi interessato, però, insistette affinché ci s’incontrasse per visionare l’immobile. Fui restio prima, intransigente poi, avevo appena fatto la doccia e non avevo voglia di uscire. Messo alle strette, mentii affermando di vivere all’estero, di voler rimpatriare e d’aver mandato giorni addietro un’amica fidata in avanscoperta. L’agente incassò, volle lo stesso spedirmi tramite e-mail le foto degli interni; “visita virtuale” la chiamò. La trovai un’idea geniale. Era una casa luminosa, su due livelli, con tante stanze, doppi servizi, quasi duecento metri quadri e in una zona non troppo periferica. Dalla visita virtuale non si intravedeva nulla di ciò che mi avrebbe sconcertato in seguito, nemmeno allora l’innocenza si scalfì. Nei giorni a seguire giunsero la convinzione di comperare l’immobile, il mesto epilogo professionale e la scelta obbligata di entrare nella lunga e angosciante “stagione degli scatoloni” o dei traslochi coatti.
Iniziare a sgomberare un appartamento nel quale si è vissuto per anni è come inscatolare i propri pezzi. Bisogna disporli con cura in modo che non si rompano, che occupino il minor spazio possibile restando legati con logica, così da riordinarsi l’uno accanto all’altro. Gli oggetti che trasciniamo via, la rete dei ricordi che li fanno splendere, vanno lustrati e oliati regolarmente al fine di non lasciarli arrugginire. Ho perciò sempre avuto la mania di conservare tutto, la fissazione di non perdere, di accumulare oggetti banali o insensati, vivendo in un deposito in espansione.
Fino alla firma del rogito non vidi la casa, ero soddisfatto, appagato e preso dall’imballaggio che sbrogliavo a fatica. L’agente immobiliare, alla consegna delle chiavi, bonariamente osservò che mai aveva venduto un’abitazione senza mostrarla. Sorrisi stringendogli forte la mano convinto d’aver ottenuto quanto desiderato. Venne però il giorno che, tra un giro di scotch e fogli di giornale, fui sfiorato dal balzano pensiero di recarmi sui metri quadrati che avevano prosciugato il conto. L’idea di mettermi alla ricerca di un lavoro non mi sfiorò; non fu né coraggio, né incoscienza, pure se i due aspetti collimano. Era la prima avvisaglia di una metamorfosi che più avanti avrebbe abbagliato perfino un miope come il sottoscritto.
Scesi dalla macchina con lo stradario in pugno, conoscevo un po’ la zona. Un quartiere affollato, tanti negozi e vetrine luminose, alti alberi oscillanti al vento e il rumore della città nell’ora di punta. Imboccai la larga strada dopo due tentativi manca...