Lo Stato dei partiti
Dal movimento al partito
Lo Stato non è da intendere, secondo Gramsci, come una «unità puramente giuridica e politica, sebbene anche questa forma di unità abbia la sua importanza e non puramente formale» (p. 2288). Lo Stato è inseparabile dagli elementi dinamici della società, dai movimenti che in essa sorgono e dagli istituti della riproduzione culturale ed egemonica. Sul terreno dell’agire sociale sorgono gruppi, movimenti1. Il movimento conferma una forza effettiva quando, da istanza congiunturale, diventa partito o momento che concorre alla organizzazione dello Stato attraverso validi gruppi dirigenti. Per Gramsci (p. 1627) solo quando ha forze reali, e dirigenti capaci, «un “movimento” o tendenza di opinioni, diventa partito, cioè forza politica efficiente dal punto di vista dell’esercizio del potere governativo». La presenza di «situazioni obiettive», la comparsa di cesure diventa politicamente cruciale solo quando un gruppo si tramuta in partito. Solo una capacità politica trasforma un gruppo sociale in soggetto, e fa sì che da «caos tumultuoso diventi esercito politico organicamente predisposto» (p. 1627). La ricostruzione della società civile, della formazione dei gruppi sociali, delle fratture e delle autonome espressioni politiche di partito è quindi cruciale. Il passaggio dalla fase di movimento nascente a quella della istituzionalizzazione in partito distinto è l’aspetto per Gramsci genetico della soggettività politica. «Occorre poi tener conto delle spinte innovatrici che si verificano, che non sempre sono vitali, cioè hanno una conseguenza, ma non perciò devono essere meno seguite e controllate. Intanto all’inizio un movimento è sempre incerto, di avvenire dubbio, ecc.; bisognerà attendere che abbia acquistato tutta la sua forza e consistenza per occuparsene? Neanche è necessario che esso sia fornito delle doti di coerenza e di ricchezza intellettuale: non sempre sono i movimenti più coerenti ed intellettualmente ricchi quelli che trionfano. Spesso anzi un movimento trionfa proprio per la sua mediocrità ed elasticità logica: tutto ci può stare, i compromessi più vistosi sono possibili e questi appunto possono essere ragioni di trionfo» (p. 1736). Nelle pieghe della società civile si sviluppano movimenti, istanze provvisorie, rapporti incerti di forza, abbozzi di elaborazione culturale e il successo di una candidatura al governo del paese è problematico, aperto alle più eterogenee combinazioni, e tutt’altro che scontato e predeterminabile.
Lo Stato moderno non è un puro edifico formale, è il terreno dello scontro e dell’istituzionalizzazione delle tendenze prevalenti nella società. Una grande trasformazione dello Stato moderno riguarda il sistema politico che entra in un ambiente post-liberale dopo il consolidamento della realtà di partito che manda in frantumi gli schemi del trasformismo e della rappresentanza individualistica. La genesi dei partiti è rinvenuta da Gramsci in grandi cesure storiche e sociali che lasciano rintracciabili segni per un tempo lungo. «I partiti nascono come organizzazione dopo avvenimenti storici importanti per i gruppi sociali rappresentati: ma essi non sanno sempre adattarsi alle nuove epoche o fasi storiche, non sanno svilupparsi secondo i rapporti complessivi di forze» (p. 910). Dopo la genesi scatenata da eventi che fanno da spartiacque, il partito per durare deve acquisire un’attitudine all’istituzionalizzazione e all’adattamento rispetto alle vicende storiche. Nati da fratture, i partiti devono reagire alle insidiose «tendenze a diventare anacronistici e mummificati». Dove questa continua opera di innovazione manca, i partiti si esauriscono come spinte dinamiche sino a coincidere con burocrazie che fanno «corpo a sé» e al loro cospetto il corredo plurale delle società si attenua. I partiti, soprattutto quelli di massa nati da fratture reali, esterne al quadro del parlamento, appartengono in origine alla trama della società civile. Nota Gramsci che «la storia delle classi subalterne è intrecciata a quella della società civile, è una funzione disgregata e discontinua della storia della società civile”2. Poi entrano nelle sedi istituzionali mostrando la loro forza e al tempo stesso il rischio di una ossificazione.
Gramsci, nel Quaderno XXIII, postula la necessità di un passaggio dal sociale al politico («l’unità storica delle classi dirigenti avviene nello Stato», p. 2288) per svolgere i compiti funzionali richiesti dalla politica moderna. L’assunzione di una prospettiva statuale è per il partito indispensabile per gestire il dinamismo e la capacità di innovazione di una moderna democrazia. Il caso italiano si presenta come l’esemplificazione di una mancata congiunzione tra il sociale (conflitto tra gruppi sociali con interessi opposti) e lo statuale (terreno di unificazione delle élite in contesa per l’egemonia). Questo iato affiora perché la storia dei partiti è per certi versi una storia «di spostati», di figure eccentriche che restano legate alla frase, al volontarismo, alla faziosità di pseudo-aristocrazie» perché prive di blocchi sociali e di organizzazione politica (Quaderno XX e Quaderno I)3. La nascita di un partito prevede una «fase molecolare» che va sondata per ricostruire «come si inizia la costituzione di un partito, come si sviluppa la sua forza organizzata e di influenza sociale» (p. 1058). Dalla fase molecolare che vede un gruppo dare visibilità a una crisi, espressione a una tensione si passa al momento della strutturazione con mutevoli gradi di organizzazione. La genesi di «una volontà collettiva di un certo grado di omogeneità» richiede una «analisi estrema, capillare» con la ricerca di libri, opuscoli, conversazioni orali. Si tratta di quel nucleo di «utopie, ideologie confuse e razionalistiche astratte» che nelle fasi iniziali sono importanti per cogliere il partito «nel tempo e nello spazio in cui il fatto storico si verifica» (ivi). Oltre alla «mera narrazione della vita interna di un’organizzazione», alla «biografia di una singola personalità», e ad una sorta di «entusiasmo mistico» per «i fatterelli interni», il quadro «storico politico» deve essere più largo per abbracciare gli iscritti, le masse e i gruppi sociali. Questa considerazione della vicenda collettiva è indispensabile per misurare la efficacia reale positiva o negativa di un partito.
Per Gramsci i partiti esterni, antisistema non si strutturano con efficacia, e quindi con il necessario realismo, come soggetti della mobilitazione collettiva perché in Italia manca la trasformazione matura dei soggetti alternativi e le forze radicali restano fazioni, senza alcuna ottica politica generale. I partiti interni al circuito della rappresentanza non assumono tratti funzionali e restano embrioni incapaci di svolgere un ruolo di raccordo e di formazione di classi dirigenti. Gramsci riflette sulle carenze delle classi dirigenti di destra, centro e sinistra quali interpreti mancate della funzione di mediazione politica indispensabile per connettere istituzioni e interessi sociali. Al vuoto del notabilato liberale asfittico e privo di sostegno al di fuori della cerchia dei favori e dei beneficiari dei fenomeni di mobilità verticale, si aggiunge la sterilità della sinistra. Il mondo del radicalismo riesce ad esprimere solo una classe politica «isterica, una serie di tendenze sovversive-anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico concreto, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire costruttivo». Tra pratiche di sottogoverno e seduzioni anarcoidi sprovviste di un realismo matura il sistema politico, non si struttura secondo moduli moderni e il suo rendimento rimane scarso nella capacità di integrazione. Senza una comparsa del partito di massa il quadro istituzionale rimane incerto e vacante pare il soggetto dell’indirizzo politico.
Il partito di massa, con la sua direzione consapevole, per Gramsci supera il momento dello spontaneismo (conflitti organizzati in una «realtà che è ricca delle combinazioni più bizzarre») e del «bergsonismo» (pp. 330-2). Ciò va inteso però non nel senso di una presunzione paternalistica della leadership che diffida di ciò che scaturisce dalle azioni reali di protesta e censura ogni movimento che si discosta dai canoni consolidati di una astratta teoria della grande trasformazione. Anche nei movimenti che svelano solo «frammenti di concezione del mondo», nelle imprese collettive che mostrano la mancanza della consapevolezza di una «classe per sé», bisogna cogliere aspetti potenzialmente costruttivi. Gramsci suggerisce di trascendere l’astratta disputa tra spontaneità e disciplina. Dinanzi ai corporativismi, alle unilateralità delle rivendicazioni dei movimenti spontanei non basta contrapporre la armonica coerenza della proposta politica. Compito di un partito del cambiamento è quello di non disprezzare con sufficienza le microconflittualità per cercare di «dar loro una direzione consapevole», di non contrapporsi unilateralmente ai moti spontanei ma di dirigerli «inserendoli nella politica» (p. 331)4. Un partito non è un registro passivo della domanda che sale dalle pieghe del sociale, ma è un costruttore di sintesi politica, che è un momento indispensabile per svolgere compiti di direzione efficace. Dalla articolazione delle domande frammentate, il partito deve transitare all’affinamento di una autonoma visione politica in grado di offrire risposte alle grandi questioni.
Questa metamorfosi, che consente di «dare una direzione consapevole ai moti spontanei», è ardua da compiere. Ma proprio essa si richiede a una grande classe politica per mutare di segno gli antagonismi frantumati e «farli diventare un fattore politico positivo» (p. 332). In nome della coerenza, della astratta compattezza teorica, si realizza altrimenti soltanto un monumento della passività. Gramsci è consapevole che soprattutto nelle crisi gli sbocchi progressivi alle mobilitazioni spontanee sono assai rari e più regolarmente si presentano «gli esempi regressivi». Soprattutto in condizioni istituzionali fragili, e di forte ebollizione sociale, i moti spontanei sono una facile preda del sovversivismo dall’alto che prolifera in sistemi nei quali non si ha «un dominio della legge, ma solo una politica di arbitri e di cricca personale o di gruppo» (p. 327). Con una certa regolarità secondo Gramsci si può prevedere che «a un movimento spontaneo delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra» (p. 331). Per bloccare questa slavina che da un cenno di assalto al cielo scivola nei bassifondi della conservazione occorrerebbe un grande soggetto politico. La mancata comparsa di questa tipologia di partito determina le antinomie del sistema politico. Un termine che Gramsci recupera, per descrivere la condizione della vita istituzionale, è quello di ascari. «Venivano chiamati ascari i deputati delle maggioranze parlamentari senza programma e senza indirizzo, quindi sempre pronti a defezionare e a lasciare in asso i governi che si basavano su di essi; l’espressione era legata alle prime esperienze fatte in Africa con le truppe indigene mercenarie» (p. 1305). Con questo personale parlamentare fluttuante, i governi avevano una vita stentata e il programma politico non trovava supporti adeguati nelle effimere dinamiche della rappresentanza.
La soluzione trasformista
Gramsci legge i processi post-unitari all’insegna del trasformismo, da lui assunto quale connotato dei comportamenti dei singoli attori nell’arena parlamentare e come tratto distintivo del sistema nel suo complesso. Nei Quaderni egli distingue tra un primo profilo di trasformismo, quello tardo ottocentesco che va dal 1860 al Novecento, nel quale prevale il «trasformismo molecolare» (con «le singole personalità d’opposizione che si incorporano», p. 962) e una seconda manifestazione del fenomeno, quella novecentesca, in cui si afferma un trasformismo di partito quale carattere di sistema (assorbimento delle ali estreme con «interi gruppi» che si accasano al centro). Il palamento sopravvive senza una delimitazione in campi bidimensionali delle forze, e solo in aula il governo cerca di racimolare i numeri: la maggioranza non data, va contrattata con scambi, offerte. Questo scenario per Gramsci è all’origine della frana del regime liberale, sprovvisto di ancore e soggetti della mediazione politica. La carenza di partito, come anello di congiunzione tra il nuovo Stato e le masse, determina un ciclo politico ingestibile che conduce alla catastrofe del sistema, incapace di tenere i propri assetti dinanzi all’urto della mobilitazione di massa. L’accelerazione della partecipazione non dispone di adeguate ancore per gestire la mobilitazione e il conflitto entro un canale di istituzioni riconosciute dagli attori quali legittime arene di uno scontro.
Un grosso nodo storico politico per Gramsci è costituito dalla fragilità del tessuto politico-organizzativo del liberalismo, surrogato dalla figura di Croce o di altri intellettuali prestigiosi che si propongono all’opinione pubblica come «leader della cultura nazionale liberale democratica». Al posto di moderni partiti, i liberali si servono di intellettuali capaci di esercitare influenza con le istanze revisionistiche nella interpretazione delle vicende statuali5. Il terreno dell’egemonia resta, nei liberali italiani, confinato nel piano culturale e non si estende sino all’organizzazione di un loro soggetto politico su basi moderne e non più incentrato su legami personali e localistici. «In realtà il modo di essere del partito liberale in Italia dopo il 1876 fu quello di presentarsi al paese come un “ordine sparso» di frazioni e di gruppi nazionali e regionali. Erano frazioni del liberalismo politico tanto il cattolicismo liberale dei popolari, come il nazionalismo (il Croce collaborò a “Politica» di A. Rocco e F. Coppola), tanto le unioni monarchiche come il partito repubblicano e gran parte del socialismo, tanto i radicali democratici come i conservatori, tanto Sonnino-Salandra, come Giolitti, Orlando, Nitti e Co. Il Croce fu il teorico di ciò che tutti questi gruppi e gruppetti, camarille e mafie avevano di comune, il capo di un ufficio centrale di propaganda di cui tutti questi gruppi beneficiavano e si servivano, il leader nazionale dei movimenti di cultura che nascevano per rinnovare le vecchie forme politiche» (p. 1353). La funzione egemonica di un singolo intellettuale poco ha a che fare con la direzione politica di un partito strutturato, rimasto assente nella tradizione liberale che ha sperimentato surrogati sconfitti, tentativi falliti, ...