Il lancio del nano
Secondo qualcuno è nata in Australia, secondo altri negli Stati Uniti. Il lancio del nano è una disciplina sportiva che, nel giro di pochi decenni, ha fatto il giro del mondo. Consiste in questo: utilizzando due maniglie poste su una tuta all’altezza della vita, un uomo (evidentemente dotato del fisico adatto) afferra un altro uomo (un nano) e lo scaglia lontano. Oltre che di una specifica tuta (spesso è quella di Superman) il nano è dotato di casco e di protezioni per gomiti e ginocchia. Vince, ovviamente, chi la fa più lunga (la distanza). Garantisce l’arbitro che assiste alla gara e misura i lanci. A suo tempo (non sono aggiornato a questo proposito) il recordman era un certo Jimmy Leonard che aveva scagliato a 9 metri e 15 centimetri il nano Lenny the Giant.
Ma non sempre le cose sono andate lisce. Ecco cosa raccontava qualche anno fa il sito news2000.libero.it a proposito del campionato di Windsor:
Il ministro della Pubblica Sicurezza dell’Ontario, Bob Runciman, ha condannato il concorso e chiesto di cancellare la serata e ha aggiunto che già altrove, in Florida e in Francia per esempio, sono state approvate leggi che mettono al bando il lancio del nano. Il deputato Sandra Pupatello, numero due del partito Liberale all’opposizione, ha proposto un disegno di legge per bandire questa pratica dallo Stato dell’Ontario e chiesto al parlamento un’approvazione immediata. Il partito conservatore, attualmente al governo, ha tuttavia nicchiato, sostenendo di aver bisogno di tempo per valutare tutte le eventuali conseguenze. Il disegno di legge proposto prevede multe fino a 5mila dollari e sei mesi di reclusione per chiunque sia coinvolto nella pratica, nano, arbitro o lanciatore. Ma i diretti interessati che cosa ne pensano? Alto quattro piedi, poco più di un metro e venti, Tripod è il protagonista del campionato in Ontario: «Adoro questa disciplina, mi sento benissimo» dichiara dopo un’ora dall’inizio della gara, con in tutto 7 lanci sulla schiena e ancora 13 partecipanti in attesa.
A questa sorta di proibizionismo sportivo si oppongono dunque i diretti interessati: un nano francese ha denunciato l’Eliseo alla commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite perché il decreto del governo francese, che proibisce questo gioco, lo ha di fatto privato del posto di lavoro.
È facile immaginare la deflagrazione mediatica provocata dalla diffusione di questo sport: digitando “il lancio del nano” il contatore di Google tempo fa censiva circa 900 pagine web in italiano, che salgono addirittura a 45.600 se si digita “dwarf tossing”. Anche in questo caso il record personale spetta a Lenny the Giant: circa 1.200 pagine per lui. Ancora: oltre 75.000 volte qualcuno ha giocato al lancio del nano su www.flashgames.it e Il lancio del nano è il titolo di un libro del 2006 di Armando Massarenti (è qui che appresi l’esistenza del fenomeno) oltre che di un progetto per la diffusione della filosofia nelle scuole superiori.
Ma, per quanto ci riguarda, quello del lancio del nano è un fenomeno le cui implicazioni e conseguenze intingono il loro senso in alcune questioni culturali fondamentali. Molto (forse troppo) brevemente provo a svilupparle.
1. La questione della libertà di sé: la libertà di essere come si vuole, di perseguire scopi che si percepiscono come essenziali e di mettere in atto le azioni necessarie a raggiungerli, la libertà di essere o di provare ad essere ciò che dentro ci si sente chiamati ad essere, è una questione di antica rilevanza che genera infinite connessioni semantiche e ha il suo doppio nella questione della realizzazione personale o, se si vuole, nella questione della dimensione vocazionale della esistenza di ciascuno. E per questo rientra a pieno titolo nel novero di quelle condizioni di manifestazione piena dell’esistenza che sono i diritti soggettivi.
2. Il sistema dei diritti soggettivi è in rapporto (in un modo che è al tempo stesso necessario e dialettico) con il sistema a geometria variabile dei diritti e dei doveri collettivi: il diritto della collettività di percepirsi coerente e univoca; il diritto della collettività di illudersi di assomigliare realmente all’immagine che ha di sé; il dovere della collettività di proteggersi dalla ferita narcisistica causata dalla scoperta della dissomiglianza. E questa relazione tra dimensione soggettiva e dimensione collettiva crea un delicato problema gerarchico tra la dimensione plurale e quella singolare dell’esistenza, tra la pretesa normativa dello Stato e il diritto all’autoregolamentazione dell’individuo (N.B.: uso qui il termine Stato, che è riduttivo e generico, ma mi riferisco alla pluralità delle istituzioni capaci (per carisma e/o per potere) di indicare le norme, giuridiche e morali, del comportamento individuale e collettivo).
3. Chiunque operi nel campo del prendersi cura sarà costretto allora a dimenare il proprio intervento all’interno di questa forbice gerarchica (dimensione singolare e plurale dell’esistenza), giacché è esattamente con l’esecuzione del suo dovere istituzionale di cura che lo Stato lenisce, o tenta di lenire, il dolore del suo corpo (il corpo sociale) frustrato e ferito di disillusione (perché ha scoperto di non assomigliare alla immagine che ha di sé). Va da sé che la natura strettamente normativa del prendersi cura “collettivo” (si pensi a come lo Stato pensa e agisce il tema dell’eutanasia) conferma in maniera irrisolvibile il fatto che l’attenzione al singolo è una forma di controllo sociale.
4. Le pratiche di controllo sociale (pratiche che si concretizzano in norme e precetti ethopoietici: che producono cioè comportamenti) sono rese necessarie dalla esigenza di stabilire una connessione gerarchica tra ciò che deve essere rappresentato e percepito come danno sociale e ciò che deve essere rappresentato e percepito come danno individuale. Non è sufficiente l’individuazione di una sintesi tra questi due livelli di attribuzione: lo Stato, cioè, non può limitarsi a una azione pedagogica di coniugazione dei due livelli. Il sistema considera indispensabile affermare il primato del danno sociale (quale che sia la sua natura) su quello individuale e, per fare ciò, adotta come sociale ogni danno che normalmente viene percepito invece come individuale.
Questa pratica adottiva di senso produce la scomparsa della singola persona e della sua inesauribile soggettività e reifica un soggetto collettivo ausiliario e supplente che presidia le libertà individuali commissariandole ad libitum.
Non solo: adottando, insieme al danno e al dolore, la libertà di ciascuno, il sistema la orienta in una direzione piuttosto che in un’altra, le attribuisce o le nega la patente di legittimità, sancisce ciò che è normale e ciò che è anormale, ciò che è sano e ciò che è mostruoso.
Esortazioni e sfregi di Stato
Non ci siamo ancora lasciati definitivamente alle spalle le migliaia di iniziative pubbliche legate alla Giornata Internazionale per la eliminazione della violenza sulle donne (25 novembre), ma possiamo già fare alcune considerazioni. La prima considerazione è una premessa: è cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza diffidare dalle Giornate, dalla idea che sta a monte e dai rischi che stanno a valle.
E intendo dalle Giornate-quali-che-siano. Il dispositivo liturgico delle Giornate nasconde una trappola, alla quale è difficile sfuggire, che produce una serie di rifrazioni dannose per la percezione collettiva dell’oggetto stesso della Giornata. Ad esempio una chiamata alle armi può trasformarsi in una celebrazione, un’occasione di attenta riflessione in una festa. Insomma, se in generale a una buona intenzione non corrisponde necessariamente un buon risultato, nel caso specifico delle Giornate è veramente difficile che si crei una corrispondenza.
Una seconda considerazione riguarda il contenuto e il senso di tante iniziative di questo genere. Generalmente l’argomento viene sviluppato, soprattutto in contenitori patologici come i talk delle televisioni generaliste, utilizzando non solo l’escamotage della spettacolarizzazione del dramma ma anche utilizzando categorie moralistiche che, per definizione, sono improduttive se non dannose.
L’esortazione, ad esempio, è una delle forme comunicative del moralismo e gran parte degli slogan, degli spot, dei discorsi sono esortativi. Le esortazioni funzionano solo nelle narrazioni mitopoietiche della tradizione religiosa che ha trasformato in icone aforistiche alcune esperienze pedagogiche significative. Nella realtà invece le esortazioni non servono a nulla: se funzionassero io non sarei obeso medio-grave da anni. Se le esortazioni funzionassero la gente avrebbe smesso da anni di farsi le pere.
A una cosa, effettivamente, le esortazioni servono: a nascondere il vuoto di pensiero. Se non so come gestire la complessità di un gruppo di bambini scalmanati che mi sta distruggendo il soggiorno, posso provare con una esortazione (oppure compro il libro di S.O.S. Tata). Vuoto di pensiero vuol dire, in questo caso, assenza di una strategia che, a sua volta, dipende dalla mancanza di una teoria di riferimento.
Non si può produrre cambiamento in uno specifico comportamento se non si ha una teoria su quello specifico comportamento. A meno che non ci si voglia affidare al caso o alla fortuna, non si può intervenire su un fenomeno, anche solo per prevenirlo, se non si dispone di una teoria su quel fenomeno. Se quel comportamento/fenomeno è una specifica forma di violenza è necessario disporre di una epistemologia almeno generale della violenza, nella quale inserire quel comportamento.
Ad esempio la Campagna della Regione Puglia contro la violenza e il femminicidio (“Troppo amore: sbagliato”) non è esortativa e dunque non è neanche moralistica ma è esplicitamente fondata su una teoria. Una teoria terribile, per quello che capisco, una teoria che non condivido e che considero anche pericolosa, ma una teoria.
E questa è la strada giusta, non la retorica esortativa: ai ragazzi e alle ragazze, agli uomini e alle donne, bisogna mettere a disposizione non una raccomandazione, non un momento commovente, ma uno schema esplicativo. Lo stesso che deve essere utilizzato, mutatis mutandis, per gli interventi sul campo.
Disporre di una epistemologia della violenza, così come – per altre cose - di una teoria della mente, non è una soluzione in sé, ma è l’inizio di una soluzione possibile perché rende possibile pensare un intervento e una soluzione. L’esortazione invece è il modo dell’impotenza, per non dire della incapacità. Il censimento delle incapacità è facile: basta contare gli STOP! (a qualunque cosa) contenuti nei titoli e negli slogan oppure le fotografie di donne nella varietà del seduta-per-terra-con-le-braccia-intorno-alla-testa. La semplificazione è il primo passo verso la banalizzazione e la banalizzazione della violenza è l’anticamera della sua legittimazione.
L’ultima considerazione è su un caso specifico: quando ho letto la notizia ho immaginato che ci sarebbe stata una sollevazione indignata di tutte quelle persone (donne soprattutto) che ogni giorno lottano contro la violenza di genere e si battono per il rispetto dei diritti d...