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Roma
Informazioni su questo libro
Pierre Froment, giovane abate vissuto nei quartieri più degradati di Parigi, scrive un libro ispirato a ideali di giustizia sociale e carità cristiana, Roma Nuova, subito messo all'Indice dalla Chiesa. Giunto a Roma per difendere la propria opera e ottenere udienza da papa Leone XIII, si renderà conto che il suo lavoro non potrà mai ottenere l'approvazione di quel Cattolicesimo attento a difendere il proprio potere temporale. Alle vicende dell'abate Froment, ospite nel Palazzo Boccanera in via Giulia, si intreccia la tragica storia d'amore dei cugini Dario e Benedetta, alla ricerca di un'impossibile felicità. Prefazione di Emanuele Trevi.
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Informazioni
Argomento
LetteraturaCategoria
ClassiciÉmile Zola
Roma
prefazione di Emanuele Trevi
bordeaux eBook
© Bordeaux 2013
www.bordeauxedizioni.it
Impaginazione e realizzazione digitale/Plan.ed
www.plan-ed.it
isbn 978-88-97236-20-7
Prefazione
Non aveva nulla di eccezionale il piccolo drappello di signori in cilindro e marsina radunato in capo a un binario della Stazione Termini la mattina del 31 ottobre del 1894; di gente “importante”, a vario titolo e per vari motivi, a Roma ne arrivava ogni giorno. Quel comitato d’accoglienza aspettava il treno da Parigi, il cui arrivo era previsto per le sette in punto. Certo, émile Zola era uno di quei nomi capaci di incutere, oltre che ammirazione, una sorta di venerazione oggi difficile da immaginare. I seguaci del campione del naturalismo letterario, del futuro difensore dell’innocente Dreyfus, dell’autore di Germinal e della Bestia umana erano una moltitudine anche a Roma, come in tutta Italia. Non si trattava solo del prestigio di un romanziere di successo, come possiamo intenderlo oggi.
Quel francese barbuto e tutto d’un pezzo, quel lavoratore indefesso, quell’avvocato dei miseri e degli oppressi era il sacerdote della verità, l’apostolo di quel Progresso che si scriveva solo con la maiuscola. È diventato fin troppo facile sorridere di questi miti nonneschi. Ma provate ad aprire ancora oggi un romanzo di Zola: quella potenza, quell’energia sembrano rimaste intatte. Più che uno stile letterario, il naturalismo era una specie di religione laica, un nobile impegno di giustizia dal quale era impossibile derogare.
Tutto si aspettavano, Zola e signora, meno che quella pubblicità poco desiderata. Ma a fare gli onori di casa, scortando la coppia dalla stazione fino al Grand Hotel, a poche decine di metri, c’erano nomi illustri nei giochi politici e giornalistici della città, come Attilio Luzzatto e il conte Bertolelli, direttore e amministratore della Tribuna, il potente giornale di indirizzo liberale. Non si poteva dire che a Zola mancassero amicizie influenti. Nelle cinque settimane del suo soggiorno romano, tutte le porte gli furono aperte, dai salotti più rinomati alle ambasciate. Vennero offerti banchetti in suo onore, e lo scrittore fu ricevuto da Crispi, da re Umberto e dalla regina Margherita. Ma proprio questa accoglienza calorosa, fin da quella prima mattina, fu un ostacolo ai suoi progetti. Il guaio è che a Zola interessava proprio un’altra Roma, la quale non solo ostentava indifferenza al suo arrivo in città, ma gli rifiutava addirittura una semplice udienza richiesta con espressioni notevoli di rispetto e umiltà. Ma Leone XIII, pontefice fiero e dal carattere decisamente difficile, non aveva nessuna intenzione di ricevere lo scrittore che, a parte le sue idee sovversive, da pochi mesi aveva pubblicato un romanzo imbarazzante fin dal titolo, Lourdes, ufficialmente condannato dall’Indice. E così, mentre il Quirinale lo festeggiava, dovevano rimanergli chiuse le porte del Vaticano, e più in generale di quella che si definiva la Roma nera, che considerava ancora la presenza a Roma del re e del giovane Stato italiano come un’usurpazione passeggera. Quando poi, in occasione di un pubblico brindisi, un ammiratore troppo zelante definì Zola come un grande esempio di “libero pensiero”, i passi diplomatici tentati per fargli ottenere l’udienza dal papa dovettero essere arrestati definitivamente.
Quella del mancato incontro fra Zola e Leone XIII è una storia che ha lasciato tracce negli archivi diplomatici di Palazzo Farnese, già allora ambasciata di Francia, e che è stata ricostruita molti anni più tardi da un sacerdote e grande scrittore cattolico, don Giuseppe De Luca, che si muoveva tra gli scaffali e i faldoni della Biblioteca Vaticana come fosse casa sua. Anche a non nutrire grandi simpatie clericali, bisogna ammettere che il papa, in questa occasione, tutti i torti non li aveva. Non solo, come accennavo, perché il precedente romanzo di Zola era stato condannato. Non era un mistero per nessuno il motivo del viaggio di Zola, che tra i grandi dell’Ottocento fu forse il meno appassionato di viaggi e di turismo, e se non fosse stato per la sua maniera di lavorare, si sarebbe risparmiato volentieri quella vacanza romana. Ma era ormai un segreto di Pulcinella che il seguito del famigerato Lourdes si sarebbe intitolato Roma e avrebbe raccontato le nuove avventure del protagonista del primo romanzo, un prete ancora giovane, Pierre Froment, convertito al socialismo dalle esperienze di apostolato nei quartieri più miserabili di Parigi.
Anima pura e ardente, Pierre parte per Roma quando viene a sapere che il suo libro, nel quale cerca di accordare gli ideali della carità cristiana e della giustizia sociale, sta per essere condannato dall’Indice. Come Zola, anche lui desidera essere ricevuto in privato dal papa, per spiegarsi ed evitare quella dolorosa messa al bando. Con la differenza che il personaggio romanzesco riesce, dopo tre mesi di estenuanti attese, a ottenere infine l’agognato faccia a faccia con Leone XIII.
Una volta elaborato lo schema generale del nuovo romanzo, l’infaticabile e scrupoloso Zola si mise all’opera, iniziando con lo studiare una gran mole di articoli e saggi sull’Italia e in particolare su Roma, sul Vaticano e la sua gerarchia, sulla vita sociale e politica della nuova capitale. Ma tutto questo lavoro preparatorio non sarebbe valso a nulla senza l’esperienza diretta della città: ed ecco il motivo di una residenza a Roma che, per quanto piacevole, fu tutto meno che una vacanza. Tutti i giorni, armato del suo baedeker, Zola si avviava verso alcune mete turistiche obbligate. Ma era la Roma moderna a incuriosirlo molto più delle rovine dell’antica: i nuovi quartieri umbertini, le aspirazioni cosmopolite della giovane capitale, le regole di una vita sociale così diversa da quella di Parigi. Tornato a Parigi con quattrocento pagine di diario da sommare agli altri dossier preparatori, Zola si mise all’opera, e tra la fine del 1895 e la primavera dell’anno successivo Roma appariva a puntate contemporaneamente in Francia e in Italia. Qui da noi fu un clamoroso insuccesso di critica e di pubblico. Eppure, le settecento e più pagine di questo romanzo si leggono ancora oggi con passione e interesse crescenti.
È una perfetta fotografia della Roma nel 1894 quella che pian piano viene fuori dai capitoli del libro. Nonostante la fedeltà ai suoi propositi realistici, l’istinto del grande romanziere gli suggerì di non affidare il racconto solamente alla vicenda del suo giovane prete e al suo colloquio con Leone XIII. E così, intrecciò a quella vicenda il racconto di un amore assoluto e disperato tra due nobili cugini, Dario e Benedetta, nipoti del potente cardinal Boccanera. È una tragedia che può ricordare le leggende su Beatrice Cenci e le Cronache italiane di Stendhal, e dove non mancano colpi di pugnale, un veleno potentissimo, un intrigo politico che a causa di un colpo gobbo del destino distrugge la vita di due giovani innocenti. Tutto culmina in una scena madre delle più memorabili, con i due amanti allacciati in un ultimo abbraccio e seppelliti insieme, mentre la loro leggenda si aggiunge alle innumerevoli storie di passione e morte che il popolo di Roma si tramanda da secoli.
Magistrali sono le pagine dedicate all’ambiente dove si consuma la tragedia, l’antico palazzo Boccanera, affacciato su via Giulia, enorme e immerso in un’eterna penombra, autentico simbolo di un orgoglio aristocratico ormai senza futuro. Per descriverlo, Zola si ispirò a due palazzi reali, anch’essi affacciati su via Giulia: palazzo Sacchetti soprattutto, terminato dal Sangallo nel 1543, e palazzo Falconieri. Ma se le necessità della trama lo portano a immergersi nel cuore medievale di Roma, non manca uno sguardo (del tutto inedito da parte di uno scrittore straniero) ai nuovi quartieri, e soprattutto ai Prati. È un panorama di interesse storico notevolissimo, perché Zola visitò Roma in un momento di crisi urbanistica conseguente a sciagurate operazioni speculative e finanziarie.
Il nuovo quartiere dei Prati di Castello, come si diceva allora, fu costruito in fretta e rimase a lungo deserto e in attesa di una nuova popolazione che tardava ad arrivare (nel 1894 gli abitanti di Roma erano appena quattrocentomila). È difficile immaginarlo oggi, ma i nuovi quartieri della città umbertina (che dovevano rivaleggiare con gli sviluppi urbanistici di Parigi e Berlino) rimasero per anni una terra di nessuno, dove gli enormi palazzi deserti, spesso nemmeno completati, servivano da rifugio alla popolazione più misera e indigente.
Roma rimane uno dei libri più ambiziosi ed enciclopedici dedicati alla nostra città. Zola volle scrivere un’opera capace di contenere in sé un’indagine sui misteri del Vaticano, una memorabile storia d’amore e morte, e addirittura un’affidabile guida turistica alla Roma antica e moderna, alla quale non manca una classica escursione fuori porta alla volta di Frascati. Certamente, mise troppa carne al fuoco. Ma ancora oggi i lunghi capitoli di Roma si lasciano ammirare come una mostra di vecchi dagherrotipi, capaci di custodire, con nitidezza di contorni e forza evocativa, un’immagine del passato credibile e concreta come solo i grandi artisti sono capaci di regalare.
Emanuele Trevi
Capitolo primo
Nella notte il treno aveva accumulato molto ritardo tra Pisa e Civitavecchia ed erano quasi le nove del mattino quando l’abate Pierre Froment, dopo un arduo viaggio di venticinque ore, arrivò a Roma. Aveva portato con sé una sola valigia; scese rapidamente dal vagone in mezzo alla ressa dell’arrivo, scostando i facchini che si avvicinavano premurosi e portando da sé il leggero bagaglio, eccitato per il fatto di essere arrivato, di sentirsi solo e di vedere. Davanti alla stazione, a piazza dei Cinquecento, salì subito su una di quelle piccole carrozze scoperte disposte lungo il marciapiede. Pose accanto a sé la valigia e diede l’indirizzo al cocchiere:
– Via Giulia, palazzo Boccanera.
Era il 3 di settembre, un lunedì, una mattina dal cielo terso, di una dolcezza incantevole. Il cocchiere, un ometto tondo dagli occhi lucidi e dai denti bianchi, sorrise nel riconoscere dall’accento un prete francese. Sferzò il magro ronzino e la vettura partì con la velocità delle carrozzelle romane, linde e allegre. Quasi subito, giunto sulla piazza delle Terme dopo aver fiancheggiato gli alberi del piccolo giardino verdeggiante, l’uomo si volse, sempre sorridente, indicando con la frusta le rovine.
– Le terme di Diocleziano – disse in un cattivo francese da cocchiere premuroso, attento a conquistarsi la simpatia dei forestieri per assicurarsene la clientela.
Dalle alture del Viminale, dove si trova la stazione, la carrozza scese di corsa il forte pendio di via Nazionale. Davanti a ogni monumento il cocchiere voltava il capo, indicandolo a Pierre sempre con lo stesso gesto. In quel tratto della larga via nuova non v’erano che cantieri recenti. A destra, tra un edificio e l’altro, si ergevano delle siepi al di sopra delle quali si stendeva un interminabile edificio giallastro in cattivo stato, convento o caserma.
– Il Quirinale, il palazzo del re – disse il cocchiere.
Da quando aveva stabilito la data del viaggio, Pierre si era dedicato a studiare su piante e libri la topografia di Roma tanto che pensava di conoscerla ormai bene. Avrebbe anche potuto orientarsi senza dover chiedere la strada, e addirittura fare a meno delle spiegazioni. Ciò che invece gli impediva di riconoscere i luoghi era questo continuo salire e scendere dovuto ai colli. Intanto il movimento della frusta si fece più largo e la voce del cocchiere più forte, sebbene un po’ ironica, quando indicò a sinistra un’immensa costruzione ancora fresca e di recente imbiancatura, un edificio gigantesco in pietra, sovraccarico di sculture, cornici e statue.
– La Banca Nazionale.
Più giù, mentre la carrozza svoltava in una piazza triangolare, alzando lo sguardo Pierre scorse un giardino pensile sorretto da un largo muro liscio, dove nel cielo limpido si stagliava il profilo fiero ed elegante della chioma a ombrello di un pino centenario. L’abate percepì tutto l’orgoglio e la grazia di Roma.
– Villa Aldobrandini.
Poco più avanti una visione repentina completò l’incanto. La strada faceva all’improvviso un’altra curva quando, nell’angolo, da una larga apertura irruppe un fascio di luce. In fondo, una piazza bianca di un’abbagliante polvere dorata. In quella luminosità d’aurora mattutina si ergeva una colonna di marmo, da secoli indorata dalla luce del sole appena sorto. Pierre rimase sorpreso quando il cocchiere gliene disse il nome; non se l’era immaginata così, in quell’abisso accecante tra le ombre vicine.
– La colonna Traiana.
In fondo alla discesa via Nazionale faceva un’ultima svolta. Nel rapido trotto del cavallo, l’uomo pronunciò una serie di nomi: palazzo Colonna, con il giardino ornato da scarni cipressi; palazzo Torlonia, mezzo sventrato per nuove migliorie; palazzo Venezia, nudo e formidabile, con le sue mura smerlate, la sua severità tragica da rocca medievale, dimenticata nella moderna vita borghese. Lo stupore di Pierre cresceva davanti all’aspetto imprevisto delle cose. La sorpresa fu assai grande quando il cocchi...
Indice dei contenuti
- Prefazione
- Capitolo primo
- Capitolo secondo
- Capitolo terzo
- Capitolo quarto
- Capitolo quinto
- Capitolo sesto
- Capitolo settimo
- Capitolo ottavo
- Capitolo nono
- Capitolo decimo
- Capitolo undicesimo
- Capitolo dodicesimo
- Capitolo tredicesimo
- Capitolo quattordicesimo
- Capitolo quindicesimo
- Capitolo sedicesimo
