La scienza politica di Gramsci. Nuova edizione ampliata
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La scienza politica di Gramsci. Nuova edizione ampliata

Informazioni su questo libro

A ottant'anni dalla morte di Gramsci ci sembra utile pubblicare la nuova edizione del libro di Michele Prospero in una versione accresciuta e aggiornata.Un tentativo sistematico di leggere Gramsci alla luce delle sue categorie politiche, avendo come riferimento i classici della modernità (soprattutto Machiavelli). Cimentandosi con i nodi storici di lunga durata, con le fratture originarie della statualità e con i conflitti che attraversano la storia d'Italia, Gramsci affronta con precisione questioni teorico-politiche ancora oggi di scottante attualità: il partito personale, il capo carismatico, la partecipazione, il partito politico di massa, il trasformismo, la crisi di rappresentanza, la soluzione plebiscitaria, la differenziazione territoriale, la caduta del regime democratico e la teatralizzazione del politico.Un volume imperdibile per approfondire l'apertura analitica di Gramsci, le cui lucidissime e tenaci pagine offrono strumenti di interpretazione ancora oggi inesplorati.

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Informazioni

Introduzione alla seconda edizione

Il bergsonismo di Gramsci

Un tentativo organico di sistemazione dei pilastri fondamentali della scienza politica di Gramsci è sostanzialmente mancato. Eppure nei Quaderni affiora una grande curiosità per accumulare un vasto materiale bibliografico e per predisporre una raccolta di fonti che servano per preparare uno studio scientifico sulla politica. In una pagina, che rivela le sue aspirazioni e la preoccupazione di reperire la letteratura esistente in materia politologica, Gramsci annota: «Carlo Flumiani, I gruppi sociali. Fondamenti di scienza politica, Milano, Istituto Editoriale Scientifico, 1928, pp. 126, L. 20. (Procurarsi il catalogo di questa casa che ha stampato altri libri di scienza politica)»1. Tra gli studi dedicati al Gramsci politico, al centro dell’interesse degli interpreti di solito sono state poste delle questioni biografiche o la valutazione di scelte strettamente connesse alla militanza in un movimento organizzato. Nei settori più vicini alla ricerca scientifica, il campo di indagine in cui maggiormente si è sviluppata, soprattutto negli ultimi tempi, una influenza significativa delle sue categorie analitiche è stato quello delle relazioni internazionali2. Molto suggestiva, per l’inquadramento del sistema sociale moderno, alla luce dello sviluppo ineguale degli spazi politico-sociali che vede il costituirsi di un centro mondiale egemonico che domina e scarica le proprie contraddizioni sui paesi periferici e dipendenti, è apparsa una indicazione dei Quaderni (p. 1759). «Come, in un certo senso, in uno Stato, la storia è storia delle classi dirigenti, così, nel mondo, la storia è storia degli Stati egemoni. La storia degli Stati subalterni si spiega con la storia degli Stati egemoni»3. Nel sistema delle interrelazioni che caratterizzano i tratti di un’epoca, il grado di autonomia dei soggetti statualmente organizzati non è equivalente e, nei rapporti di forza che si definiscono a livello mondiale, si stabilisce un centro dominante, che più di altri attori determina i processi, e si avvale dei vantaggi competitivi dell’asimmetria di potere tra aree centrali (egemonia) e condizioni periferiche (subalterne)4. La letteratura gramsciana, che copiosa si è accumulata nel mondo, lavora per la dilatazione della nozione di egemonia recuperata come categoria suscettibile di molteplici impieghi e per questa sua adattabilità viene collocata alla base di una visione competitiva delle relazioni tra gli Stati, le economie, le culture5. Con acutezza Gramsci (Q. p. 886) abbozza il concetto di relazioni internazionali come sistema e parla di “sistema mondiale politico”. Egli postula che, nelle condizioni moderne, è assai difficile attribuire ad un singolo Stato una capacità di controllare uno spazio che è diventato mondiale. Si chiede perciò: è possibile l’egemonia piena di una nazione nel moderno oppure «il mondo è già talmente unificato nella sua struttura economico-sociale, che un paese, se può avere ‘cronologicamente’ l’iniziativa di una innovazione, non ne può però conservare il monopolio politico e quindi servirsi di tale monopolio come base di egemonia?» (Q. p. 1618). Per questo intreccio delle economie nello spazio-mondo retto da interconnessioni Gramsci valuta se confinare la categoria di imperialismo nell’ambito economico-finanziario («non è esso possibile come imperialismo economico-finanziario ma non più come ‘primato’ o egemonia politico-intellettuale?») e calibra la nozione di dominio imperiale con doverose cautele nel campo delle relazioni tra Stati nelle quali tende ad escludere la possibilità di un illimitato comando militaristico. La supremazia o egemonia di uno Stato-potenza non è mai esaustiva nel nuovo ordine spaziale e occorre ricostruire le connessioni, i negoziati che stringono attorno al singolo paese che nella congiuntura si rivela prevalente una coalizione di forze. Ogni coalizione dominante secondo Gramsci deve tramutare l’influenza contingente in sistema stabilizzato. I rapporti di forza che vedono una posizione di prevalenza (“Stato egemone cioè una grande potenza”) mostrano che anche l’organismo statale più influente opera «con altre forze che concorrono in modo decisivo a formare un sistema e un equilibrio» (Q. p. 1629). Il sistema, inteso come costruzione di un equilibrio multipolare, sembra ridimensionare la effettualità di un impero come attribuzione di dominio ad una singola realtà nazionale e per questo Gramsci accenna a «infiniti elementi di equilibrio di un sistema politico-internazionale» (p. 1106). Lo Stato solo relativamente egemonico deve imporre le scelte di potenza in un contesto di equilibrio e in tal senso nell’ottica di un attore «il sistema deve essere stabilito in modo che, nonostante le fluttuazioni esterne, la propria linea non oscilli» (p. 1106). Il principio del rapporto di forza asimmetrico («La linea di uno Stato egemonico, cioè di una grande potenza, non oscilla perché esso stesso determina la volontà altrui» (p. 1106) convive con la cornice di un equilibrio dinamico che traccia i contorni di un sistema che, finché dura nei suoi assetti di stabilizzazione, tende a mantenere compatibilità di gestione e a distribuire opportunità d’innovazione.
Sul terreno della scienza politica, intesa in un senso più generale, l’attenzione degli osservatori è caduta su singoli concetti (rivoluzione passiva, moderno principe, blocco storico, trasformismo). Non è stato però ricostruito il filo unitario che lega i vari passaggi della ricognizione storiografica sul processo di insediamento dello Stato e i molteplici concetti che scandiscono i momenti dell’indagine gramsciana. Ha contribuito, a questa trascuratezza del recupero dello schema di indagine del Gramsci politologo, anche un dato obiettivo. La prevalenza della tradizione storicista, orientata a cogliere l’influsso avvertibile del filone del neoidealismo italiano nelle categorie politiche gramsciane, ha ostruito la visibilità di una sensibilità per le scienze positive che, seppure tangenziale, e marginale rispetto al confronto privilegiato con l’idealismo, pare comunque ben ravvisabile nella struttura delle sue note. Certi giudizi severi di Gramsci sui sociologi hanno autorizzato delle autentiche deviazioni filologiche che hanno determinato l’allontanamento dei Quaderni dal campo della ricerca storico-empirica cui invece appartiene. Taluni spunti severi contro la sociologia, quella corrente nel primo Novecento, va precisato, sono stati interpretati come l’indizio di una gramsciana indifferenza, se non proprio di una irriducibile ostilità, verso le scienze sociali e politiche in quanto tali. La contestazione del positivismo è di sicuro una costante nel percorso teorico e politico gramsciano. Se nel periodo giovanile prevale il bersaglio polemico di una cultura per la quale la realtà va accettata nelle sue scansioni temporali predeterminate, nei Quaderni il confronto teorico avviene più sul piano epistemologico.
L’avversione al positivismo si manifesta, e in un modo assai virulento, nel periodo giovanile quando negli scritti giornalistici viene celebrato “il colpo di mazza” contro la lenta “talpa” che scava nelle profondità in un modo “paziente e metodico”. Esaltando il cammino della “falange irresistibile”, Gramsci denuncia gli esiti politici nefasti della mentalità scientista, da lui considerata come un’arida e meccanica costruzione di modelli statici che ostruivano la trasparenza individuazione di un nemico da abbattere con la lotta. Il positivismo, con il suo culto dei fatti, con l’inseguimento delle regolari tendenze, coincideva con l’inerzia di un riformismo rinunciatario nel trasformare il programma massimo (la rivoluzione) in programma minimo e risolutivo. Il socialismo, che ad esso si era adagiato, confondeva il tratto “scientifico” della dottrina con la esibizione di «un balocco di fatalismo positivista»6. A questa pseudoscienza, che esaltava la passiva aspettazione degli eventi comunque destinati al compimento previsto con certezza, Gramsci contrappone il mito, l’azione, il volontarismo come sfida, rottura7. Il limite dello scientismo è per lui quello di attribuire alla realtà un carattere scientifico, di confondere l’empirico e la logica, ignorando che invece «la storia non è un calcolo matematico» (Q. p. 153). Alla “fede scientifica”, che scambiava il mondo reale per un laboratorio di scienza sperimentale, Gramsci preferisce la vita, il movimento imprevedibile che dipende dalle energie del soggetto che agisce. La “montagna” (Bergson) prevale sui “ranocchi in una palude” (i positivisti). Non esita neppure, contro il culto passivo dei fatti, a recuperare la filosofia dell’azione, dell’intuizione («è certo ormai che alle ingiurie di bergsoniani, volontaristi, pragmatisti, spiritualisti, si aggiungerà l’ingiuria più sanguinosa di futuristi! Marinettiniani!»)8. Ai mistici del fatto, che attendono la realizzazione di obiettive leggi che non consentono bruschi salti nel vuoto, Gramsci oppone la volontà di rottura che, con i bolscevichi o anche i giacobini iper-realisti, era stata sprigionata sfidando i tempi, bruciando le tappe dell’evoluzione storica9. Lo slancio attivistico («La rivoluzione russa ha trionfato di tutte le obbiezioni della storia» Sp., p. 199), la preferenza per l’azione si accompagnano alla rivendicazione liberatoria della distruzione («anche i futuristi hanno distrutto, distrutto, distrutto», e il loro settimanale si chiamava Il Principe, Sp. p. 396).
E però, immerso in questo culto dell’azione e quindi nelle pieghe del bergsonismo («Ditegli che è un volontarista, o un pragmatista, o – fatevi il segno della croce – un bergsoniano» Sp, p. 394), Gramsci, prima ancora dell’impresa scientifica dei Quaderni, intuisce i limiti delle illusioni antistataliste coltivate dai movimenti rivoluzionari. Il rimprovero che avanza verso le accelerazioni bolsceviche, lui che non disdice il volontarismo come impeto distruttivo («Volontarismo? La parola non significa nulla» per il marxista essenziale è la volontà, azione, potenza, politica indipendente, organizzazione, Sp., p. 122) è quello di coltivare una inclinazione romantica e anarchica pericolosa per il mantenimento dello Stato conquistato con le armi10. Se contro i positivisti occorre “spoltrire la volontà”, verso le seduzioni etico-kantiane che occupano il vuoto lasciato dall’empirismo (bisogna scavalcare la tradizione «democratico-liberale, cioè normativa e kantiana, non marxista, e dialettica» Sp, p. 562) e anche verso le scorciatoie anarcoidi il problema è di un salutare recupero del principio di realtà. C’è realismo e realismo, secondo Gramsci. Esiste un realismo che sprofonda nella accettazione del presente («il realismo collaborazionista è puro empirismo», Sp, p. 134) e poi c’è un realismo come quello di Marx («l’aspra logica di Marx»), o ancor più di Lenin («Lenin è il freddo studioso della realtà» Sp, p. 163) che rompe gli equilibri dati, rovescia con la prassi l’ordine delle cose («il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso» Sp, p. 66). La preoccupazione per gli effetti deleteri del nichilismo politico-giuridico, che scorre in abbondanza nel movimento rivoluzionario, induce Gramsci a un recupero delle tecniche della analisi politica e degli istituti della gestione del potere. Anche per salvare la rivoluzione bisogna cimentarsi con gli istituti della politica e coglierne i moduli di organizzazione e funzionamento delle forme.
La sconfitta della rivoluzione in occidente e il primitivismo dell’esperienza statale sovietica inducono alla fondazione analitica di una ricerca specifica sulle superstrutture o assetti del potere. L’aspetto più rilevante è l’assunzione, da parte di Gramsci, di interlocutori, come gli esponenti della scuola elitista, che non avevano ancora ricevuto una definitiva consacrazione internazionale, che sarà loro conferita ad opera della politologia anglosassone. È significativo che Gramsci, che pure appartiene ad una tradizione che formula l’ipotesi dell’estinzione dello Stato astratto, assuma come referenti teorici privilegiati proprio gli esponenti di un approccio come quello elitista che postula invece l’invarianza delle organizzazioni del potere nel tempo. Sin dagli scritti giovanili aveva mostrato diffidenza verso le suggestioni impolitiche della dottrina dell’estinzione dello Stato («Si è costruito uno schema prestabilito secondo il quale il socialismo sarebbe una passerella all’anarchia; è questo un pregiudizio scemo, una arbitraria ipoteca del futuro. Nella dialettica delle idee, l’anarchia continua il liberalismo, non il comunismo»11) e il colloquio critico con gli elitisti imbastito nei Quaderni conferma l’assunzione dello Stato come problema di lungo periodo che non può essere trascurato nei suoi risvolti tecnici e funzionali12. È anche alle difficoltà che il nuovo potere sovietico incontra, per colpa di suggestioni anarchiche che indirizzano verso la distruzione della macchina statale e non mostrano attenzione per il funzionamento delle sovrastrutture complesse, che Gramsci allude quando asserisce che «nella fase della lotta per l’egemonia si sviluppa la scienza della politica; nella fase statale tutte le superstrutture devono svilupparsi, pena il dissolvimento dello Stato» (Q. p. 1493)13. La consapevolezza epistemologica delle radici complesse di una indagine politica affiora nel confronto critico con il positivismo che avviene su basi differenti rispetto a quelle polemologiche dei tempi giovanili. Dalla disputa teorica e dall’esperienza storica Gramsci ricava l’istanza del carattere indispensabile di una scienza politica del marxismo perché non esiste grande innovazione senza politiche pubbliche, e in tal senso una padronanza delle tecniche del potere è necessaria se non si vuole cadere nel nichilismo politico o nel moralismo impolitico. Spiega Gramsci (Q. p. 1254): «lo Stato è lo strumento per adeguare la società civile alla struttura economica, ma occorre che lo Stato «voglia» far ciò, che cioè a guidare lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica. Aspettare che, per via di propaganda e di persuasione, la società civile si adegui alla nuova struttura, che il vecchio «homo oeconomicus» sparisca senza essere seppellito con tutti gli onori che merita, è una nuova forma di retorica economica, una nuova forma di moralismo economico vacuo e inconcludente»14. La volontà politica è altra cosa rispetto al culto irrazionale del volontarismo velleitario e il problema della decisione per innovare le cose rinvia alla scienza politica che soccorre i movimenti critici che devono operare con rigore e consapevolezza dei tempi delle istituzioni e dei requisiti delle procedure.
È dalle scienze positive di Mosca, Pareto, Michels, e non dal neoidealismo italiano, che Gramsci apprende gli arnesi per una “osservazione empirica” dei fenomeni collettivi, assapora la rilevanza di una indagine sulla polizia, la burocrazia civile e militare, l’esercito, ricava il ruolo della «scienza dell’organizzazione e dell’amministrazione in politica» (Q., p. 1562), recepisce la consuetudine a ricondurre la dinamica del potere ai «vari gradi del rapporto di forze, a cominciare dai rapporti delle forze internazionali», raccoglie l’istanza critica e analitica per cercare di affinare la logica della politologia15. Certo, in Mosca compaiono «quadri talvolta di maniera, ma con una sostanza di verità» (Q. p. 1979), in lui sfuma la distinzione qualitativa tra ordine politico e ordinamento giuridico, non viene posto un discrimine analitico congruo tra statica e dinamica del sistema (p. 1624). Anche in Michels si può trovare una analisi «imprecisa e gelatinosa, da un punto di vista solo ‘statistico-sociologico’» e però si tratta di una prima impresa esplorativa sul fenomeno dei partiti moderni. Un confronto serrato con le teorie politologiche elitiste consente a Gramsci di abbozzare una scienza critica della politica che non rinuncia al corredo tecnico-analitico indispensabile per una ricerca attendibile. «Forse un astronomo che non sappia servirsi dei suoi strumenti è concepibile (può avere da altri il materiale di ricerca da elaborare matematicamente) perché i rapporti tra «astronomia» e «strumenti astronomici» sono esteriori e meccanici e anche in astronomia esiste una tecnica del pensiero oltre alla tecnica degli strumenti materiali» (Q. p. 1425). Ma per l’indagine politica una conoscenza delle tecniche di funzionamento degli ordini istituzionali si rivela una condizione insurrogabile a correzione anche delle suggestioni attivistiche, pragmatiste, bergsoniane della gioventù.
Nella sua riflessione matura Gramsci (Q. p. 1425) critica una inclinazione positivistica ravvisabile in talune impostazioni marxiste: «Il saggio popolare: una teoria della storia e della politica concepita come sociologia, cioè da costruirsi secondo il metodo delle scienze naturali (sperimentale nel senso grettamente positivistico) e una filosofia propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o metafisico o meccanico (volgare)». Mentre sottopone a critica ravvicinata un materialismo ingenuo e privo di solidi fondamenti concettuali, Gramsci però recupera la necessità di un discorso critico sul metodo della ricerca che si rapporti anche con l...

Indice dei contenuti

  1. CoverImage
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. Introduzione alla seconda edizione
  6. Spunti di scienza politica
  7. Tra Federico II e Machiavelli
  8. La politica come scienza dello Stato
  9. Fratture originarie
  10. Poteri e densa societa civile
  11. Lo Stato dei partiti
  12. Il momento carismatico
  13. Un pensiero della crisi
  14. La società regolata