Il nuovismo realizzato
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Il nuovismo realizzato

Informazioni su questo libro

Nel tempo della video-politica abbondano politici che con la narrazione riescono a incantare un pubblico pigro, ma, dopo l'agevole trionfo elettorale, urtano contro la complessità dell'azione di governo. La figura di Matteo Renzi opera anch'essa entro questa scissione tra la semplificazione – suggerita dall'affabulazione a misura dei media – e la complessità della decisione; tra la ricerca di un consenso alla persona – che attraverso narrazioni fiabesche scavalca ogni spartiacque politico-identitario – e la lettura delle spiacevoli tendenze macroeconomiche ostinatamente rimosse con fantastiche fughe multimediali. Il compimento del nuovismo (ostile ai partiti, alle ideologie, al radicamento sociale, all'analisi specialistica) approda a una dimensione postpolitica che con il governo della narrazione accompagna il sistema verso un mesto declino storico. Con una "filosofia politica del presente" Michele Prospero propone una lettura per certi versi controcorrente dei processi di crisi della seconda Repubblica.

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L’antipolitica
La talpa antipartitocratica
L’affermazione di Renzi, quale espressione di una politica trasversale e senza radici percepibili, cioè così indeterminata nel suo volto programmatico da inseguire uno sfondamento a destra, a sinistra, al centro interroga il senso delle esperienze che hanno scandito le tappe della seconda Repubblica1. Achille Occhetto ha rivendicato la continuità delle gesta vincenti del giovin rottamatore con le sue imprese di oltre vent’anni fa alla Bolognina. Alla guida della agonizzante sinistra comunista, egli nel 1989 si dichiarava per un “partito che fa opinione”, così effimero da essere denominabile “Italian liberal party2. C’è, in effetti, un filo che collega i paesaggi odierni della post-politica a delle scelte evocative maturate agli inizi degli anni Novanta. Il ponte che collega la Bolognina alla Leopolda è il nuovismo. Ben altra cosa rispetto alle inclinazioni di Machiavelli (per “tentare cose nuove”, al gusto per la “mutazione”, per “l’innovazione”, alla ostinazione per “riformare uno stato”)3 il nuovismo annunciava la sepoltura dell’identità in nome di un oltrismo metafisico, coltivava i miti di carovane per tramortire l’odiata forma partito, caldeggiava le ubriacature maggioritarie per demolire la stanca democrazia consociativa4.
Queste suggestioni maltrattavano alla radice la forma partito vista come un negativo residuo dell’archeologia novecentesca. Le spinte nuoviste non solo hanno cancellato ogni traccia di rosso nella storia repubblicana ma hanno spianato la strada al mito della democrazia immediata. I cittadini, con lo scettro finalmente recuperato, si dedicano all’investitura di un leader supremo, con in mano il mandato pieno all’esercizio del comando. Nel linguaggio, Renzi rimarca questa determinazione del decisore che non demorde dinanzi al dissenso in aula: “chi fa ostruzionismo mette dei sassi sui binari, noi li toglieremo e faremo partire il treno Italia, piaccia o non piaccia”5. Se l’obiettivo originario era quello di abbattere ogni memoria di una democrazia dei partiti, la svolta di Occhetto – di recidere l’autonomia politica di una parte della società in nome della battaglia dei cittadini contro la partitocrazia – si compie ora nel nuovismo realizzato6. Un leader pseudo carismatico monopolizza lo spazio della politica e riduce i non-partiti residuali a un docile prolungamento del corpo sovrano del capo che va alla continua ricerca di un consenso alla persona trainato da una grancassa mediatica senza paragoni.
Non è però il politico fiorentino che uccide la forma partito e porta al trionfo la videocrazia. È piuttosto il lento declino della progettualità politica e culturale della sinistra a determinare un vuoto che si presta a essere occupato da scorciatoie leaderistiche. Quando la sinistra perde negli anni ogni consistenza organizzativa e smarrisce qualsiasi connotato ideale, lo pseudo partito che si trascina con il peso di ricordi ormai privi di impatto politico diventa un terreno fertile per la penetrazione di strategie mediatiche che conducono al dominio della fabbrica di narrazioni ingannevoli. Il successo elettorale di Renzi, più che un sicuro argine al populismo altrimenti alle porte, si configura come un’affermazione della sempre potente ideologia antipartito. La seducente carta dell’antipolitica è, almeno in parte, uno dei segreti dell’avanzata renziana premiata come un castigo esemplare della classe politica. Il leaderismo assoluto, che oggi celebra i suoi fasti, è il compimento di un senso comune ventennale per il quale i partiti sono solo un impaccio e per questo bisogna abolire gli iscritti, cancellare i circoli e accompagnare verso l’istituzionalizzazione forzata l’antico mito del sindaco d’Italia. Il nuovo è sempre una rispolverata di vecchie tendenze e di appassiti miti che rinascono sebbene cadaveri. Al crepuscolo della seconda Repubblica, si ripresentano come nuove le stesse illusioni per le quali il ceto politico aveva perso la testa all’alba radiosa dell’età bipolare.
In questo terreno minato, che dopo una lunga gestazione decompone i partiti e le mediazioni istituzionali, Renzi vince perché alla crisi catastrofica della rappresentanza (di cui egli è un’espressione) reagisce con la rapida costruzione di una leadership populista. L’avversione per il politico novecentesco (con una simbologia che disinnesca il conflitto sociale, erode la mediazione parlamentare, destruttura i partiti) prepara la strada a un paradigma populista che abbatte la rappresentanza in nome del mandato assoluto a un leader. Forza Italia che destruttura i partiti in nome di una più intensa comunicazione con il pigro elettore mediano, la Lega che rifiuta la mediazione degli interessi con le forme della immediata rappresentazione dei micro-interessi territoriali, il Pd che predilige lo spettatore distante che nei gazebo prende il posto dell’iscritto e dell’elettorato d’appartenenza definiscono un condiviso canone populista7. È possibile interpretare le trasformazioni dell’ultimo ventennio della storia repubblicana come un ciclo lungo caratterizzato da un deconsolidamento del sistema politico determinato dalla diffusione di una credenza antipolitica molto forte, e abilmente riscaldata da Renzi8. Ad abbattere l’autonomia e l’istituzionalizzazione dei soggetti del sistema politico hanno contribuito le categorie del nuovismo imposte da Occhetto, uno dei padri, per quanto preterintenzionale, della seconda Repubblica.
All’inizio della destrutturazione della compagine istituzionale, si riscontra la prevalenza egemonica di una cultura che, attecchendo nel Pci e negli ambienti dei cattolici democratici che sostituiscono la sensibilità sociale di Dossetti con le alchimie elettorali di Segni, perviene a un seguito di massa. Da una posizione ostile alla sfera politica, dipinta come simbolo del male e dell’immobilismo, essa arriva a conquistare il governo in un quadro di appannamento del rendimento della specifica funzione politica. Proprio dalla raggiunta postazione di comando viene disintegrata l’arena pubblica intesa come una dimensione autonoma e differenziata dagli interessi privati. L’antipolitica, categoria con la quale si suole interpretare gli eventi italiani, è un concetto di per sé ambiguo, per certi versi sfuggente e persino fuorviante se viene inteso come un semplice atteggiamento mentale critico verso la degenerazione dei partiti9. Una tendenza “a denigrare la politica” è sempre riscontrabile, ed è, secondo Hegel, sostenuta dai “moralisti” che ravvisano nella politica “un’arte di cercare il proprio utile a danno del diritto” o dai “politicanti da osteria” che vorrebbero solo “bere in pace” e per questo diffidano della “forma legale in cui si manifestano gli interessi dello Stato”10.
Sul piano definitorio, è arduo ricomprendere l’antipolitica in un’univoca determinazione che ne tracci il significato in un modo perentorio. Il tentativo di coglierne il senso partendo da un generico atteggiamento di rifiuto della politica si arrende dinanzi alla fisionomia di un concetto-ossimoro che rivela la circolarità dell’approccio meramente classificatorio: anche chi rifiuta la politica costruisce un’altra forma di politica. Dal punto di vista della statica definizione delle dimensioni del concetto, si perviene a una completa sterilità assiologica. A fini analitici si può però definire più utilmente l’antipolitica come un fenomeno che, da semplice devianza o credenza ostile coltivata da minoranze che si propongono al pubblico con delle pratiche eccentriche verso i paradigmi coltivati dall’establishment, assume una sconvolgente forza reale tale che, in prossimità delle giunture critiche della storia repubblicana, è capace di rompere gli equilibri del sistema e di modificare la disposizione degli attori, dei poteri, delle culture. Più che causa delle due catastrofi di sistema verificatesi in Italia nel corso di un ventennio, l’antipolitica come uso politico del risentimento segna l’irruzione convulsa di miti egemonici che conferiscono un senso autodistruttivo a un regime con degli apparati di dominio ormai privi di vigore effettivo dinanzi alla delegittimazione degli attori del potere. L’antipolitica diventa una costruzione abile e pianificata che definisce la forma ideologica con cui delle cause sotterranee di più lunga durata irrompono prepotentemente sulla scena e si rendono visibili come semplificazioni efficaci che operano sul piano delle credenze collettive. Negli ultimi vent’anni, si registrano nel sistema politico due grandi insorgenze del fenomeno dell’antipolitica come senso comune di massa. Una cultura pratica dal profilo intransigente penetra nel s...

Indice dei contenuti

  1. Un politico dell’occasione
  2. L’antipolitica
  3. La rivoluzione passiva
  4. Esercizi carismatici
  5. Il potere in un tweet
  6. Il governo pop
  7. La politica a costo zero
  8. Dopo Renzi