Il mio fascismo. Storia di una donna
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Il mio fascismo. Storia di una donna

  1. 264 pagine
  2. Italian
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Il mio fascismo. Storia di una donna

Informazioni su questo libro

Una testimonianza da leggere senza preconcetti, per capire meglio il periodo più tragico della nostra storia recente ed il dramma di una generazione travolta dagli eventi. Cosa può aver spinto una donna, e migliaia di altri giovani, a fare certe scelte? Anche in questo caso, come nelle nostre vite personali, solo la comprensione può permetterci di imparare la lezione della vita e guardare al futuro senza il timore del passato... In questo libro, Zelmira Marazio rievoca un periodo storico che risuona tuttora come un'opera lirica drammatica in cui lei, tra i personaggi scelti dalla vita a dispiegare il suo disegno, segue il sentiero del destino, con il cuore acceso dall'idealismo e dal coraggio di chi sa di combattere per la propria verità e che, da qualunque parte decida di schierarsi, non si spegne nel momento del pericolo e della sconfitta, ma continua ad amare quella luce che, a torto o a ragione, crede la migliore. L'importanza di dare voce a tutti gli strumenti che compongono una sinfonia per avere un ascolto completo, ci consiglia di leggere questa testimonianza senza preconcetti o giudizi, per poter inoltre raggiungere la consapevolezza che per cambiare il mondo si può solo partire da sé stessi. Il dolore di uno stesso popolo che non trova altra soluzione che levare le mani reciprocamente e con violenza, ci spinge a cercare in noi soluzioni nuove che facciano fiorire un nuovo paradigma nell'inconscio collettivo...

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Informazioni

Capitolo 1
Per iniziare il racconto della mia vita, dirò che sono nata (mi pare che sia questo il famoso incipit del David Copperfield), a Torino, nel Borgo Po.
Al fonte battesimale mi fu imposto il nome Zelmira, già portato da zie e prozie materne. Mia madre preferì chiamarmi Mirella, nome augurale tratto dal poema di Mistral.
L'amore di una madre meravigliosa mi ha circondata, mi ha fatta crescere serena e sana. Nel calore delle sue braccia ho cominciato a guardare il mondo, a registrarne i molteplici aspetti, a scoprirne le costanti.
Mia madre mi portava sempre con sé e, non avendo carrozzina, mi teneva tra le braccia. Con la testolina appoggiata alle sue spalle, come da un mobile, caldo balcone, volgevo lo sguardo sulle case del mio quartiere, ne godevo la regolarità, ne indagavo i particolari. C'erano piccoli segni, stampati sui muri con la vernice rossa, agli angoli delle strade - “Mamma cos'è?” - È la lettera b. - “Mamma, cos'è?” - La lettera a. -
A due anni, in quel modo, imparai a compitare.
Di tanto in tanto sulle facciate chiare scorgevo una forma strana, che nell'alternarsi di spazi bianchi e neri, disegnava un volto umano. Sì, la faccia di un uomo.
Chi è?
- È Mussolini. -
La incontravo spesso sui muri delle case quella maschera bianco-nera e mi divenne familiare, come e più dei segni alfabetici.
- Mamma, è Mussolini! - esclamavo appena lo scorgevo, compiendo il quotidiano rito di leggere il mio mondo da quel balcone privilegiato.
- “Mussolini”. -
Quel nome lo sentivo spesso ripetere nelle conversazioni del vicinato e a volte anche in famiglia. Eravamo tutte donne in casa, e nessuna si occupava di politica. Mia madre diceva sempre:
- Il suo nome, quando lo sentivo le prime volte mi ricordava il brigante Musolino. Infatti gli occhi da brigante ce li ha. -
Altre volte diceva: - È volgare quel suo motto: me ne frego. Però è un brav'uomo. Ha aumentato lo stipendio alle maestre, per amor di sua madre ch'era maestra. -
La predilezione per la professione magistrale, che era stata per generazioni l'occupazione caratteristica delle donne di casa mia, conferiva alla figura di quell'uomo prestigioso un alone di simpatia.
Ciò che lo riguardava era aureolato di fascino e di mistero.
Quando - dopo quattro lunghissimi anni di asilo infantile (allora la scuola materna si chiamava così) - arrivai finalmente a quella che io consideravo “la scuola dei grandi”, mi fecero imparare a memoria dei versi sciolti relativi al pane.
“Amate il pane, gioia della mensa, profumo del focolare.
Onorate il pane: il più santo premio alla fatica umana…..”
Non ci avevano fatto conoscere il nome dell'autore, che era Mussolini, ma lo scoprii da me in calce a un cartello allora affisso in tutte le botteghe di fornaio.
Via via che passavano gli anni quel nome diventava sempre più frequente sulla bocca delle maestre e della gente. La mamma - che per varie difficoltà familiari era rimasta insegnante elementare fuori ruolo - aveva incarichi temporanei nelle colonie estive e invernali, gestite dal comune di Torino.
Quando tornava a casa, portava quaderni ove con la sua armoniosa grafia aveva trascritto i testi delle canzoni che aveva cantato con i bambini. La sera, dopo cena, me le ricantava.
C'erano, tra quelle, “Miniera”, “Soldatini di ferro”, “La marcia della Marina”, ma la mia preferita era la canzone dei balilla.
- “Fischia il sasso…” La cantavo festante nelle mie scorribande in cortile coi miei compagni di gioco che, sia caso sia scelta, erano tutti maschietti.
Le maestre ci avevano già raccontato l'episodio del “ragazzo di Portoria” e ciò rendeva il canto ancora più appagante.
Meno piacevole - almeno per me - era cantare l'inno delle Piccole Italiane.
Mentre la canzone dei balilla era vibrante di orgoglio e prefigurava un futuro di ardimento e di gloria, quella delle bambine mi pareva melensa e mortificante.
“Siamo nembi di semente/ siamo fiamme di coraggio/ per noi canta la sorgente/ per noi brilla e ride il maggio”, cantavano i balilla.
Di contro, il miglior aggettivo regalato a noi bambine era “vispe”. Il nostro compito era quello di pregare Iddio “come augellini gorgheggianti” per la salvezza del duce; la nostra ambizione di crescere “forti e soavi insieme”; il nostro futuro di lavorare per la Patria nei nostri focolari.
Erano mete che già allora sentivo di non condividere appieno, perché troppo riduttive, rispetto alle mie aspirazioni, per quanto fossi d'accordo con la necessità di pregare per il duce.
Ma la scarsa capacità di entusiasmare dell'inno delle Piccole Italiane era presto dimenticata dalla gioia di indossare la divisa: camicetta e calze bianche, berrettino di seta a calza, gonna a pieghe, mantellina e scarpette nere. Ci chiamavano le rondinelle d'Italia ed eravamo così contente di correre alle adunate con le braccia aperte facendo sventolare dietro di noi le nostre larghe mantelle di panno. Sfilavamo cantando non il nostro canto di bambine ma quello più bello e solenne, quello che cantavano tutti: “Giovinezza”.
A scuola, coll'approssimarsi della primavera, la stagione più propizia alle sfilate e alle adunate, si intensificavano le esercitazioni di canto; le scolaresche scendevano in palestra e si disponevano attorno al pianoforte. La mia maestra con tono solenne scandiva:
- Ora il nostro pianista, il maestro, conte Piero Radicati di Primeglio, suonerà per voi gli inni della patria. Seguitelo con attenzione e cantate con il cuore. -
La solennità di quell'introduzione aumentava il mio entusiasmo. Il conte Piero suonava con passione e le maestre ci guidavano coi gesti e con la voce.
“Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza!”
A questo proposito mi permetto una piccola digressione.
Fin da piccola amavo studiare le parole, confrontarle, compararle, indagarne l'uso e il senso.
In quegli anni furoreggiava una canzone di cui ricordo perfettamente le parole e il motivo musicale. Era intitolata “Gioventù”.
Iniziava così: “Primavera baciata dal sole,/ c'è nell'aria profumo di viole…”
Il ritornello diceva: “Gioventù,/ la tua canzone lieta va,/ il ritmo tuo detterà/ nei cuori la felicità./ Bimba, tu/ il fiore sei di gioventù,/ un bacio dona e nulla più,/ o bimba, al tuo cantor.”
Che differenza c'è - mi chiedevo io - tra le parole gioventù e giovinezza? Proprio nessuna. Ma una era il titolo di un ballabile alla moda, mentre la seconda stava a rappresentare un inno di giorno in giorno più eseguito e più rispettato.
Era per me motivo di curiosità constatare il diverso destino di due canzoni, accomunate da un titolo di identico significato.
Si cantava:
“Sotto fasci d'allor/ nella luce del dì/ con mille bandiere passa/ il popolo d'Italia, trionfator/ ”.
E io, nella mia mente, lo vedevo quel popolo, coperto d'allori e di bandiere; e anch'io ne facevo parte.
Quando fummo in quinta elementare, la nostra scuola preparò una bella squadra di Piccole Italiane; avevamo imparato a marciare e a sfilare.
Un giorno di maggio si svolse non so quale manifestazione al Motovelodromo di corso Casale che, in linea d'aria, non distava molto dal nostro edificio scolastico. Io, che ero la più alta del gruppo, ebbi l'onorifico incarico di alfiere del gagliardetto della scuola.
Mi fu messa la tracolla di cuoio con l'incavo su cui appoggiare l'asta di metallo e mi fu insegnato come reggerla.
Partimmo fiere e felici cantando, ma il sole ardente del mattino e la non indifferente lunghezza del percorso cominciarono presto ad affievolire la nostra gioia. Restammo poi inquadrate sotto il sole ad assistere ad una cerimonia di cui non ricordo nulla.
Mi pare di poter affermare che al ritorno fossimo un po' mosce, ma giunte nei pressi della scuola, facemmo come i soldati di cui parla De Amicis nei “Bozzetti di vita militare”; rinvigorimmo il passo e riprendemmo a cantare a squarciagola per farci ammirare dagli altri scolari che nel frattempo stavano uscendo.
Io ebbi per alcune ore le dita della destra anchilosate ma ne ero molto fiera.
Negli anni '20 e '30, periodo della mia scuola elementare e dell'istituto magistrale, le mie idee e i sentimenti sulla patria e sulle sue vicende si andavano rafforzando.
C'è un particolare che mi pare importante ricordare.
La scuola “Roberto D'Azeglio” che frequentavo era un edificio a vari piani. Le classi maschili occupavano il pianterreno, quelle femminili i piani superiori. Al centro del grande pianerottolo del primo piano si trovava una lapide di bronzo: vi era inciso il bollettino della vittoria, firmato da Armando Diaz nel novembre del 1918. Sotto la lapide, ornata da una corona di alloro, stava un altro riquadro bronzeo, più piccolo. Portava i nomi degli ex alunni della scuola caduti nella guerra mondiale. Una lampada rossa sempre accesa, a forma di fiamma, ardeva davanti alle lapidi.
Era quello il sacrario della scuola.
Come in un rito, quando gli passavamo davanti, ci fermavamo sull'attenti e salutavamo romanamente. Era il nostro omaggio quotidiano alla memoria dei caduti.
Ricordo che talvolta la maestra mi dava qualche piccola incombenza nei confronti del direttore o delle colleghe di altre classi. Percorrevo i corridoi deserti e silenziosi e, quando mi trovavo sul pianerottolo, mi irrigidivo sull'attenti e salutavo quel sacrario col braccio alzato. Nessuno mi controllava, sarei potuta passare senza salutare, ma mi era impossibile. Ero lieta e orgogliosa di compiere quel gesto per onorare chi era morto per la Patria.
Può sembrare un particolare irrilevante, ma non è così.
Quel rito pose in me i fondamenti di un sentimento profondo: la sacralità della Patria.
Era il decennio successivo alla fine della guerra mondiale quando cominciai a leggere libri di una certa consistenza.
Prediligevo quelli che avevano un fondamento storico. Lessi decine di volte “La gran fiamma” di Fabiani, edito dalla Sei, narrazione ambientata sui monti del Trentino irredento durante la guerra. Conoscevo a mena dito le vicende di quei montanari tra cui quella di un coraggioso pastorello, protagonista del racconto, che animosamente difendevano la propria italianità pur sotto le angherie di un ottuso gendarme austriaco. Il romanzo aveva il suo lieto fine con la vittoria delle armi italiane e tanta era la gioia che condividevo col protagonista che riuscivo persino a compatire il povero gendarme che, solo e disperato nel villaggio in festa, piangeva la fine dell'impero austro-ungarico.
Un libro che mi avvicinò piacevolmente al mondo della romanità fu un volumetto che ricevetti in premio in terza classe. Faceva parte della fortunata collana “Storia delle storie del mondo”; era “Il natale di Roma” di Laura Orvieto. Anche questo lo imparai quasi a memoria. Le avventure dei figli di Rea Silvia, i riti propiziatori attorno al solco tracciato da Romolo, il formarsi della nuova comunità che accoglieva i fuggiaschi, la vita operosa dei primi cittadini scandita dalle feste stagionali in onore degli dei, il ratto delle Sabine e la conseguente feconda mescolanza di due stirpi in una sola città, tutto ciò mi affascinava e rendeva per me seducente tutto ciò che riguardava il mondo antico.
Contemporaneamente, la maestra ci leggeva, durante le ore pomeridiane dedicate al lavoro femminile, le vicende di Enea in un pregevole adattamento per l'infanzia. Mentre le mie mani armeggiavano maldestramente coi ferri da calza, la mia immaginazione seguiva Enea in fuga tra le rovine della sua città in fiamme. Ne conseguiva un lavoro a maglia sempre più disordinato. Mia mamma vi poneva rimedio la sera mentre io le raccontavo con passione le avventure dell'eroe troiano.
Non posso trascurare il “Cuore” deamicisiano, il cui impatto emotivo su di me - come su gran parte della mia generazione - fu grandissimo. Ne divoravo con entusiasmo le pagine, soprattutto quelle dei “racconti mensili” che mi esaltavano. Ammiravo il coraggio d...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. IL MIO FASCISMO
  3. Prefazione
  4. Note alla prefazione
  5. Introduzione
  6. Capitolo 1
  7. Capitolo 2
  8. Capitolo 3
  9. Capitolo 4
  10. Capitolo 5
  11. Capitolo 6
  12. Intermezzo
  13. Capitolo 7
  14. Capitolo 8
  15. Capitolo 9
  16. Capitolo 10
  17. Capitolo 11
  18. Capitolo 12
  19. Capitolo 13
  20. Capitolo 14
  21. Capitolo 15
  22. Capitolo 16
  23. Capitolo 17
  24. Capitolo 18
  25. Capitolo 19
  26. Capitolo 20
  27. Capitolo 21
  28. Capitolo 22
  29. Capitolo 23
  30. Capitolo 24
  31. Capitolo 25
  32. Capitolo 26
  33. Capitolo 27
  34. Capitolo 28
  35. Verdechiaro Edizioni
  36. Colophon