Che Guevara, la più completa biografia Parte I
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Che Guevara, la più completa biografia Parte I

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Corretta, chiara e ben documentata, corredata delle più belle foto che ripercorrono la vita e le imprese del Comandante. Prima parte: gli inizi dell'avventura, la rivoluzione. Parla il Che in prima persona, e i suoi compagni. Quello che il Che ha incarnato per milioni di persone è ciò che mantiene vivo in ciascuno di noi la passione per la vita e la libertà. Chi vive intensamente non può non amare il Che e in questo mondo di grigio materialismo e di tiepida spiritualità, egli ispira ancora chi crede nei valori umani, aldilà di qualsiasi opinione politica.

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La Bolivia
Come già si è detto, dopo la pubblica lettura della sua “lettera di commiato”, Guevara si è bruciato i ponti alle spalle, rendendo impensabile un suo rientro pubblico a Cuba. E poi da tempo ha maturato la volontà di portare la rivoluzione – il foco di guerriglia – nel suo continente.
Da cinque secoli in America Latina gli indios – che ancora oggi compongono il 60% della popolazione boliviana e peruviana – sono dominati dai discendenti dei Conquistadores spagnoli, i criollos, a loro volta succubi alla politica di Washington. Il Che calcolava che quando gli indios – novelli vietcong – fossero insorti contro regimi come quelli di Barrientos in Bolivia, gli USA sarebbero intervenuti a sostegno del loro alleato, come in Vietnam; a quel punto lo scontro avrebbe infiammato l’intero Sudamerica. «Crear dos, tres, muchos Vietnam es la consigna» proclamerà in un messaggio ai popoli dei tre continenti del Sud del mondo, per obbligare gli imperialisti a disperdere le loro energie. Questo è ormai il suo unico e definitivo obiettivo, ridando così vita al vecchio sogno bolivariano di liberare il continente. Il Vietnam stava dimostrando che la macchina da guerra degli Stati Uniti era vulnerabile alla guerriglia, e il Che aveva affermato: «Queste battaglie non saranno semplici combattimenti sulla strada con sassi contro le bombe lacrimogene, o pacifici scioperi generali. La lotta sarà lunga e dura, e il suo fronte sarà costituito dai nascondigli dei guerriglieri, tra la popolazione rurale massacrata, nei villaggi e nelle città distrutte dai bombardamenti del nemico. Stanno spingendoci a questa lotta, non esiste alternativa. Dobbiamo prepararla e deciderci a intraprenderla».
Guevara inoltre sostiene da tempo che la rivoluzione non può sopravvivere in un solo paese, e che per Cuba è indispensabile che si sviluppi in altri paesi latinoamericani, al fine di non restare isolata a sole novanta miglia dalla costa degli Stati Uniti.
Tralasciando la fantasiosa quanto assurda ipotesi che alcuni biografi – male documentati o in completa malafede – hanno azzardato, e cioè che il Che avrebbe lasciato Cuba per divergenze con Fidel Castro, tre sono sostanzialmente le motivazioni che lo portano a lasciare definitivamente Cuba per la Bolivia: la pubblica lettura della sua lettera, il desiderio di vedere realizzato il sogno bolivariano di liberare il continente, e da ultimo la convinzione di rompere l’isolamento di Cuba e del Vietnam.
C’è poi una quarta motivazione in quella scelta, affatto secondaria, segnalata da Antonio Moscato nell’introduzione a «In Bolivia con il Che – gli altri diari» edito da Massari editore:
«Dalle testimonianze indirette di molti stretti collaboratori del Che, ma anche da accenni espliciti in molti suoi discorsi al Ministero dell’industria e persino nel Diario di Bolivia, tra le motivazioni della sua scelta di andare ad aiutare con la propria esperienza altri processi rivoluzionari, emerge una riflessione autocritica sugli errori compiuti a Cuba anche per sua diretta responsabilità nell’imitazione del modello sovietico o cecoslovacco... Aiutare la vittoria di un’altra rivoluzione significava dunque non solo rompere l’isolamento del Vietnam e di Cuba, ma poter partire nella ricostruzione di una nuova società non da zero, ma tenendo conto dell’esperienza degli errori fatti».
Dopo l’esperienza seppur fallimentare di Guatemala, Argentina e Perù, ci sono segnali che fanno ben sperare per la riuscita dell’operazione: in Argentina, Ciro Roberto Bustos ha preso il posto di Jorge Ricardo Masetti; la Colombia e il Venezuela stanno lottando; Carlos Mariguela è pronto ad agire in Brasile e altrettanto Lobatón e Juan Pablo Chang in Perù. In Paraguay i Tupamaros stanno entrando in clandestinità, e il presidente del senato cileno, il socialista Salvador Allende, può assicurare aiuti e appoggi logistici.
In attesa di stabilire in quale di questi paesi iniziare la lotta, Guevara parte dalla Tanzania ai primi di marzo 1966 con destinazione Praga, dove si ferma quattro mesi per preparare la nuova spedizione. Lo accompagnano Harry Villegas e Carlos Coello, sue inseparabili guardie del corpo che lo seguiranno poi fedelmente in Bolivia con i nomi rispettivamente di Pombo e Tuma.
In completa clandestinità, grazie a passaporti di copertura, si installano inizialmente in un appartamento ammobiliato del centro praghese, ma in seguito si trasferiscono in una zona periferica, dove è meno facile dare nell’occhio. Presto vengono raggiunti da Juan Carretero (in Bolivia sarà noto come Ariel), e verso la fine del soggiorno da Ramiro Valdés e Alfredo Fernández Montes de Oca; quest’ultimo è il suo vecchio compagno della battaglia di Santa Clara e del ministero dell’Industria, che con il nome di Pacho nel novembre successivo lo seguirà in Bolivia.
Intanto le agenzie di stampa internazionale continuano a segnalare Guevara ovunque: c’è chi giura di averlo visto al confine tra il Brasile e il Paraguay vestito da monaco domenicano; altri assicurano di averlo visto a Córdoba, nella sua Argentina. Ma né i cechi, né i sovietici, né tantomeno la CIA sono al corrente del suo soggiorno in Cecoslovacchia. L’ex agente della CIA, Philip Agee, divenuto in seguito sostenitore di Guevara, nella prefazione al libro La CIA contro il Che afferma che i servizi statunitensi ritenevano che, dopo aver scoperto la sua spedizione in Congo, si trovasse ricoverato in un ospedale dell’Unione Sovietica in seguito all’assunzione di un medicinale scaduto contro l’asma.
Dopo aver a lungo meditato in quale paese portare la lotta contro l’imperialismo nordamericano e dopo aver abbandonato l’iniziale opzione del Perù, alla fine la scelta cade sulla Bolivia, il più indio e il più povero dei paesi andini, uno dei due paesi del sud America a non avere sbocchi sul mare (l’altro è il Paraguay). Dopo la guerra del Pacifico – nell’ultimo quarto del XIX secolo – il Cile aveva strappato alla Bolivia il deserto di Atacama, ricco di nitrato, e il porto di Antofagasta, il suo unico sbocco sul mare: come magro compenso, i cileni avevano costruito la ferrovia che va da Arica a La Paz. Poi fu l’Argentina ad annettersi parte del Chaco boliviano e, nel 1903, il Brasile si prese l’Acre. Al centro del continente, situata fra l’Amazzonia e la cordigliera delle Ande, la Bolivia è logisticamente ideale per irradiare la guerriglia verso i cinque paesi limitrofi: Perù, Argentina, Cile, Brasile e Paraguay.
Il suo vasto territorio, benché poco conosciuto, consente spazi per insediarvi una guerriglia clandestina da estendere successivamente ai paesi vicini, dove, come abbiamo visto, esistono già piccole realtà rivoluzionarie. Senza contare poi che all’interno del partito comunista boliviano (Pcb) c’è un gruppo di quadri legati a Cuba, e che un primo nucleo di giovani boliviani era stato addestrato a Cuba (alcuni di loro moriranno con il Che in Bolivia). Nel corso dell’addestramento miltare che Mario Monje (segretario del Pcb) e alcuni comunisti boliviani avevano svolto a Cuba, Fidel Castro lo aveva convinto a dare il suo contributo: collaborare con una iniziale lotta in terra boliviana per esportarla poi nei paesi vicini.
Nel disegno strategico di Guevara quindi, il foco di guerriglia in Bolivia sarebbe stato la colonna madre da cui la rivoluzione si sarebbe propagata in tutto il continente: «La Bolivia sarà sacrificata per creare le condizioni per la rivoluzione nei Paesi confinanti. Dobbiamo dar vita a un altro Vietnam nelle Americhe con il suo centro in Bolivia».
Già dal novembre 1964, in previsione di una possibile spedizione in Bolivia, Tamara Bunke Bider, Tania, si è infiltrata come talpa nel paese con l’identità di Laura Gutiérrez Bauer e la copertura di etnologa specializzata in archeologia e antropologia. Grazie al suo fascino riesce ad introdursi e stabilire strette relazioni nella cerchia dei notabili locali che contano presso il palazzo presidenziale. Sposatasi nel 1965 con il figlio di un importante ingegnere minerario, ottiene la cittadinanza e il passaporto boliviano. Su richiesta del Che, Tania deve tuttavia restare isolata dalla sinistra boliviana, al fine di non compromettere i piani successivi.
In marzo poi, da Praga il Che spedisce in Bolivia il capitano José María Martínez Tamayo, che conosce il paese, per preparare la spedizione. Compito di Tamayo è allacciare una rete organizzativa che comprenda il peruviano Juan Pablo Chang (detto El Chino, il cinese) e alcuni boliviani: i fratelli Inti e Coco Peredo, Jorge Vásquez Viaña detto Loro, Rodolfo Saldaña detto Rodolfo, Luis Tellería Murillo detto Facundo, Orlando Jiménez detto Camba, e Julio Luis Méndez detto Ñato.
Il 14 luglio il capitano Harry Villegas e il tenente Carlos Coello lasciano Praga per raggiungere in Bolivia José María Martínez Tamayo, con l’aiuto del quale devono reperire e allestire una fattoria isolata nel nord del paese che dovrà fungere da base di addestramento per i futuri guerriglieri. La zona prescelta dal Che è quella dell’Alto Beni, nel nordovest della Bolivia, vicino alla frontiera con il Perù e il Brasile.
Abilmente dirottata dal Pc boliviano, la scelta alla fine cade su una zona diametralmente opposta a quella prevista da Guevara; Roberto Coco Peredo in settembre acquista una sperduta finca (fattoria) di duecentoventi ettari nella foresta di Nancahuazú, vicino al Río omonimo e non distante dal centro petrolifero e guarnigione militare di Camiri, nel dipartimento di Santa Cruz, nel sud della Bolivia. Villegas e Coello prendono anche contatto con il Pc boliviano, il cui segretario generale Mario Monje aveva garantito a Fidel il suo contributo alla lotta armata.
Diversamente però da altri paesi latinoamericani come il Venezuela, la Colombia, il Nicaragua e Haiti, in Bolivia non era in atto alcun processo rivoluzionario. Guevara e i suoi uomini sarebbero quindi andati in Bolivia non per affiancare un processo già avviato, ma per avviare loro stessi un movimento di guerriglia. Contrariamente alle premesse e alle promesse, come vedremo in seguito, il Pc boliviano – allineato alla politica di distensione e «coesistenza pacifica» di Mosca – alla prova dei fatti girerà le spalle al Che, giocando sul fatto che le reali intenzioni dei cubani erano state fraintese. Secondo quanto affermato successivamente da Mario Monje – per tentare di giustificare il suo tradimento – gli accordi presi con Fidel prevedevano che la Bolivia sarebbe stata solo una zona di transito e un trampolino di lancio per lo sviluppo di una guerriglia in Argentina, e non il luogo deputato per la guerriglia.
Mario Monje e gli altri dirigenti del Pcb (Jorge Kolle, Humberto Ramírez, Simón Reyes e Ramiro Otero) agirono certamente in malafede e, come cercheremo di dimostrare in un capitolo successivo, il comportamento da loro tenuto è ben più grave di un semplice boicottaggio.
Nel mese di settembre appare sulla scena una figura che risulterà rilevante nelle vicende successive; si tratta del giovane francese Régis Debray, giornalista, scrittore e professore di filosofia. Vicino alla causa rivoluzionaria latinoamericana, noto agli ambienti della sinistra boliviana, Fidel Castro gli assegna un duplice compito: allacciare rapporti con il sindacato dei minatori di Moisés Guevara Rodríguez (soltanto omonimo del Che), che aveva rotto i rapporti sia con il Pc boliviano (filosovietico) sia con il gruppo maoista di Oscar Zamora, al fine di valutare la sua disponibilità per azioni di guerriglia. Inoltre, Debray avrebbe dovuto condurre uno studio geopolitico nell’Alto Beni in previsione di insediare in quella zona un foco di guerriglia, senza tuttavia essere a conoscenza del progetto del Che. Tramite emissari inviati a Praga, Fidel inoltra messaggi al Che auspicando un suo rientro a Cuba, sia per i vantaggi in termini organizzativi e di risorse di cui avrebbe potuto disporre per completare l’organizzazione della spedizione boliviana, sia per evidenti motivi di sicurezza personale. Dopo un iniziale rifiuto, il Che alla fine accetta di rientrare a Cuba. Ovviamente lo farà in incognito, all’insaputa di tutti. Così Fidel Castro ricorda quel periodo:
«A lui, con quel carattere particolare, costava molto l’idea di tornare a Cuba dopo averle detto addio, e io lo convinsi a ritornare, perché era la cosa più conveniente ai fini pratici di quello che lui voleva fare».
Il 19 luglio 1966 con un passaporto uruguaiano a nome Ramón Benítez e accompagnato da Alberto Fernández Montes de Oca, a Praga il Che prende un treno con destinazione Vienna, e da qui raggiunge prima Ginevra poi Zurigo; qui prendono un aereo che, via Mosca, li riporta a L’Avana.
Giunto a Cuba in clandestinità, l’ormai trentottenne Guevara si stabilisce in una finca nella provincia occidentale di Pinar del Río. Qui, in totale segretezza, si ferma per tre mesi, nel corso dei quali vengono addestrati i sedici combattenti che lo seguiranno in Bolivia.
La selezione degli uomini è accurata. I candidati non mancano, ma sceglie quelli più simili a lui, capaci di vincere la fatica e le privazioni, la sete e la fame, e che non hanno paura della morte. Sceglie prima di tutti quelli della vecchia guardia: per primi i due della sua scorta, il nero ventiseienne Harry Villegas (Pombo) e il ventiseienne Carlos Coello (Tuma), praticamente dei figli, amici di sempre, che sono con lui fin dai tempi della Sierra Maestra. Poi Leonardo Tamayo, il “piccolo indio”, messaggero dai piedi alati che volava per la Sierra, e il trentunenne Alberto Fernández Montes de Oca (Pacho o Pachungo), che a Santa Clara comandava un plotone camminando dieci metri avanti ai suoi uomini quando c’era da affrontare un carro armato e che ha appena trascorso con lui gli ultimi mesi a Praga. Ci sono poi il ventinovenne comandante Gustavo Machín Hoed de Beche (Alejandro), il trentenne capitano Jesús Suárez Gayol (Félix o el Rubio, il biondo), il quarantunenne comandante Juan Vitalio Acuña Núñez (Vilo o Joaquín) il più vecchio del gruppo, il trentacinquenne capitano Manuel Hernández Osorio (Miguel o Manuel), il trentatreenne capitano Orlando Pantoja Tamayo (Olo o Antonio), Leonardo Nuñez Tamayo (Urbano) fedele al Che fin dal 1957, il ventiseienne Eliseo Reyes Rodríguez (a Cuba capitán San Luis, in Bolivia Rolando), il nero trentunenne ex studente di medicina Octavio de la Concepción de la Pedraja (Morogoro in Congo, Moro in Bolivia), il trentatreenne Israel Reyes Zayas (Braulio) uno dei compagni di Raúl Castro sulla Sierra, che aveva seguito il Che in Congo; ci sono ovviamente i fratelli José María Martínez Tamayo (già Papi, in Bolivia Ricardo) trentenne, e René Martínez Tamayo (Arturo) venticinquenne. Infine ci sono gli uomini più vicini a Camilo Cienfuegos: il comandante Antonio Sánchez Díaz (noto come Pinares, in Bolivia prenderà il nome di Marcos), e il ventisettenne capitano Dariel Alarcón Ramírez (Benigno). In tutto sedici uomini: quattro comandanti, sette capitani, cinque tenenti; di questi, cinque sono membri del comitato centrale del partito comunista cubano.
Ricorda Fidel: «Fu lui a scegliere il gruppo... era un insieme di guerriglieri già sperimentato, visto che quello che doveva fare il Che richiedeva gente davvero speciale».
Complessivamente alla guerriglia in Bolivia prenderanno parte cinquantadue combattenti: oltre ai sedici cubani e al Che, vi parteciperanno l’argentino Ciro Roberto Bustos (Mauricio o Carlos), il francese Jules Régis Debray (Danton) e la tedesco-argentina Tamara Bunke Bíder (Tania); ventinove i boliviani:
Roberto Peredo Leigue (Coco), suo fratello Guido Alvaro Peredo Leigue (Inti), Jorge Vázquez Viaña (Loro o Bigotes), Julio Luis Méndez Korne (Ñato), Moisés Guevara Rodríguez (Moisés), Simeón Cuba Sarabia (Willy), Aniceto Reinaga Gordillo (...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. CHE GUEVARA la più completa biografia . PARTE I
  3. Introduzione
  4. Nota
  5. Dalla nascita al Guatemala
  6. Breve storia di Cuba
  7. Ernesto Guevara diventa il Che
  8. A Cuba
  9. Il Che verso la leggenda
  10. Ministro dell’economia e banchiere
  11. In Congo
  12. La Bolivia
  13. Post mortem e le campane della storia
  14. Galleria immagini 01
  15. Colophon